ciclo di incontri - Marzo 1998
Quaderno n. 73
Il racconto della deportazione nella letteratura e nel cinema
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Il racconto della catastrofe:
“Shoah” di Claude Lanzmann


Federica Sossi


Inizio il mio intervento con una citazione del regista Lanzmann: ‘Il film non è fatto con dei ricordi, l’ho saputo fin dall’inizio, il ricordo mi fa orrore il ricordo è debole. Il film è l’abolizione di ogni distanza tra il passato e il presente. Ho rivissuto questa storia al presente.’

Si trattava, per Lanzmann, di partire dall’impossibilità del ricordo e dall’impossibilità di raccontare. Una sorta di paradosso che, però, solo apparentemente è tale. Noi abbiamo visto soltanto una sequenza del film[1], una tra le più drammatiche e toccanti, ma in realtà tutto il film è strutturato in questo modo,  Lanzmann cioè prende i testimoni estremi dell’estremo e li fa parlare in spazi che, in nessuna immagine, mostrano il passato. Prende testimoni estremi, nel senso che interpella le vittime, gli spettatori e i carnefici (richiama così il titolo di un libro di Hilberg, uno dei massimi storici della Shoah che viene intervistato da Lanzmann nel corso del film), ma porta tutto all’estremo.

Le vittime sono quelle del Sonderkommando, cioè di quelle squadre speciali di ebrei selezionati nei campi di sterminio dalle SS, per lavorare intorno e all’interno delle camere a gas, per dare poi il prodotto finale, la morte.

Gli spettatori sono i contadini polacchi che continuavano a lavorare la terra attorno ai campi di sterminio oppure gli abitanti polacchi di un villaggio che hanno assistito alla deportazione di tutti gli ebrei da quel villaggio verso i campi.

I carnefici sono le SS che lavoravano all’interno del campo di sterminio.

Si parla soltanto di territorio polacco, quasi esclusivamente di campi di sterminio, quei campi che avevano l’unica funzione di sterminare le persone, diversi dai campi di concentramento dove i detenuti venivano anche uccisi, ma in cui svolgevano anche altre funzioni, tra cui quella di lavorare per i tedeschi.

Il film è un continuo raccontare, ricordare e testimoniare, ma ognuna di queste funzioni si trova ad essere stravolta. Lanzmann dice che i pochi sopravvissuti delle squadre speciali, che a loro volta finivano nelle camere a gas, come ricorda anche Levi ne ‘I sommersi e i salvati’, non sono dei testimoni, ma  sono attori e personaggi. La tecnica usata è quella di far parlare e ricordare, rimettendo in scena i gesti che essi stessi facevano nel passato. Da questo punto di vista la “scena del barbiere” è del tutto emblematica. Lanzmann non intervista Abraham Bomba in un luogo neutro, ma lo intervista in Israele in un negozio da barbiere, dove egli rifà i gesti che faceva nel campo a Treblinka, quando tagliava i capelli alle donne prima che entrassero nelle camere a gas. Proprio per questa messa in scena, questa ripetizione dei gesti del passato, i ricordi non sono  veri ricordi, ma atti, attualizzazioni e ripetizioni.

I discorsi e i racconti sono certamente tali, ma quasi tutti vengono attraversati da un momento in cui c’è un vuoto di parola, il discorso precipita verso questo momento di silenzio e una verità emerge dalla crisi del discorso, dal suo spezzarsi, dal suo interrompersi. Da questo punto di vista, di nuovo, la scena del barbiere è emblematica; il barbiere racconta e ricorda; noi all’inizio sentiamo una sorta di distanza dal suo racconto, dovuta alla distanza che egli stesso ha rispetto alla storia che sta raccontando, come se quel passato non fosse il suo passato, come se quel passato fosse accaduto a qualcuno d’altro, lo allontana da sé, usando la terza persona per parlarci del suo passato. Poi improvvisamente c’è il silenzio, l’emozione del testimone, del barbiere, ma anche la nostra.

Il discorso viene interrotto, questa distanza emotiva anche  e il passato non è fissato, non viene posto al passato. È come se il barbiere riuscisse a parlare di questo suo passato solo in terza persona, allontanandolo quindi da sé, e poi improvvisamente riuscisse a dire ‘io’ rispetto a quel passato, come se potesse riconoscersi in quel passato, solo nel momento in cui non riesce più a parlare, nel momento di assoluta emozione, del silenzio.

Si diceva dunque rottura della funzione del discorso, del raccontare, del ricordare. In questo quadro di rottura c’è un’altra rottura che, a mio avviso, riesce a inglobare tutte le altre: ‘Hier ist kein Warum’: ‘Qui non c’è perché’. Questa  frase viene evocata da Primo Levi in una delle pagine iniziali di ‘Se questo è un uomo’, nel momento in cui egli entra nel campo di Auschwitz, ed è innalzata a legge-non legge del campo.

Lanzmann riprende questa frase, intitola così la pagina di presentazione del film, ma le dà una maggiore estensione. Non soltanto nel campo domina l’assenza di una ragione per tutte le infinite regole non scritte che sovrastavano la vita dei detenuti, ma l’intero episodio della Shoah non ha un perché, non ha una ragione: porsi la domanda del perché gli ebrei siano stati sterminati e cercare di darvi una risposta sarebbe in un certo senso blasfemo. Dunque la stessa possibilità di trasmettere questo episodio deve rispettare questa assenza di ragione. Si deve ascoltare, leggere. Avvicinarsi ai luoghi dove ciò è avvenuto, mantenendo una sorta di atteggiamento etico dettato da una disposizione iniziale di non comprensione. Ciò significa che nessun vero sapere preesiste alla trasmissione di questo episodio, ma che la trasmissione stessa è il sapere.

‘Hier ist kein Warum’.

Questa frase richiama l’attenzione di Lanzmann al suggerimento di Primo Levi; in realtà questo non è l’unico punto in cui Lanzmann è attento ai suggerimenti di Levi. A partire da ‘Se questo è un uomo’,  in tutte le sue interviste e testimonianze ed, infine, anche ne ‘I sommersi e i salvati’, Levi insiste sul fatto che nel campo domina la babele linguistica, la confusione di linguaggi e la conseguente incomprensione che essa crea; si muore sì di fame, di freddo, di fatica, ma si muore anche, del fatto di non comprendere le lingue che nel campo vengono parlate(ciò vale soprattutto per i detenuti greci e italiani).  Si muore dunque di incomprensione, non si capiscono le lingue che gli altri detenuti parlano, ma soprattutto non si capisce la lingua in cui vengono dati gli ordini, che quindi non vengono eseguiti immediatamente, come, invece, la regola del campo vuole.

Lanzmann rispetta questo universo linguistico multiplo e confuso; egli intervista quasi sempre in francese, se non nei casi in cui i suoi interlocutori parlino le lingue che egli conosce come l’inglese o il tedesco. Ma i suoi testimoni-attori parlano anche altre lingue: lo yiddish, l’ebraico, il polacco. Continuamente noi, in quanto spettatori, passiamo da un universo linguistico ad un altro, passiamo dall’ascolto di una lingua a un’altra, e veniamo a nostra volta proiettati e catturati in un universo di dispersione linguistica che, da un lato, rispecchia quella confusione linguistica di cui parlava Levi, dall’altro, rispecchia anche la confusione linguistica del dopo-Shoah, cioè l’irradiamento nei vari universi linguistici e quindi geografici che la Shoah  ha avuto. Infatti i sopravvissuti molto spesso non sono tornati nelle loro case e si sono dispersi per il mondo.

Questa è una breve descrizione del contesto, utile a chi non ha visto l’intero film.

Il film è doppiato ma si è fatta questa scelta di mostrarvi almeno una scena tratta dall’originale, per far capire il metodo usato da Lanzmann. Nella versione originale, i sottotitoli sono in francese mentre gli intervistati usano lingue diverse, con una traduttrice che compare a sua volta in scena e che a sua volta è un personaggio del film; come se ci fosse bisogno di una mediazione delle cose dette.

Il film dura più di 9 ore, è stato presentato in Francia nel 1985, ed è diventato subito un evento, sia dal punto di vista cinematografico, sia della rappresentazione della Shoah. Per arrivare a queste nove ore Lanzmann ha lavorato per più di dieci anni nella selezione del materiale. Le immagini che noi vediamo sono tutte immagini del presente. Si vede Treblinka oggi con le pietre, su cui Lanzmann insiste moltissimo, che simbolizzano la morte; si vede Sobibor: oggi, una foresta in cui la natura copre la storia e quindi in cui il volere dei tedeschi si è realizzato, quello cioè di coprire attraverso la natura le tracce dello sterminio avvenuto. Poi vediamo la Germania attuale, la Polonia, Israele, tutto viene riportato all’oggi per far emergere il passato in una sorta di accecamento dello spettatore: quel passato non viene mai mostrato, non è mai visto perché noi siamo accecati rispetto a quel passato.

Lanzmann esprime così la consapevolezza che quel passato non può essere rappresentato.

A partire da questo contesto, vorrei allargare il mio discorso, perché il film di Lanzmann apre delle questioni decisive, sapendo suggerire anche risposte, rispetto a  quello che si potrebbe chiamare con un brutto termine filosofico, la ‘pensabilità’ di questo evento di morte che ha segnato una cesura nella storia del nostro secolo.

Aggiungo, come suggestione personale, che le questioni poste da questa cesura, cioè dalla Shoah, non riguardano soltanto la Shoah e non riguardano soltanto il nostro presente rispetto al suo rapporto con quel particolare passato. Non ci pongono dunque soltanto questioni e domande del tipo come ricordare, come commemorare o come fare storia della Shoah, ma hanno anche una pregnanza di attualità: in questi anni  tutti noi abbiamo visto i genocidi e gli etnocidi assurgere a norma del modo di risolvere i conflitti e abbiamo visto contemporaneamente l’immediato oblio proprio a causa del modo in cui ci venivano presentati. Li abbiamo visti presenti alla televisione ma dimenticati immediatamente, relegati nel mondo virtuale oppure, nel caso dei genocidi in Ruanda o nell’ex-Jugoslavia, relegati in un mondo barbarico, che non era in grado di dialogare, se non con una sorta di orrore, con la nostra civilissima Europa.

Ritorno al film e a una citazione di Lanzmann ‘Ho cominciato dall’impossibilità di raccontare una storia’.

Una delle prime questioni del dopo Auschwitz è appunto quella del racconto: come, cioè, narrare e quindi come comunicare un’esperienza di morte, come usare il linguaggio comune, quello che tutti noi conosciamo per comunicare e raccontare un’esperienza che nessuno conosce e che va al di là della nostra comune capacità di immaginazione. Come dire, per usare ancora le parole di Levi, non la fame ma ‘quella’ fame, come dire che Auschwitz ‘è’ fame, come far sapere l’annientamento e lo sterminio, la morte quotidiana e di massa, le fabbriche della morte, quando il proprio stesso essere in quella esperienza era negato, perché negato era appunto l’io e la sua capacità di vedere, di sapere, di conoscere e di integrare, così, nel proprio sé l’esperienza vissuta.

Come assumere la voce del testimone, come assumere dunque il proprio io dicendo ‘io dico, io giuro di dire la verità’ rispetto ad una esperienza che sin dall’inizio ha visto la negazione della propria individualità. Per tutto ciò è emblematico il numero di matricola del campo di Auschwitz, che toglieva il nome e cognome ai detenuti.

Come assumere il proprio io rispetto ad una esperienza in cui non c’era spazio nemmeno per quella individualità estrema che è l’individualità della nostra morte, perché sin dall’inizio si era come gli altri, si era già altri e si moriva come altri.

Come parlare e in quanto testimone sempre alla prima persona ed aprire così lo spazio della memoria comune, che mette necessariamente al passato il passato, quando invece l’esperienza di Auschwitz è l’esperienza di una temporalità che non riesce a trascorrere, è in un certo senso un’esperienza atemporale, c’è un vissuto, un’ora, un presente eterno, nel quale non c’è da parte del detenuto la possibilità di una sua proiezione nel futuro, il suo presente sempre uguale non permette il trascorrere di quello stesso presente nel passato, e non permette così di avere coscienza delle tre dimensione della temporalità che invece costituiscono la nostra esperienza quotidiana e normale.

La questione di fondo è, dunque, quale memoria e come si riesca a trasmettere questo evento. Ovviamente questo riguarda anche l’interrogativo di che cosa voglia dire testimoniare, visto che uno dei modi in cui si è costituita la nostra memoria della Shoah è la testimonianza.

La prima domanda dunque è quale memoria.

Uno dei modi di rispondere a questa domanda è stato quello dei memoriali dell’Olocausto: il museo Yad Vashem a Gerusalemme, il Museo dell’Olocausto a Washington, le infinite discussioni sul modo in cui lo stesso luogo di Auschwitz è stato commemorato nel corso degli anni, e, ancora,   Berlino, dove dovrebbe sorgere un enorme memoriale, discusso in Germania a tal punto che, recentemente, un giornalista tedesco ha affermato che il memoriale vero e proprio era costituito dallo stesso dibattito in corso. 

Il suggerimento di questo giornalista permette, forse, di vedere quale sia la funzione del memoriale e che cosa esso sia, cioè un luogo nello spazio attuale in cui il passato viene fissato, ma un luogo in cui la comunità attuale si riconosce, il modo in cui essa si appropria di quel passato, lo integra in sé o, nel peggiore dei casi, lo fissa nello spazio per espellerlo da sé.

La domanda, a questo proposito, credo possa essere se Auschwitz è integrabile e se Auschwitz è inglobabile: forse e in parte questo può avvenire  in Israele, dove al momento della fondazione dello stato nel 1948 un terzo della popolazione era costituito dai sopravvissuti della Shoah.

Rimane comunque la domanda se Auschwitz sia integrabile e fissabile in quanto passato in Germania e se Auschwitz sia integrabile ad Auschwitz. Questo per quanto riguarda il primo modo di rispondere alla domanda quale memoria, la memoria del memoriale.

Un altro modo di rispondere è invece attraverso la memoria dei nomi e la nominazione. La nominazione è anche  una corrente storica, già presente in vari memoriali, dove le vittime vengono ricordate con il loro nome. In Italia questa corrente storica è rappresentata da quell’enorme lavoro di ricerca dei nomi dei deportati ebrei italiani, svolto, per il Centro di Documentazione Ebraica, dalla storica Picciotto Fargion e confluito poi nei due volumi che costituiscono il testo ‘Il libro della memoria’[2] che è un elenco dei circa settemila deportati ebrei italiani: una sorta di tentativo per assicurare la sopravvivenza di coloro che sono morti. Non voglio negare l’utilità per la comunità attuale di un simile lavoro, né negare l’aspetto di rituale religioso che questo tipo di nominazione comporta. Si tratta però della volontà di negare il negativo. Si cerca una duplice negazione del negativo, si cerca una forma di sopravvivenza nella nostra memoria dei morti, ma nominandoli si tenta anche di negare il modo in cui quella negazione è avvenuta, nel senso che le vittime di Auschwitz avevano perso la loro individualità, il loro nome, ben prima di finire nelle camere a gas e forse uno degli scandali dalla Shoah è proprio quello dell’anonimato, della morte burocratica a cui abbiamo assistito.

Un altro modo per rispondere a ‘quale memoria’ è quello più problematico e, proprio per questo, più in grado di porci dei problemi, di essere presente nel dopo inquietandoci, del racconto.

Esiste, però, un modo del racconto in cui, anziché far emergere i paradossi e le contraddizioni, questi ultimi possono essere messi semplicemente a tacere. A mio avviso, questa soluzione è quella adottata da Spielberg,[3] che racconta una storia intensa, drammatica, emozionante, la quale però, in nessun momento, lascia intravedere la difficoltà di essere raccontata, la difficoltà di costituirsi in quanto racconto. Ciò per il semplice motivo che la storia che ci viene narrata è una storia di vita, in cui c’è un eroe, il protagonista Schindler,  accanto al quale ci sono delle comparse relegate in secondo piano: ‘i mille ebrei di Schindler’.

Apro una parentesi polemica rispetto alla morale che ci viene suggerita da questo film. Schindler può essere un giusto per un popolo perseguitato, può essere un giusto per gli ebrei che egli ha salvato e per i discendenti di quegli ebrei nati grazie all’azione di Schindler. Invece io trovo molto problematico e quasi scandaloso che a tutti noi venga proposto come modello un uomo che solo alla fine dei suoi intrighi amorosi e di affari, che solo dinanzi alla distruzione del ghetto e non invece innanzi alla sua stessa esistenza, riesce finalmente a distinguere che cosa è il male e a scegliere dunque per il bene.

Ritorno però al discorso di Lanzmann, perché a mio avviso egli non soltanto in questa citazione (‘sono partito dall’impossibilità di raccontare una storia’) sceglie rispetto a Spielberg, e prima di Spielberg, un modo completamente diverso di raccontare. Sceglie di raccontare tenendo presente l’impossibilità di raccontare questa storia. Effettivamente quasi tutti i sopravvissuti che poi hanno testimoniato parlano dell’impossibilità di comunicare e di far diventare racconto, storia, memoria l’esperienza della morte burocratica anonima che è stata la Shoah; un’esperienza non comunicabile, un’esperienza che non passa di bocca in bocca, che noi ascoltiamo senza integrarci in essa e che interrompe la possibilità di farsi storia e racconto, pur raccontandosi e narrandosi.

Dunque la domanda è ‘come raccontare senza raccontare, come ricordare senza ricordare’. Io credo che si possa rispondere dicendo che si può raccontare ‘rispettando l’assenza di storia e l’assenza di ricordo’. Ma, forse, rispettare è una parola sbagliata, perché implica un gesto di volontà, un gesto saputo da parte del testimone e di colui che narra, racconta, ricorda questa storia. Io non trovo invece questo gesto di volontà nelle scritture che hanno parlato della Shoah; nelle scritture di testimonianze si trova piuttosto un gesto in cui l’assenza della narrazione e l’assenza del ricordo emergono dalla scrittura stessa, fanno irruzione sulla scena, come fa irruzione il silenzio di Abraham Bomba che pure racconta e voleva raccontare, voleva distanziarsi anche nel racconto dal suo ricordo. Un gesto appunto, da cui emerge questa assenza di memoria e di ricordo.

Emerge dalla scrittura l’insistenza con cui Levi e altri testimoni della Shoah ci hanno dato le loro pagine, negando quasi sempre il valore stilistico di queste pagine, come se la dignità della memoria richiedesse una non dignità dello stile, un non intervento stilistico da parte dell’autore, un ipotetico e irraggiungibile grado zero dello stile. Questa insistenza sul fatto di dire che non c’è stile nella propria testimonianza (per esempio Levi dice di non essersi mai posto problemi di stile nello scrivere ‘Se questo è un uomo’) è solo uno degli indici di come siano proprio l’affetto, il sentimento, il dolore, la morte di questa esperienza ad irrompere sulla scena con un’irruenza tale da spezzare qualsiasi capacità ‘autoriale’, cioè di essere autore della propria storia da parte  dello scrittore. In questo caso, l’autore nega se stesso in modo illusorio, perché non c’è alcuna pagina scritta che non possa avere uno stile individuale. Nega se stesso per cercare di dare dignità alla propria memoria, nega l’individualità dello stile.

Ovviamente in tutti gli elementi di un racconto autobiografico, c’è l’identità del narratore e dell’autore, c’è l’identità del narratore e del personaggio principale e la storia viene raccontata in una prospettiva retrospettiva, cioè da un’ora in cui la storia viene narrata, si passa al momento del passato in cui la storia era vissuta. Solo che a differenza delle autobiografie qui abbiamo una materia narrata che spinge e sospinge il racconto non verso il racconto di sé, verso il racconto della propria esperienza, ma invece verso il racconto dell’esperienza degli altri, della vita degli altri e della morte, che non si riesce a raccontare, degli altri. Nelle pagine dei testimoni non è, dunque, la propria morte a far problema, a non poter essere raccontata e quindi a spezzare la possibilità di essere l’unico padrone della  storia, ma è proprio la morte degli altri a essere irraccontabile, a spezzare la  stessa possibilità di dire io.

Infine, un altro modo del venir meno di questa capacità di essere autore della propria storia è un modo non deciso dal narratore che racconta la storia ed è quello del venire meno della distanza con cui il passato ci viene narrato. A differenza del passato del memoriale che la comunità fissa e in cui si riconosce, ma che lo fa esistere in quanto passato, perché il presente è altro e ingloba quel passato, continuamente nelle pagine di narrazione di testimonianza il passato irrompe sulla scena con una carica di presente. Sono questi i momenti in cui spesso il racconto precipita verso una sua impossibilità, nei racconti di Levi per esempio, il tempo verbale è talmente presente che alcuni critici lo hanno definito ‘presente assoluto’, il presente perenne della scrittura di Levi, come se non ci fosse differenziazione e distanza tra il presente e il passato. Si narra e, giustamente, si vuole mettere al passato quell’esperienza, ma ciò che emerge invece inconsciamente nella scrittura è l’oppressione presente di quel passato.

Si tratta, dunque, di una testimonianza dell’assenza di racconto e di ricordo, della testimonianza del silenzio. Il silenzio appunto di Abraham Bomba che riesce a dire io rispetto all’esperienza che sta narrando solo nel momento in cui è la possibilità stessa di parlare che viene meno, e quindi la sua possibilità di dire io. L’emozione di Abraham Bomba è un vuoto della trasmissione, una lacerazione del discorso, uno spazio bianco all’interno del discorso, in cui, come se fosse una nostra ripetizione nella sua ripetizione di quel presente, si inserisce la nostra emozione e potrà anche inserirsi, iniziare anche a intrecciarsi, il nostro non sapere e non comprendere la Shoah stessa.

Conversazione tenuta presso la Fondazione Serughetti La Porta di Bergamo il 5 ottobre 1998.

Registrazione non rivista dall’Autrice.



[1] Si fa riferimento alla sequenza del film in cui viene intervistato Abraham Bomba, un sopravvissuto del Sonderkommando di Treblinka.

[2] Cfr.: Liliana Picciotto Fargion, Il libro della memoria, Gli Ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), Mursia, Milano, 1991

[3] cfr.: Spielberg, La lista di Schindler

 

 

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