Atti del convegno: laicità del credente- Sulzano- Settembre 1987
Quaderno n. 39
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Il cristiano nella storia: stili di presenza

Prof. sac. Giuseppe Grampa

La presenza di Gesù nella storia è complessa, come è complessa la realtà della sua persona.
Egli ci si presenta come il Figlio di Dio, come il Gesù rifiutato e crocifisso, come il Cristo risorto.
Ognuna di queste tre situazioni dice un rapporto diverso con la storia e indica tra diversi stili cristiani» tre modalità di presenza per noi:
1) Il primo stile, incarnazione, è manifestazione che "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio" (Sv.3,16) e che perciò la carne dell'uomo non è destinata all’insignificanza, che la ricchezza della creazione non è per lo sfruttamento.
La logica della parabola: "Il regno di Dio' è simile a un uomo uscito a seminare..." ci rivela che esiste un rapporto di analogia tra terra e cielo, tra uomo, e Dio, non una estraneità assoluta. Di qui la apertura del credente a tutte le realtà e a tutti i germi di verità. Di qui lo stile del dialogo tra Chiesa e Mondo.
2) Il secondo stile, passione e morte, introduce una nota drammatica nell’ottimismo cristiano. Il mondo è anche la realtà che si chiude a Cristo. Il tema del Dio Crocifisso rappresenta un duro giudizio per il mondo che "giace tutto sotto il potere del maligno"(l.Gv. 5,19).
Per questo la grandezza cristiana non può crescere al passo con la logica del mondo, ma può entrare in conflitto con essa, fino a risultare talora del tutto incoordinabile con essa. Di qui, sul piano personale, il valore delle categorie ascetiche, presenti fin dagli inizi della spiritualità cristiana: abbandono di sé, svuotamento, rinuncia nei confronti del proprio io, del proprio avere, del proprio essere. Questo spiega il carattere paradossale della vocazione cristiana pur dentro la normalità delle opere quotidiane.
La tesi della fedeltà alle cose, alla terra, al godimento buono e gustoso di essa, è perennemente inquietato dalla presenza della Croce che giudica, che condanna, che contesta.
Bisognerebbe riuscire a tenere insieme da un lato la teologia della Genesi, della bontà della Creazione, che va tenuta alta per non cadere nel nichilismo, nell’insignificanza; ma a questa teologia della Genesi si deve accompagnare una teologia della Croce non senza violenza contro di sé, non senza ribellione e contestazioni sul piano pratico. Certo nascono problemi, enormi tra l’atteggiamento di obbedienza e di resa al mondo, e quello di resistenza e di contestazione: senza resa confidente al mondo, e ai tanti suoi valori il cristiano sarebbe solo un ribelle, sempre insoddisfatto, che si fa nemici dovunque; senza la resistenza e la critica, però, il cristiano finirebbe per accomodarsi superficialmente a tutto e a tutti.
Il problema sta nel trovare i confini tra il fin dove accogliere serenamente, e dove cominciare a resistere facendo opposizione; quando è Dio che parla e domanda obbedienza, e quando invece si tratta di forme spurie, o addirittura negative.
3) La vita di Cristo non si conclude con l’abbandono della croce; egli è presente nel tempo e nella storia come “Risorto”. Non dimentichiamo le pagine che gli Evangelisti dedicano al manifestarsi di Gesù vivo e risorto in mezzo ai suoi discepoli. C’è dunque un terzo rapporto: la resurrezione è primizia di mondi totalmente nuovi, dove verranno meno le lacrime, le contraddizioni, dove la morte non sarà più, e l’uomo camminerà diritto nella Terra dei viventi.
S. Agostino dice che “nel settimo giorno noi saremo pienamente noi stessi”. Mi viene alla mente una affermazione di Nietzsche che mi pare l'esatto contrario di questa logica della resurrezione: “Ciò che esiste non è come dovrebbe essere, ma ciò che dovrebbe essere non esiste”.
Credo che noi possiamo convenire con lui circa la prima parte; troppi segni negativi ci dicono che né noi né il mondo siamo come dovremmo essere, salvo sposare l'idea che questo è il migliore dei mondi possibili; ma affermando che ciò che dovrebbe essere non esiste, si tagliano le ali ad ogni possibile, ad ogni libertà, identificando la libertà con la presa d’atto della necessità, poiché si è totalmente impigliati in una trama da non poter pensare altro rispetto ad essa: ci si arrende all’esistenza immutabile, al ritorno perenne dell’identico, secondo la figura della ruota che propone inesorabilmente lo stesso disegno.
S. Giovanni, nella sua prima lettera afferma (3,2) “miei cari, ora siamo figli di Dio, ma quello che saremo ancora non si vede: quando Gesù ritornerà saremo simili a lui”.
Il Concilio afferma che noi siamo già nella luce di Dio, i tempi nuovi sono già i nostri, la promessa restaurazione che noi aspettiamo è già cominciata con Cristo, "già dunque è arrivata a noi l’ultima fase dei tempi, e la rinnovazione del mondo è irrevocabilmente fissata". La Chiesa è già adornata di vera santità, anche se imperfetta. Il mondo non è vuoto, il tempo non è insignificante, ma è stato già posto il germe di una novità. 
Lo stile della resurrezione annuncia e dà forma alla prefigurazione dei tempi ultimi e definitivi anche se "non ancora".
Lo stile della resurrezione, contro l’amore malsano per l’inesorabile destino, ci porta ad affermare che, qualunque cosa accada, l'uomo potrà essere in pari con se stesso; nonostante gli ostacoli e la morte, l’uomo potrà essere pienamente se stesso poiché gli è stato dato di essere “possibile”.
La libertà appartiene fin da ora ad un ordine di cose possibili per l'uomo; proprio perché un futuro è reso possibile dalla presenza del Risorto (ripensiamo ai discepoli di Emmaus, i quali, dopo aver confessato che tutto era concluso e quindi conveniva tornare alle abitudini consuete, scoprono invece la novità della Resurrezione e ritornano in fretta a Gerusalemme, poiché un annuncio è possibile). Lo stile della Resurrezione mi sembra quello di anticipare, nei solchi del tempo e della storia, i segni e le primizie del Regno; l’impegno a tentare, a dar corpo ai segni del nuovo mondo, in cui abiteranno la giustizia e la pace. Soprattutto celebrando nell’ Eucarestia la Pasqua di Cristo, la comunità cristiana fin dalle origini avverte l’urgenza di fare di quella celebrazione il principio costruttivo di uno stile di vita diverso, imperniato sulla condivisione.
Leggiamo un testo del II secolo dopo Cristo: “se condividiamo il pane spirituale, come non condivideremo il pane materiale?”.
Basta ricordare la polemica di Paolo contro la comunità di Corinto, che celebrava l’Eucarestia senza portarla fino alla sua verità, cioè ad una prassi ecclesiale plasmata dalla condivisione.
E’ significativo che un’unica parola indichi, nel libro degli Atti, sia il gesto eucaristico dello spezzare il pane, sia la condivisione umana del nutrimento e del cibo: talora non si sa quando il termine “agape” indica l’Eucarestia oppure semplicemente il pasto comunitario: probabilmente le due esperienze erano così congiunte da generare per noi una confusione.
Lungo il corso della storia quante volte l’esperienza della fede ha generato stili di vita, interventi di solidarietà, tentativi di dare forma nella cultura a quello che veniva celebrato nell’annuncio e nella liturgia! Quanta cultura, intesa come coltivazione dell’uomo, è stata prodotta a partire dalla certezza che già ora sono presenti e operanti i segni della resurrezione: talora sorti in un contesto di supplenza o di insufficienza delle strutture pubbliche, questi interventi non sono soltanto dei surrogati transitori, ma possono anche esprimere, nei tempi e nei contesti più diversi, la fertilità di una fede che di sua natura deve giungere dentro la concretezza della storia; non può restare solo parola, ma deve diventare comportamento.
Fin qui ho parlato dei tre stili cristiani, che non sono alternativi l’uno all’altro, anche se poi, nella storia della spiritualità cristiana, si vive questo e quello stile cristiano con maggiore intensità.
Il rischio più grave che noi oggi corriamo è proprio la polarizzazione attorno all’uno o all’altro, quasi la contrapposizione, che impedisce di cogliere la ricchezza e la complessità della presenza cristiana nella storia.
Da questi tre stili vorrei ricavare alcuni segni, alcuni punti fermi, per l'impegno del cristiano nella storia. Fin qui abbiamo fatto una discussione di spiritualità, di atteggiamento interiore nella sequela di Gesù Cristo, articolato in questa triplica forma; ora proviamo a chiederci quanto tutto ciò determini un influsso per una presenza storica.
Il primo stile cristiano, stile di incarnazione, di cordiale apertura al mondo, si traduce in una tesi importante per la coscienza cristiana nella storia, la coscienza che il Concilio chiama "di autonomia relativa delle realtà temporali", nel numero 36 della "Gaudium et spes", il documento sulla chiesa nel mondo contemporaneo.
Significa rispetto per i fini penultimi dell’agire umano, la cura per l’agire competente, il superamento di un metodo che pretenda di dedurre le scelte immediate dai principi generali; questo testo indica con chiarezza la distinzione tra autonomia legittima e autonomia assoluta delle realtà temporali, dove con la prima si intende la capacità di rispettare, nella propria consistenza, verità e bontà, delle cose, con le loro leggi, con il loro ordine, riconoscendo le esigenze di metodo proprie di ogni scienza e ogni arte; perciò la formula "è un buon cristiano, quindi è un buon politico oppure un eccellente insegnante" è una deduzione che non tiene, poiché entra in gioco questo rispetto per l'autonomia legittima delle realtà terrene, delle leggi proprie di ogni procedimento storico, che non possono essere evitate poiché sono ,in qualche modo, il frutto della teologia della creazione, che guarda alla bontà intrinseca delle cose e che ne rispetta l'ordinamento posto dal creatore stesso.
Il numero 4 della lettera apostolica di Paolo VI, "Octogesima adveniens", è di grande importanza poiché indica il metodo per entrare efficacemente, da credenti, nella costruzione della storia: esordisce con una dichiarazione un poco stupefacente, poiché dice che "di fronte a situazioni tanto diverse, come sono quelle che la vita di ogni giorno presenta, ci è difficile pronunciare una parola unica e proporre una soluzione di valore universale; del resto non è questa la nostra ambizione e neppure la nostra missione". Una dichiarazione di umiltà sul piano del metodo, a cui segue una proposta: "spetta alle comunità cristiane analizzare obiettivamente la situazione del loro paese, chiarirla alla luce delle parole immutabili del Vangelo, attingere principi di riflessione, criteri di giudizio". E' un procedimento che domanda l’attenzione alla realtà particolare, alla situazione storica: illuminarla, chiarirla, orientarla ricavando indicazioni dalla parola di Dio, dalla tradizione cristiana, dalla storia della Chiesa. Il giudizio non è più il frutto della deduzione immediata dal principio generale, ma di una sorta di sintesi tra la lettura del dato, nella sua particolarità, con l'esercizio di discernimento che nasce dagli stili cristiani che abbiamo prima indicato.
In altri due passi di questo documento (36 e 42) ritorna il nostro problema: "Il cristiano attingerà alle sorgenti della sua fede, all’insegnamento della sua Chiesa, i principi e i criteri opportuni" dunque non soluzioni; nell’altro "davanti a tante nuove questioni la chiesa fa uno sforzo di riflessione; se oggi i problemi appaiono inediti per la loro ampiezza, e forse l’uomo è incapace di risolverli, con tutte le sue dinamiche l’insegnamento sociale della Chiesa accompagna gli uomini nella loro ricerca".
"Insegnamento sociale" e non "dottrinale": non è un "corpus" di risposte, ma uno sforzo di illuminazione. "Questo insegnamento non interviene per autenticare una determinata struttura, per proporre un modello prefabbricato, e neppure si limita a richiamare alcuni principi, ma si sviluppa attraverso una riflessione a contatto con le situazioni mutevoli di questo mondo, sotto l’impulso del Vangelo come fonte di rinnovamento".
Questi diversi cenni costituiscono un metodo originale per il credente, chiamato a cogliere nella sua articolazione la realtà che gli sta di fronte e a produrre tentativi di soluzione, alla luce della Parola di Dio, che non sono definitivi e universali, ma soltanto la risposta adeguata in quel contesto.
Questo stile di intervento valorizza quanto mai il dato storico, la ricognizione e la conoscenza adeguata di esso, ed è il primo tema: il rispetto dell’autonomia "relativa", che si dispone, cioè, all’interno e dentro il disegno e la Parola di Dio.
Il secondo stile di presenza cristiana deve aiutarci invece, stando dentro la storia, a non subirne più di tanto il fascino e la illusione, il fascino delle filosofie della storia che negli ultimi secoli hanno dominato la cultura dell’occidente, caratterizzate da un’idea di progresso indefinito, indeterminato. Un grande pensatore come Kant intitolava un suo libro: "Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio", e la risposta è naturalmente affermativa.
La storia è descritta, negli ultimi due secoli, soprattutto come un cammino evolutivo, di incessante progresso verso il meglio "di chiarezza in chiarezza" come diceva Croce, come un processo ascensionale verso una sorta di compimento felice garantito o dalla ragione, dalla scienza o dall’azione dell’uomo e dalla sua prassi politica. Credo che noi che siamo qui abbiamo ormai alle spalle questa cultura.
Una frase della Fenomenologia dello Spirito, di Hegel, dice: "le ferite dello spirito si rimarginano senza lasciare traccia". Quello che oggi non è guarito, lo sarà domani, in uno stadio ulteriore; il cammino della storia guarirà ogni cosa, e il negativo sarà assolutamente cancellato.
Si ingloba il negativo dissolvendolo, facendolo diventare un elemento di questo cammino; "metabolizzato" il negativo, questo non è più ostacolo, scandalo, se ne può avere ragione, e camminare più spediti. Ebbene, negli ultimi decenni abbiamo vissuto esperienze che ci hanno ricondotto molto bruscamente alla realtà, e non possiamo più condividere questo ottimismo a tutti i costi, l’annunciarsi delle "magnifiche sorti e progressive" dell'umanità; il nostro stato d’animo è più perplesso, e possiamo sentire più vera l’affermazione di Dostoevskij: “bastano le lacrime di un bambino a mandare in frantumi questo disegno di armonia prestabilita; la minima sofferenza che non può essere dissolta, disgregata, può bastare per distruggere l’idea che tutto sia in meravigliosa armonia.
A questo spettacolo così armonioso non voglio assistere, preferisco restituire il biglietto”.

Ci è più difficile oggi affidare ai dinamismi della storia umana il compito di realizzare la felicità, di riportare l’uomo in pari; non credo che ci siano "messianismi" dentro le forze della storia, cioè manifestazioni della salvezza che viene da Dio. Benjamin dice: "basta che resti un piccolo varco nella storia attraverso il quale possa giungere il Messia".
Abbiamo parlato del valore positivo del cammino della storia, ma non possiamo investirla del compito di produrre la speranza messianica; questo può venire solo dall’esterno, attraverso quel piccolo varco. Non possiamo, per esempio, investire nella vita politica tutte le nostre ragioni e tutte le nostre, speranze; a distanza di vent’anni possiamo vedere meglio i pericoli insiti in certi atteggiamenti per cui la prassi politica era investita della speranza messianica; abbiamo attraversato decenni di piombo, che hanno fatto cadere questa presunzione. Ci sono dei limiti obiettivi nell’agire politico, che non mira alla salvezza dell’uomo, ma semplicemente all’ordinata convivenza; investirlo di un compito messianico significa chiudere quel piccolo varco.
Il secondo stile ci ricorda il limite della storia, dell’ideologia di certi "messianismi terreni" nel segno della scienza o di altre cose.
Il terzo stile cristiano ci ricorda la dimensione pubblica della fede. Gramsci dice, nei "Quaderni del Carcere": "la tesi della religione come affare privato è propria dell’ideologia liberale, borghese, e non della filosofia della prassi", cioè del pensiero marxista.
Non si deve cedere all’idea borghese che ciascuno, dentro la propria coscienza, può fare quello che vuole, praticando un culto chiuso nel recinto domenicale, mentre la storia è affidata ad altro.
Il progetto di Gramsci è quello di sostituire con una proposta complessiva anche la coscienza religiosa; su questo io, come credente, non posso seguirlo, ma l’affermazione è preziosa poiché riconosce il valore pubblico dell’esperienza della fede, che non può restare limi tata alla coscienza o al tempio. 
Ci sono esigenze cristiane dentro la storia: mi provo ad indicare un modo, anche se le forme possono essere moltissime.
Una forma è quella delle necessità di offrire indicazioni, circa i fini all’interno di una logica della programmazione, del calcolo, della pianificazione.
Noi viviamo in una realtà sottoposta al calcolo, non più al caso: ci facciamo carico di prevedere e programmare, esercitando un controllo razionale sulla storia. Più cresce l’esigenza di programmazione e più cresce, a mio avviso, l’esigenza, di indicazioni etiche, che nascono dalla libertà dell’uomo. L’uomo non è messo fuori gioco dal calcolo e dalla pianificazione, poiché il meccanismo non è montato e non funziona da solo. La macchina non si autoregola, e non è vero quindi che i nostri desideri, i nostri progetti diventino insignificanti, anzi, più importante che mai è il compito di indicare delle finalità.
La ragione che presiede al calcolo è strumentale, ma non può decidere quale deve essere la scelta da compiere. Se vogliamo usare il nucleare dobbiamo seguire un certo programma: se vogliamo usare altri tipi dì energia occorrono altri programmi, che la ragione strumentale può. indicare, ma non può giustificare.
Il problema cruciale del nostro tempo mi sembra questo da un lato una enorme complessificazione e incremento dei mezzi, dall’altra l’incertezza crescente dei fini. Qual è la destinazione di questo sofisticato insieme di mezzi? C’è una sofisticata tecnologia che può fare quasi ciò che vuole della nascita e della morte, entrando a modificare profondamente i processi: acutissima dovrebbe dunque essere la percezione dei fini da raggiungere.
Nelle mani della nostra società c’è uno strumento altamente perfezionato che rischia di essere usato male. Basta pensare all’utilizzo di risorse e di mezzi per fini distruttivi come l’incremento degli arsenali, quindi una finalità stolta, negativa: la scienza dei mezzi non è niente se non è accompagnata dalla "sapienza dei fini", cioè la capacità di individuare obiettivi, compatibilità, priorità, in base alle quali compiere le scelte. Ogni scelta presuppone l’esibizione di un insieme di orientamenti, di valori: questi sono tanto più importanti quanto più la capacità di agire è pervasiva ed efficace. Ci troviamo invece in un momento di impotenza, di incapacità a determinare fini compatibili con l’uomo, nella sua complessità e con tutti gli uomini, non solo quelli del Nord. Tocchiamo dunque con mano come la pubblicità della fede possa diventare, attraverso, indicazioni etiche, cioè utili per la vita umana, una parola pubblica. Questo non esaurisce l’orizzonte della fede, che deve poi alimentarsi nel culto nella lode, nell’ascolto della parola di Dio, nella celebrazione ecclesiale; una parola pubblica è però una parola eloquente e comprensibile. Il credente deve essere capace di un duplice linguaggio: una sorta di poesia della fede, nella quale si ripete e si celebra la storia della fede, e una "prosa" della fede, un linguaggio comprensibile per tutti, capace di incrociare, le domande del proprio tempo, di raccogliere la responsabilità della storia. Questo è il senso dell’espressione "Chiesa esperta in umanità", che Paolo VI ha rivendicato davanti all’O.N.U.

Conversazione tenuta il 11 settembre 1987. Registrazione non rivista dall'autore


 

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