La disperazione e il senso- 9 Aprile 1987
Quaderno n. 34
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LA DISPERAZIONE STORICA E IL SENSO

Prof. SERGIO QUINZIO (teologo)

Vorrei ricollegarmi alle affermazioni dì Natoli, che riassumo: egli contrappone lo scenario greco e quello ebraico-cristi ano, in cui è stata pensata la sofferenza dall’uomo occidentale. In quello greco l’uomo sperimenta che la natura e il corso delle cose non si preoccupano di lui, e possono volgere indifferentemente a suo vantaggio oppure a suo svantaggio! che "la crudeltà fa tutt’uno con la vita, e perciò è evidente e ovvia quanto l’esistenza medesima". Il dolo re quindi è innocente quanto le sue vittime, e non ha bisogno, di alcuna giustificazione.
Lo scenario ebraico-cristiano, invece - sostiene ancora Natoli - è segnato dalla speranza di una redenzione, di una liberazione dalla sofferenza dell’uomo da parte di Dio, "clemente e misericordioso", che ha stabilito con lui un patto di reciproca fedeltà: Dio deve ricompensare l’uomo che segue la sua legge, e il premio è la promessa di un regno di giustizia, senza dolore. Il dolore quindi non è una fatalità inesorabile, ma qualcosa che, a discrezione di Dio, può non esserci» Natoli contrappone dunque quella che lui chiama "la fedeltà alla terra" dei Greci alla "seduzione del Regno" della tradizione ebraico-cristiana, intendendo per fedeltà alla terra "amare questa terra per se stessa con tutto il suo dolore, nella convinzione che vita e dolore sono inscindibili e che nulla può essere veramente vissuto al di fuori delle possibilità che il presente offre ad ogni uomo"! la seduzione del Regno invece sarebbe un sogno, l’illusione che la realtà potrebbe essere diversa, nel presente o nel futuro.
Se sono d’accordo sulla contrapposizione, dissento dal fatto che lo scenario greco sia quello della aderenza alla terra mentre quello ebraico-cristiano sia fondato su una illusione, su una evasione, su una speranza gratuita che non ha niente a che fare con la realtà, ma è solo la proiezione di un nostro desiderio» Davvero la grecità del tragico, dell’eroe tragico che accetta il bene e resiste al male, è il luogo della concretezza e del presente, e davvero la fede ebraico-cristiana è il luogo della proiezione nel futuro, dell’illusione, della compensazione celestiale?
C’è chi ha visto le cose in termini addirittura opposti: Laberthonnière nel 1904 ha scritto un libro intitolato "Il realismo cristiano e l’idealismo greco", cioè l’opposto della tesi di Natoli. Posso citare anche una questione glottologica: la parola "logos" in greco, significa indifferentemente "idea" e "parola", mentre in ebraico la parola "dhabar" vuol dire "parola" oppure "cosa": la parola indica dunque una cosa che si deve fare, ad esempio la parola di Dio.
Secondo Natoli "la sapienza tragica doveva inevitabilmente culminare nella filosofia del "giusto mezzo": se le cose che accadono non derivano da un Dio provvidente, ma da un fato cieco, occorre non lasciarsi travolgere dalla speranza o dalla gioia, ma neanche dal terrore, dal dolore nel momento della sofferenza. Ma questo "giusto mezzo" non è anche inevitabilmente la lontananza dagli estremi, cioè la meno intensa partecipazione sia al dolore che alla gioia, e, in definitiva, un "non sperimentare la vita fino in fondo"?
La gamma di emozioni dell’uomo biblico è invece vastissima: basti pensare al libro di Giobbe, terribili domande contro Dio, derivate da una profonda passione del dolore spesso, e quasi specialmente, dell’uomo giusto. E’ un’esperienza di dolore molto più radicale dell'uomo greco; così per la gioia, mentre il greco si distacca perché sa che è un momento passeggero, il credente si attacca con entusiasmo ad essa vivendola come una primizia della gioia perfetta che Dio promette, quando "Dio stesso asciugherà le lacrime".
Vorrei fare un paragone tra la morte di Socrate e quella di Gesù: Socrate colloquia tranquillamente fino alla fine, con una esemplare lucidità, fino a dire, come ultime parole, "ricordate di sacrificare un gallo ad Esculapio", vale a dire di ringraziare il dio della medicina di quella morte che libera da ogni dolore; Gesù invece suda sangue nell'orto dei Getsemani, e sulla croce grida "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?", Non c’è nessuna "mesotes", c'è una lacerazione profonda tra l'esperienza del dolore, Dio che abbandona i giusti, e la speranza che in un domani ci sarà consolazione.
Nel nucleo biblico originario la sofferenza è intensa perché intensa è la speranza della gioia: la speranza di liberarsi crea dunque una esperienza del dolore più drammatica proprio perché la si sa non inevitabile.
Natoli, nel suo libro, sembra chiedersi se vive più intensamente, se soffre di più e gioisce di più l’uomo greco o l’uomo ebraico-cristiano: "Verrebbe da chiedersi se c'è più istinto di vita nello spirito di moderazione oppure nel tormento", se è più terrestre drammatizzare la sofferenza oppure moderare il dramma fino a sublimare le realtà della morte e del dolore come forme estetiche: le vicende dell’eroe tragico sono drammatiche, ma il poeta le racconta così bene che lo spettatore ne è liberato, purificato.
La sofferenza si trasforma in godimento perché nel mondo greco la via estetica è molto importante: nel mondo ebraico c’è poca bellezza, c’è il grido di dolore cupo di chi sperimenta realmente la sofferenza. Per un greco la morte può essere bella, mentre per un ebreo questo non è possibile, perché è più importante il valore del dono della vita. La fede nel Dio rivelato dalla Bibbia attenua lenisce, consola il dolore, oppure, all’opposto, lo radicalizza, lo esaspera e, al limite lo crea rivelandone l’orrore, l’inaccettabilità?
I Greci uccidevano i bambini deformi, i Romani lasciavano nei vespasiani i bambini non riconosciuti da un padre, che potevano essere raccolti o, indifferentemente mangiati dai cani. Per questo dico che la fede nel Dio biblico può creare il dolore: se per il pagano le cose sono così ed è inutile lamentarsi, per chi crede che un Dio ci ha creato non è chiaro, non è accettabile come questo stesso Dio possa fare soffrire gli innocenti.
Il male diventa orribile perché contraddice la bontà di Dio: questo è il nocciolo profondo della fede, si continua a gridare a Dio: "perché permetti tutto questo? Quando finirà l’ingiustizia?". Di fronte alla possibilità di esserne liberati, la sofferenza acquista tutta la sua enormità, non è una fatalità da accettare. Questa è anche l’idea dell’uomo moderno, che in questo senso è biblico.
C’è una grande differenza tra la religione ebraico-cristiana e tutte le altre: mentre per i pagani, greci e qualunque altro popolo, e così pure per le religioni orientali, il tempo è ciclico, i giorni si susseguono ai giorni, gli anni agli anni, le generazioni alle, generazioni, e continua ad accadere quello che è sempre accaduto, per il credente ebreo-cristiano il tempo è fortemente "storico", va da un "a quo" a un "ad quem", è lineare, tutto ciò che accade è unico e irripetibile, e il futuro ha quindi una grande importanza, perché sarà diverso dal presente come il presente è diverso dal passato.
Il tempo storico cambia, ed è fondamentale la speranza in un futuro completamente liberante per l’uomo: redenzione non è soltanto dell’anima dal peccato, ma anche del corpo, e dell’intera natura che “geme nell’ansia della redenzione". Anche questa "corporeità" è caratteristica del messaggio originario ebreo-cristiano.
Il mondo moderno è segnato da questa speranza: non è modellato sull’idea pagana della fatalità che si ripete inesorabilmente, ma su quello di un futuro che può e che deve redimere l’uomo, sebbene questa redenzione oggi non sia più attesa da Dio, ma dallo sforzo storico di tutti gli uomini.
L’uomo moderno non può tollerare la schiavitù, o il bambino storpio gettato dalla rupe: pur avendo buttato via Dio e la fede, ha conservato l’annuncio della salvezza, la speranza della liberazione. Un indiano non può capire Madre Teresa che raccoglie i bambini denutriti sui marciapiedi: egli crede nella reincarnazione, e l’ostinazione alla vita, alla pietà, non è comprensibile, è inutile a paragone delle forze del caso che comunque continuano a dare bambini denutriti; ma per noi tutti, uomini moderni, questo sforzo ha un senso.
Non molto tempo fa in Cina le esecuzioni capitali avvenivano nei giardini pubblici, le mamme portavano i bambini a vedere, si vendevano fotografie: mancava il senso della pietà, che a noi sembra così naturale.
La pietà invece nasce nell’arco cristiano: certo ci sono dei precedenti, anche sublimi (non c’è niente di storico che nasce dal niente), ma il fatto di non poter tollerare l’ingiustizia è un fatto biblico, e nasce dall’idea che l’uomo è creato da un Dio buono. 
Il mondo moderno è dunque in continuità con la tradizione ebraico-cristiana: per questo è segnato da un’ansia, da una inquietudine, una disperazione di cui gli uomini antichi non avevano nemmeno il sospetto. Per l’uomo classico il modello di vita era il filosofo, colui che ha un supremo distacco dalle cose; l’uomo di cultura attinge ad una condizione di perfetta serenità tramite l’”atarassia”, il "disinteresse". Al contrario, l’intellettuale moderno è per definizione un uomo inquieto, che mette tutto in discussione, che è ipercritico, che non ha pace; l’uomo classico aveva l’accettazione che può comportare la "mesòtes", l’uomo moderno - cristiano ha la speranza che lo brucia nella constatazione dell’inadeguatezza tra ciò che sperimenta rispetto a ciò che si aspetta.
Cos’è la croce di Cristo se non l’emblema dell’implicazione tra gioioso annuncio di salvezza e sprofondamento nel dolore e nella morte?
Non c’è accettazione, ma bisogno di salvezza che, non attuandosi, scatena una sofferenza. La massima speranza di gioia e di vita piena sta insieme alla sofferenza, al martirio, al dolore: il contrario della "mesòtes".
Quanto più l’uomo sperimenta in se stesso il bisogno di salvezza, tanto più soffre della salvezza che gli manca, e più soffre più è vicino alla salvezza. Ogni sforzo, fatto storicamente dall’uomo nato dal cristianesimo per considerarsi già salvato, nella morte e resurrezione di Cristo, nelle garanzie offerte dall’"ordo christianus medievalis" all’uomo medioevale (l’idea che ormai debba tornare Cristo a dare compimento all’ordine del mondo - i "due soli" di Dante, il Papa e l’Imperatore), nel progresso della storia, negli ideali moderni, quando sembrava che la cultura avrebbe aperto la porta a un mondo giusto, nella possibilità della tecnica, nella giustizia della rivoluzione, in modo sacrale oppure laico, ognuno di questi sforzi è stato seguito da una grande delusione e da un grande sconforto. Non accontentandosi più di accettare le cose così come sono in natura, l’uomo ha sviluppato un bisogno, un’ansia di essere salvato. La croce, simbolo dello svuotamento, dell’annichilimento di Dio, che si incarna in uno schiavo crocifisso, in contrasto con la grande luce che ha acceso, ha proiettato anche la sua ombra su tutta la storia successiva. Come i padri della Chiesa avevano il senso che il mondo fosse ormai vecchio (la "senectus mundi" di S. Cipriano), come la paura della fine del millennio nel Medioevo, come la solitudine dell’uomo moderno che non ha più radici, non ha continuità col passato, anzi, respinge il passato che è oscurità (sono i ricorrenti momenti delle grandi paure: dell’eretico, dell’ebreo, delle streghe, dei diavoli), così il crollo dei nostri tempi che è la caduta delle speranze moderne: basta mettere insieme la speranza di redenzione attraverso la scienza, la tecnica, la rivoluzione politica, con i nomi di Auschwitz, Hiroshima, Stalin, il nichilismo, la droga, il nucleare, una vita sempre più artificiale in un mondo che si sta decomponendo, il cancro, l’Aids: l’uomo moderno fa l'esperienza della disperazione storica. A partire dalla coscienza ebraico-cristiana che lo rende esigente e sensibile, egli vuole la gioia e la felicità, la giustizia, e, non accettando la fatalità naturale 
insegue sempre degli ideali di redenzione che gli si bruciano in mano; se le condizioni di vita sono migliorate, le minacce sono ingigantite. 
Di fronte alla disperazione storica si può ancora salvare un senso? Alcuni autori parlano di un ritorno del sacro e addirittura del politeismo, sostenendo che a rovinarci è stato il monoteismo, una strada unica, una storia unica che va in una sola direzione, o dà tutto o non dà niente, mentre il politeismo contempla una pluralità di "sensi" diversi e parziali che possono coesistere senza escludersi a vicenda.
Il "ritorno dal sacro" di cui si parla è da intendersi come un ritorno del sacro pagano, un modo di accettare la realtà senza pretendere di essere salvati, ma trovando un’armonia in un mondo che è già sacro, in una natura che è come è, alla quale dobbiamo adattarci e non pretendere di cambiare le cose.
Secondo me questo ritorno ad un orizzonte pre-cristiano, pre-biblico, pagano, indiano, è un tradimento della nostra esperienza: significherebbe non capire più Madre Teresa e accettare che i bambini muoiano di fame, cioè rinunciare alla parte più nobile di noi, che a me, in quanto credente, sembra irrinunciabile. Quando Gengiz-Khan entrava in una città tagliava la testa a tutti i nemici, ne faceva due piramidi all’ingresso della porta, ed era così ben contento di dimostra re la sua forza; quando Hitler ha ammazzato sei milioni di ebrei, lo ha fatto di nascosto: noi abbiamo una esigenza che il pagano non aveva, non accettiamo l’ingiustizia, anche se forse non siamo migliori.
Se c’è una disperazione storica proprio a partire dalla speranza biblica, se non è una soluzione accettabile il ritorno al sacro pagano, possiamo ancora sperare in un senso? Se il senso è il culmine di una ascesa trionfale, che colma tutto di significato, che giustifica tutto e riscatta tutto, questo tipo di senso non possiamo più pensare di trovarlo; del resto, la salvezza biblica non è di quel genere: dice il profeta Amos "voi sarete salvati come un pastore che salva dalla gola del leone un brandello di orecchia e un pezzetto di zampa". Ma supponiamo che il futuro sia nelle mani di Dio: se qualcuno ci ha creato, come io credo, questo qualcuno potrebbe avere ancora qualche carta in mano. Può darsi che non riesca a salvare tutti, ma soltanto le creature più infelici.
A questo proposito voglio concludere raccontando un apologo ebraico antico: nel Paradiso ci sono sette case, una più vicina a Dio dell'altra; nella prima casa ci sono pagani che hanno commesso delle colpe, ma si sono ravveduti; nella seconda casa, più elevata, ci sono i pagani che non hanno commesso colpe; nella terza casa ci sono gli Ebrei che hanno commesso delle colpe, ma si sono pentiti; nella quarta casa ci sono gli Ebrei che non hanno mai commesso delle colpe; nella quinta ci sono Mosè, Elia e i profeti; nella sesta c'è il Messia e nella settima ci sono tutti coloro che hanno avuto una esistenza amara come un'oliva verde. Conclude il racconto che "Dio vorrà consolarli, ma non oserà sfiorarli nemmeno con un dito".
Se c'è una salvezza, non si può spiegare con argomenti, ma solo con immagini, ed è una speranza paradossale.

 

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