Etica e politica- 12 marzo 1982
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Etica e politica: oltre la crisi del soggetto e dei valori

Franco Totaro


Mi scuso in anticipo se forse affronterò in modo inadeguato e sicuramente non risolverò l’enorme mole dei problemi di fronte ai quali voi vi trovate al termine di questo corso, che ha voluto toccare i vari momenti dell’evoluzione del pensiero etico, conducendo a esiti molto problematici, mi sembra. E, infatti, mi pare che lo sbocco di queste lezioni sia consistito in una messa a punto delle difficoltà che oggi ci sono nel parlare di etica, dopo la crisi dei valori e dopo la crisi del soggetto. Due grandi pilastri su cui ha poggiato la formulazione dell’etica. 
Ecco, io sono a chiamato a dire cos’è l’etica, al di là di questa crisi dei soggetti e dei valori. Come vedete è un compito molto grande.
Vorrei partire, però, da una constatazione più elementare, che è la seguente: noi nell’etica ci imbattiamo quotidianamente, al di là delle discussioni che si possono fare intorno all’etica in campo filosofico, al di là delle giustificazioni che si possono dare di questo o di quel principio, di questo o di quel sistema di principi che informano e costituiscono l’etica. C’è un’etica come terreno di esperienza vivente e di esperienza quotidiana. Noi non possiamo fare a meno di imbatterci in problemi che investono innanzitutto le intenzioni con cui noi facciamo quello che quotidianamente compiamo. Il nostro non è un agire casuale, un mero comportamento. Non è fare delle cose a caso, ma è sempre un agire guidato da intenzioni. Abbiamo sempre dei fini con cui facciamo quello che facciamo. Il nostro è un agire intenzionale. Ed è evidente che non possiamo assecondare tutte le intenzioni che presiedono al nostro fare: alcune di queste intenzioni le sacrifichiamo ad altre. Stabiliamo una gerarchia tra le diverse intenzioni, sia nella simultaneità, sia nella successione. Questo è già un agire di tipo etico, che implica delle discriminanti, in base alle quali noi facciamo, oppure tralasciamo di fare. 
E, inoltre, non soltanto noi abbiamo delle intenzioni che guidano il nostro agire, ma cerchiamo anche di giustificarle, appunto perché alcune le privilegiamo e altre invece le teniamo sullo sfondo, oppure le escludiamo del tutto. Ecco, allora, che un’altra caratteristica del nostro agire quotidiano è la giustificazione di ciò che compiamo. 
E, infine, attraverso l’intenzionalità e attraverso la giustificazione, noi ci esortiamo a fare qualcosa, invece che qualcos’altro. Intratteniamo una sorta di dialogo con noi stessi. Un dialogo che porta a formulare, poi, una decisione, che noi rivolgiamo a noi stessi in forma di esortazione. Non solo il terreno etico si manifesta nell’agire che tocca noi in prima persona, ma si manifesta anche nell’agire che riguarda la relazione di noi con gli altri. Noi spesso siamo chiamati a consigliare, a giudicare, siamo chiamati a incoraggiare oppure interveniamo per criticare o per contestare quello che gli altri fanno. Sia a livello banale, sia a livello di principi fondamentali, quali la violenza o la non violenza, la pace o la guerra, il comportamento delle istituzioni, la destinazione di certe spese per certi bisogni oppure per altri. Ecco, in tutti questi casi, il nostro agire è un agire che esorta anche gli altri a fare certe cose e a tralasciarne altre che si oppongono a queste. 
In tutta questa esperienza vivente in cui è presente l’etica, è presente un’etica quotidiana, un’etica elementare, in assenza della quale noi non possiamo caratterizzare come umano il nostro vivere, il nostro agire. 
In tutta questa esperienza mi sembra che si manifesti in modo evidente quella che si può chiamare la ricerca del criterio, oppure la ricerca della misura in base a cui agire o in base a cui orientare il nostro comportamento. 
Andando più a fondo, mi sembra che già dalla nostra esperienza quotidiana, già nel nostro agire e nel nostro tralasciare di agire, ci sia la ricerca di un senso. In termini elementari, ci sia la ricerca di un “di più” rispetto a quello che già siamo. Non facciamo cose per andare indietro rispetto ai livelli che abbiamo già conseguito. Facciamo cose per andare avanti, per essere qualcosa di più, per significare di più, per incidere di più, per avere più soddisfazione. Per questo dico che nella nostra esperienza etica quotidiana c’è già la ricerca di un senso, di qualcosa di più rispetto a quello che già siamo, rispetto a quello che già abbiamo. E, quindi, noi ci dirigiamo nella nostra esperienza ad una pienezza di essere, che sappiamo come possibile. Dico possibile nella duplice accezione del termine, perché sappiamo che questa possibilità è sia una possibilità positiva -cioè la possibilità che noi effettivamente ci realizziamo verso un “di più”- ma è anche una possibilità negativa. Cioè, noi corriamo anche il rischio di regredire rispetto ai livelli già conseguiti. Di qui anche il carattere problematico, talvolta drammatico, talvolta addirittura tragico della nostra esperienza etica. Non abbiamo la garanzia di un cammino lineare. Sappiamo che l’incremento verso il meglio, verso il “di più” dipende dalle decisioni che responsabilmente noi assumeremo. 
Mi sembra che in tutto questo si giochi una posta molto elevata che è quella del compimento della nostra esistenza come un valore. Quando noi parliamo di valore, intendiamo soprattutto la realizzazione della possibilità positiva del nostro essere. Un valore è ciò che ci porta verso una pienezza di essere, che ci porta attraverso quelle decisioni responsabili, mediante le quali noi realizziamo le possibilità positive presenti nella nostra esperienza. 
Io penso che bisogna sempre tornare all’esperienza vivente per tener fermo quello che è il significato elementare dell’etica e per far emergere come nella ricerca etica ci sia sempre, in modo costante, la ricerca di un criterio e di una misura. L’idea di un criterio e di una misura alla guida delle nostre azioni è un problema permanente del nostro agire. 
Ciò che noi mettiamo in discussione non è tanto che si diano dei criteri e delle misure del nostro agire, ma piuttosto la definizione che storicamente la misura e il criterio possono assumere. Cioè noi diventiamo consapevoli del carattere storico e del carattere contingente, quindi del carattere relativo delle definizioni di valore che di volta in volta si danno. Definizioni di valore in cui consiste l’individuazione della misura del nostro agire. Cambiano in sostanza gli ideali in base ai quali orientare il nostro comportamento, a partire dai quali ispirare le nostre azioni. Che però ci siano sempre delle misure, dei criteri, dei modelli mi pare fuor di dubbio. 
Allora noi, proprio a motivo della storicità e della contingenza dei contenuti etici di volta in volta emergenti, siamo consapevoli del fatto che i valori, o meglio le definizioni di valore, non sono qualcosa di incondizionato. Il modo in cui i valori sono definiti e il modo in cui i valori sono declinati è invece profondamente legato a condizioni storiche. E’ sul piano della condizionalità dei valori, della misura e del criterio dell’agire che si sono esercitate le tre grandi critiche del sospetto, così come sono state chiamate, e che sono state formulate ad opera di Marx, di Nietzsche e di Freud. Insistendo sul carattere condizionato dell’etica, Marx, Nietzsche e Freud hanno riportato le formulazioni etiche a quella che potremmo chiamare una realtà divisa, cioè a caratteri di divisione che compromettono la credibilità delle formulazioni etiche. 
La critica di Marx all’etica mette in evidenza la divisione sociale, che fa sì che le formulazioni etiche, quindi la formulazione dei principi dell’agire, suonino in modo falso. Cioè, Marx ha messo in evidenza come ci sia un antagonismo tra le classi che porta la classe dominante a fare dell’etica uno strumento di potere per tenere sottomessa la classe subordinata. Le definizioni etiche sono definizioni fondamentalmente strumentali, servono a creare un’unità fittizia grazie alla quale può prevalere la classe dominante. E si sa bene che quando Marx parla di classe dominante, parla della borghesia capitalistica. E ritiene che la borghesia capitalistica abbia come uniche motivazioni di reagire quelle dell’interesse economico. E che invece le dichiarazioni di carattere etico e di carattere religioso di cui la borghesia si può servire, sono in realtà delle coperture di interessi particolaristici. Queste coperture servono per presentare come universali, interessi che in realtà sono particolari. E’ questa la funzione dell’etica: presentare in una luce di universalità quelli che in realtà sono interessi particolari. Cioè interessi di classi particolari legati alla divisione del lavoro e quindi alla divisione della ricchezza, che sulla divisione del lavoro riposa. Una cosa a parte è vedere l’etica rivoluzionaria che emerge dalle pagine di Marx, un’etica che è fondamentalmente quella della solidarietà di classe, a partire dagli stessi luoghi della produzione. Ma questo è un altro discorso e si tratta piuttosto di un’etica introspettiva.L’etica che effettivamente si impone nel presente storico in sostanza è per Marx ideologia, dove per ideologia dobbiamo intendere la traslazione dell’interesse particolare in interesse universale o in principio falsamente universale. Questa l’operazione ideologica compiuta dalla classe dominante: presentare in una veste di universalità ciò che invece è radicato in un interesse particolare. Ecco che allora, se l’etica può essere formulata a queste condizioni, è un’etica da respingere e rifiutare come una falsa eticità. L’antagonismo di classe determina una condizione nella quale non è possibile parlare in modo autentico di etica. L’etica è una copertura che serve a occultare interessi di parte.
La seconda critica, quella di Nietzsche, mette in evidenza una seconda divisione che rende inautentica l’etica. Questa seconda divisione è la divisione antropologica, legata al fatto che i soggetti non hanno la stessa potenza gli uni rispetto agli altri. Ci sono degli uomini forti e degli uomini deboli nella terminologia di Nietzsche e l’etica non è altro che l’espressione del risentimento dei deboli nei confronti dei forti. Quindi, l’etica è sostanzialmente ammalata di minorità, è inspirata semplicemente dall’invidia che i più deboli hanno nei confronti dei forti e dalle loro autentiche virtù. L’etica, cioè, è basata su quel sentimento fondamentale che consiste nel dire no alla vita. Tutte le norme morali sono norme attraverso le quali i più deboli cercano di tutelarsi e di garantirsi nei confronti dei più forti. Non c’è niente di autentico in questa formulazione dell’etica. E, in queste condizioni, l’etica non è altro che illusione e apparenza. Ecco, allora, l’altra precisa condizione, a livello antropologico questa volta, che rende inautentico il discorso etico. Ancora una volta l’etica è legata a interessi di parte, i quali cercano di presentarsi come interessi universali.
Infine la critica di Freud, che per certi aspetti è ancora più radicale rispetto alla critica di Marx e Nietzsche, perché non riguarda la divisione sociale, non riguarda la divisione tra gli uomini forti e gli uomini deboli, tra gli uomini che dicono no alla vita e gli uomini capaci di dire sì. Ma la divisione di cui parla Freud è una divisione che spacca il soggetto nella sua interiorità. E’ una divisione intrapsichica. La morale in Freud non esprime altro che l’imperativo formulato dal Super-Io nei confronti dell’Io. E’ un’istanza essenzialmente autoritaria, e quindi un’istanza repressiva. 
Queste critiche mi sembra che ci dicano fondamentalmente tre cose: fino a quando si è in presenza di una divisione sociale incomponibile, fino a quando si è in presenza di una divisione antropologica che non può essere colmata e fino a quando si è in presenza di una scissione della personalità e dell’Io, il discorso etico è un discorso profondamente minato. Un discorso nei confronti del quale è legittimo avere sospetti e nei confronti del quale è legittimo pronunciare una sentenza di inautenticità. L’etica che fiorisce su queste basi è un’etica compromessa in radice, perché le condizioni su cui cresce sono condizioni profondamente negative. In sede critica possiamo discutere se, nonostante questi condizionamenti in cui l’etica viene a costituirsi, essa possa conservare, anche nell’ambito di queste condizioni, una sua autenticità irriducibile. Questo è un discorso che possiamo fare e dobbiamo recuperare, ma sicuramente le critiche di Marx, di Nietzsche e di Freud colgono nel segno e mettono in luce i difetti che fanno sì che l’etica si presenti in una veste di inautenticità. 
Tutte e tre queste critiche di Marx, di Nietzsche e di Freud convergono, poi, in quella che è la critica più recente, che colpisce non tanto l’etica in sé, quanto piuttosto il depositario dei valori etici, cioè il soggetto. Questa critica, appunto, si riversa nei confronti della soggettività. Fa vedere come la nozione di soggetto, che noi abbiamo elaborato nel pensiero moderno e contemporaneo, è una nozione viziata dallo spirito di dominio, che è quello che poi si esprime nella tecnica come volontà di dominare il mondo, di rendersi il mondo assolutamente disponibile. Allora queste critiche, in sostanza, dicono che, oltre a mettere in crisi i valori, il processo storico della cultura occidentale viene a mettere in crisi anche il depositario dei valori, colui che dovrebbe essere il portatore dei valori, cioè il soggetto. Il soggetto è viziato dalla volontà di dominio. E, quindi, quando questo soggetto viziato dalla volontà di dominio parla di etica, in realtà ne parla in termini strumentali.
L’etica può essere tutt’al più uno strumento della tecnica sociale, cioè uno strumento del controllo e della manipolazione delle coscienze. Si tratta di quelle formulazioni di principi morali che noi consumiamo con la pubblicità; tutti quei messaggi che vogliono persuaderci a consumare, per esempio, e che, quindi, ci vincolano al sistema della produzione capitalistica. Queste critiche, in definitiva, vengono a dire che l’etica, da un lato, è inautentica, dall’altro cede il passo a quella che è la tecnica manipolatoria che, nei suoi ultimi esiti, può fare a meno della stessa formulazione dei principi etici. All’etica, cioè, può subentrare benissimo una pura tecnica di controllo e di manipolazione. Per quest’aspetto si può parlare di una vera e propria evanescenza dell’etica. Dall’inautenticità dell’etica passiamo alla sua evanescenza, al suo scomparire, in quanto l’etica non è più necessaria. Ad essa subentra la tecnica di manipolazione e di controllo delle coscienze.
Come è possibile rispondere a queste critiche, o tentare un abbozzo di risposta a queste critiche? Se si vuole rispondere a queste critiche, a me sembra che si tratti di portare insieme più in alto e più in basso, cioè più nel profondo, la soglia dei valori. O, se si vuole evitare questo termine al plurale, dal momento che i valori sono espressione di una dimensione fondamentale, possiamo parlare semplicemente della soglia del valore. Perché vedremo che il valore, nella sua concretezza, deve essere considerato come una situazione di valore, quindi come un rapporto tra le persone. Non come di qualcosa di astratto, che si impone alla soggettività in virtù di una potenza estranea. Quindi portare più in alto e insieme più in basso la soglia dei valori o del valore. In questo modo, allargando la dimensione del valore, mi sembra che si possa superare quello che è stato chiamato il platonismo dei valori, consistente nel porre e nel definire dei valori astratti rispetto al concreto agire umano, separando l’agire umano in una sfera superiore a quella dei valori tanto distanti da essere inaccessibili, e la sfera della vita quotidiana, quella caratterizzata dalle passioni, dai bisogni e dai desideri. Portare più in basso la soglia dei valori vuol dire integrare nella sfera dei valori il terreno dei bisogni e dei desideri. Questa è la concretezza dinnanzi a cui noi ci dobbiamo porre. 
Che cosa intendiamo per bisogni? Voi sapete che si è fatto un gran parlare dei bisogni negli ultimi anni. Io qui darò delle definizioni molto scarne. Dico che per bisogni dobbiamo intendere innanzitutto tutto ciò che riguarda l’espressione di sé e in particolare l’espressione del corpo e della corporeità. Il corpo non è estraneo alla dimensione etica ed è, anzi, il luogo dove i bisogni più originariamente si esprimono. Un altro carattere dei bisogni è quello della autofinalizzazione. I bisogni non sono strumento per qualcos’altro, ma si riferiscono a se stessi. Sono validi in quanto tali. Un terzo carattere dei bisogni, mi sembra, sia quello dell’immediatezza. I bisogni, cioè, presentano delle istanze che si situano nell’ambito di una manifestazione immediata della personalità. Altri caratteri che si sono associati ai bisogni sono quelli della loro molteplicità, che quindi esige un pluralismo dei soggetti, e una complessità della storia e del processo storico. Nella cultura della sinistra, la scoperta dei bisogni ha coinciso molto spesso con l’inaugurazione di un diverso discorso, lontano dalle tentazioni monolitiche e dalle tendenze a ridurre tutto il processo storico a delle leggi uniformi, tali da dover essere imposte a tutti. 
E vengo alla definizione dei desideri. Nei desideri noi riconosciamo una struttura del rinvio che non è ancora presente nel bisogno. Il bisogno tende alla soddisfazione immediata di sé. Il desiderio, invece, si costituisce in una catena di rinvii, lascia sempre dei residui da soddisfare successivamente. Il desiderio, cioè, si manifesta in una tensione mai soddisfatta pienamente. Ecco perché alcuni autori, nella struttura del desiderio, hanno visto come fondamentale la relazione tra pulsione e movimento, dove la pulsione è la radice originaria della ricerca dell’oggetto capace di soddisfare e il movimento è il continuo incessante inseguimento di questo oggetto, che si dà in soddisfazioni sempre parziali. Soddisfazioni parziali che, quindi, si protraggono in una catena incessante di significati e di esperienze. Quindi una terza caratteristica del desiderio è la sua inesauribilità, il suo continuo porsi in trascendenza rispetto al soggetto che ad esso tende. Il termine del desiderio è sempre al di là della soddisfazioni di volta in volta conseguite. 
Allora oggi il discorso etico non può fare a meno di fare i conti con la sfera dei bisogni e dei desideri, vedendo in questi due termini l’espressione di un’autentica soggettività e, quindi, il termine di confronto della formulazione dei valori.
Ma, dicevo prima, che non si tratta solo di portare più in basso la soglia dell’etica, ma si tratta anche di portarla più in alto. Questo è possibile se noi ci impegniamo, oltre che in una recezione del significato dei desideri e dei bisogni, anche in una critica immanente del loro contenuto. Per quale motivo dobbiamo impegnarci in un critica dei bisogni e dei desideri? Perché, mi sembra, bisogni e desideri, per quanto componenti autentiche della soggettività e dell’esperienza umana, non riescono a fare a meno di un carattere che chiamerei appropriativo. Bisogno e desiderio si costituiscono nella tendenza ad appropriarsi dell’oggetto. Di qui, la loro autenticità, la loro importanza, ma anche il loro limite. Di qui, la tendenza insita nei bisogni e nei desideri ad una certa presunzione di totalità. Il bisogno tende a guardare solo alla propria soddisfazione. Ugualmente il desiderio, per quanto teso ad un oggetto trascendente, finisce col riferire questa trascendenza a se stesso. Quindi, la sfera dell’esperienza, la sfera del mondo, anche la sfera degli altri, nei bisogni e nei desideri è polarizzata sull’Io. Il centro della realtà resta la soggettività egoisticamente intesa. E’ l’altra faccia della medaglia. Da un lato bisogni e desideri permettono al discorso etico di affondare le loro radici sul terreno della concretezza soggettiva, dall’altro lato, però, bisogni e desideri riportano l’intera realtà e quindi l’intera rete delle relazioni con gli altri alla soggettività impostata e definita egoisticamente. L’esito di questa tendenza egoistica presente nei bisogni e nei desideri è la smisuratezza con cui bisogni e desideri finiscono con l’esprimersi. Una smisuratezza che porta la dinamica dei bisogni e desideri a quella che potremmo chiamare la consegna al regno dell’avere. Cioè bisogni e desideri cercano di placarsi e di soddisfarsi nell’incremento del possesso degli oggetti. Se da un lato la soddisfazione, proprio perché posta nell’oggetto, sembra a portata di mano, d’altra parte questa tendenza porta a maturare un complesso di vera e propria dipendenza dall’oggetto. La personalità strutturata nell’inseguimento degli oggetti finisce col dipendere dagli oggetti e dal loro riproporsi incessante. L’oggetto non riesce mai a soddisfare pienamente e si ripropone con quantità sempre maggiori. E’ un po’ il circolo vizioso che possiamo constatare, per esempio, nella cultura e nel comportamento della droga: c’è una soggettività del tutto imperniata nella soddisfazione dei bisogni e dei desideri. Quella della droga è una cultura della soddisfazione dei bisogni e desideri. E, però, bisogni e desideri sono sempre incentrati sulla soggettività egoisticamente intesa, cioè intesa nella sua chiusura agli altri e a un mondo effettivamente trascendente la sfera della soggettività. Allora, la smisuratezza presente nei bisogni e nei desideri consegna la personalità a quelle che potremmo chiamare le mediazioni alienanti. La stessa spontaneità, la stessa autenticità dei bisogni e dei desideri costituisce, poi, la materia prima per l’incremento del circuito delle merci. Merci che rispondono in maniera sempre più sofisticata e sempre più complessa al bisogno e al desiderio, che moltiplicano quantitativamente bisogni e desideri in una spirale che non ha fine. Quindi, se bisogni e desideri nascono all’inizio come contestazione del sistema delle merci, finiscono poi col consegnarsi a questo sistema e diventano addirittura lo strumento attraverso cui il sistema delle merci si incrementa, creando sempre nuovi beni in corrispondenza di sempre nuovi bisogni e desideri. 
Allora come è possibile sfuggire a questo circolo vizioso, a cui i bisogni e i desideri lasciati a se stessi rischiano di consegnarsi? Prima parlavamo di una dimensione etica che ha come meta la realizzazione della pienezza dell’essere. Si tratta, a mio avviso, di introdurre e considerare la pienezza dell’essere come misura dei bisogni e dei desideri. Bisogni e desideri non sono l’ultimità esistenziale, ma attraverso la critica immanente delle tensioni presenti nei bisogni e nei desideri, noi siamo in grado di dire che la vera e radicale valorizzazione dei bisogni e dei desideri si dà verso quella prospettiva di pienezza d’essere che è il traguardo a cui l’esperienza vivente si rivolge. E’ così arrivata l’ora di concepire un rapporto di integrazione dei bisogni e dei desideri nell’etica, ma che al tempo stesso faccia posto alla prospettiva della pienezza d’essere, che conferisce senso al nostro esperire vivente. Con questo termine intendo, appunto, quella ricerca di senso, quella ricerca di pienezza che è già presente nelle nostre azioni quotidiane alle quali riconosciamo valore. 
Se questa affermazione può essere condivisa, mi sembra che si tratti di riscoprire alcune parole d’ordine della tradizione che sono quelle espresse con le nozioni di vero, di buono e di bello. Queste nozioni che non sono estranee al dibattito filosofico contemporaneo: per esempio Ágnes Heller parla proprio di questi significati, quando formula la sua filosofia radicale. E un altro filoso come Jürgen Habermas, a sua volta, tematizza l’istanza del vero e l’istanza del bene come principi radicali dell’agire. Questi principi della tradizione sono stati formulati in modi differenti. In particolare, se è di facile intuizione il significato del vero e del buono, di più difficile definizione è il significato del bello. Ebbene, il bello noi lo possiamo intendere come l’evidenza della forma, in quanto essa è il risultato del nostro agire. Quindi riscatta il nostro agire dalla sua progettualità e dalla fatica che questa processualità ha comportato. Inoltre per bello possiamo intendere la stessa attività del formare, presa come processo. La nozione a noi più vicina di bello ci porta a valorizzare non solo il risultato dell’agire, ma anche l’agire come processo. Perché anche il processo fa parte del risultato, in quanto è ad esso orientato. 
Ovviamente io non propongo di assumere il vero, il buono e il bello in modo ingenuo e statico. Penso che queste nozioni debbano essere assunte nella loro funzione utopica, quindi come significati a cui orientare il nostro essere e il nostro vivere, sapendo che essi sono dei modelli ideali, che esigono la trasformazione della realtà effettivamente esistente.
Proprio perché non si tratta di assumere questi significati in modo astratto, ma si tratta di metterne in evidenza il concreto spessore, mi sembra che l’eticità, in relazione a questi significati fondamentali, possa essere ridefinita come un compito di partecipazione alla pienezza dell’essere, cioè alla pienezza del vero, del buono e del bello. E, ancora meglio, mi pare che l’eticità, in quanto formula di valore, debba essere intesa come il riconoscimento, o come l’adoperarsi per realizzare il riconoscimento reciproco e paritario delle coscienze, insieme all’uguaglianza nel rapporto con le cose. Adoperarsi eticamente vuol dire togliere le condizioni dell’antagonismo e del dominio. Significa l'affermazione di una concreta situazione di valore, laddove per situazione di valore si deve intendere un rapporto tra persone, che si attribuiscono uguale dignità e si adoperano per realizzare questa dignità ed agiscono in modo da ridurre tutto ciò che i soggetti hanno gli uni contro gli altri, quindi l’antagonismo, e tutto ciò che i soggetti hanno gli uni sugli altri, il dominio. 
E’ evidente che l’etica così intesa esige un rapporto profondo e permanente con la trasformazione storica. Non è possibile un’etica autentica, come rapporto reciproco e paritario tra soggetti, senza l’impegno nella trasformazione storica e senza l’impegno della trasformazione storica. Appunto perché quelle condizioni di inautenticità messe in evidenza da Marx, Nietzsche e Freud sono sempre in agguato e rischiano di proclamare sempre e di nuovo la inautenticità dell’etica. Allora è possibile parlare dell'etica in termini non inevitabilmente compromessi, soltanto se si coniuga in modo stretto l’etica con la prospettiva della trasformazione storica. Le due dimensioni sono inscindibili. 
Ecco perché al culmine della riflessione sull’etica, noi dobbiamo essere anche capaci di intrecciare l’etica con la politica. Beninteso, le nostre esperienze più recenti hanno messo in evidenza in modo irreversibile il fatto che l’etica non si risolve nella politica. L’etica ci presenta una sfera di significati, di modelli dell’agire, che non si traducono sistematicamente in schemi politici. Siamo diventati consapevoli che l’intreccio tra etica e politica è poliforme, si esprime in modi diversi. Possiamo fare diversi casi di intreccio tra etica e politica. 
Uno è il caso della coincidenza. Ci sono dei momenti forti dell’etica e della politica in cui non si dà distinzione tra etica e politica. Sono quei momenti in cui si fonda un nuovo ordine storico, momenti rivoluzionari. In questi momenti sarebbe astratto voler distinguere l’etica dalla politica. Se noi ci impegniamo in un’analisi delle rivoluzioni mondiali, vediamo come queste rivoluzioni siano sempre state caratterizzate da un’intima fusione tra principi etici e principi politici. I principi di libertà nella Rivoluzione francese sono stati accompagnati da una prassi, se volete anche giacobina, di realizzazione storica della libertà nelle costituzioni, nei documenti legislativi. Cioè a livello delle istituzioni politiche. Così pure in altri momenti, come la Rivoluzione inglese di Cromwell o la stessa Rivoluzione di Ottobre e via dicendo. 
C’è un altro caso di intreccio tra etica e politica, che è quello di tipo deteriore, e che però non può essere ignorato perché è quello più costante. Quello per cui l’etica funziona come legittimazione della pratica politica. In questo senso, l’etica viene assunta dalla politica come ideologia. Non c’è momento del funzionamento delle istituzioni, della ricerca del consenso, che non si rifaccia a contenuti etici come la libertà, la pace, la giustizia. Sappiamo che tutti i discorsi degli uomini politici sono infarciti di questi termini. Nel bene e nel male, in positivo e in negativo. Non si può fare a meno di utilizzare l’etica in funzione del consenso, sia che si creda ai contenuti etici, sia che non si creda. 
E c’è poi un altro caso di intreccio tra etica e politica, che consiste nel chiedere all’etica le condizioni minimali della convivenza, per evitare che gli interessi in contrasto siano così forti da minacciare addirittura l’incolumità delle vite, e quindi i valori biologici fondamentali. Il patto sociale, che dà luogo poi alle istituzioni politiche, molto spesso è stato giustificato sulla base della garanzia della convivenza a livelli elementari, a livelli cioè di rispetto della vita. Per evitare la situazione dell’homo omini lupus, per evitare, cioè, lo scannamento generale. 
Attualmente qual è la domanda che la politica fa all’etica? A me pare che la politica non domandi all’etica contenuti forti, radicali di eguaglianza, di liberazione da tutti i tipi di indigenza. Anzi, i contenuti forti dell’etica sono visti sempre più criticamente dalla politica. La polemica sull’egualitarismo è all’ordine del giorno. Non si fa altro che denunciare gli abusi e le ingenuità di una concezione egualitaria dei rapporti sociali. La polemica nei confronti del Sessantotto come momento di incubazione dei sogni più irrealistici è ancora presente sulle pagine dei quotidiani e dei rotocalchi. E si cerca di avvallare invece un concetto sobrio della politica, che deve rinunciare ai miti e alle illusioni. Quindi deve rinunciare ad assumere l’etica e la sua valenza più radicale. Oggi la politica chiede un’etica ristretta. Non è un caso. Siamo in presenza di una politica praticata secondo un profilo basso, potremmo dire. Allora, una politica praticata in questo modo e in questa misura chiede degli ingredienti etici a livelli minimali. All’etica ci si rivolge soprattutto per avere la garanzia delle condizioni di governabilità. Cioè, all’etica ci si rivolge in funzione fondamentalmente del patto sociale, in assenza del quale la governabilità non sarebbe possibile. 
Riepilogando sul rapporto tra etica e politica, sappiamo che non c’è una traduzione univoca dell’etica in politica, sappiamo che il rapporto tra etica e politica è costante. Possiamo dire che oggi la politica chiede all’etica dei contenuti poveri e rifiuta invece le valenze radicali dell’etica. Ecco perché oggi il discorso etico lo si fa in modo più interessante per esempio nella sfera del quotidiano, dove sembra più a portata di mano il riconoscimento reciproco e paritario tra i soggetti. Dove il rapporto faccia a faccia sembra più acquisibile. La politica, invece, sembra ritornare alle sue leggi istituzionali, alle sue complicate mediazioni, alla distinzione tra politici di professione e cittadini comuni o uomini comuni. Un uomo politico di chiara fama, qualche settimana fa, ha proposto uno sfoltimento del personale politico, dicendo che i partiti devono diventare essenzialmente un ristretto nucleo di leader con una grande base di opinione. Eliminando l’eccesso di politica che ha caratterizzato la nostra politica italiana. Appunto perché la politica oggi la si realizza secondo un profilo basso, si attesta ai livelli della governabilità. 
Allora è chiaro che una politica povera condiziona le stesse chance, le stesse possibilità di realizzazione dell’etica. Quanto più una politica è povera, tanto più rischia di impoverire la stessa etica e le valenze radicali dell’etica, che sono connesse appunto a quella prospettiva di riconoscimento reciproco e paritario tra le persone, di cui parlavo prima. 
Mi sembra che a tirare le somme del nostro discorso, si esige uno sforzo di critica della 

 

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