La Costituzione italiana e la pace- 19 Novembre 1990
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La Costituzione italiana e la pace

Raniero La Valle


La Costituzione è la grande carta della democrazia italiana e quindi una riflessione sulla Costituzione, in riferimento alla pace, non può che rimandare a una considerazione più generale del rapporto tra la pace e la democrazia. Mi permetterete di fare questo piccolo ampliamento del tema perché tra l’altro con questo artificio mi sarà possibile discutere i rapporti tra la pace e non solo la democrazia interna, ma anche la democrazia internazionale.
Mi sembra che nel momento in cui si stanno accelerando i tempi della guerra, di questa guerra prossima, che ci viene annunciata da tutte le gazzette, non possiamo non ritornare ancora un momento sulla compatibilità di questa guerra con l’ordinamento democratico e internazionale che è stato istituito con l’Organizzazione delle Nazioni Unite; anche così come sono oggi, anche a prescindere e prima della loro eventuale riforma.
Si tratta di vedere se le Nazioni Unite, così come sono oggi, sono compatibili con questa guerra che si sta per fare.
Questo credo sia un tema cruciale su cui noi non possiamo non soffermarci stasera.
Quindi l’impostazione generale è il rapporto tra pace e democrazia: naturalmente voi capite che dire “pace e democrazia” dovrebbe quasi parlare di due sinonimi, nel senso che i due termini dovrebbero praticamente coincidere, dovrebbero coprirsi l’uno con l’altro perché non è vera democrazia quella che non realizzi la pace interna; la democrazia è precisamente quel sistema di governo che viene considerato il migliore proprio perché è quello che dovrebbe realizzare, attraverso l’autogoverno del popolo, il massimo grado di pace interna; non è democrazia non solo quella che non realizza la pace interna, ma anche quella che non produca la pace all’ esterno.
D’altra parte, è anche vero l’inverso, che non può esserci pace quando non c’è democrazia, cioè quando i soggetti della storia non siano i popoli, ma siano i poteri politici o militari da cui i popoli siano eventualmente dominati ed espropriati della loro capacità decisionale.
Però, naturalmente, per dire che pace e democrazia si richiamano l’un l’altra fino quasi a coincidere, bisogna accettare un presupposto: quello di avere una concezione alta, magnanima, della pace e una concezione alta, magnanima, della democrazia e perciò, prima di tutto, la pace non deve essere concepita solo come assenza di guerra. 
Basta riferirsi all’enorme ricchezza semantica del termine biblico “shalom” per intravedere quali ampie e molteplici prospettive di vita buona e felice e perfino di una destinazione di rapporto con Dio contenga una pace che sia veramente pace.
Però non voglio adesso entrare in questa descrizione di tutti i possibili contenuti della pace, mi limito qui semplicemente a ricordare che la pace non è semplice assenza di guerra perché se fosse solo assenza di guerra, se cioè ci fossero tutti gli ingredienti della guerra e mancasse solo la guerra guerreggiata, allora neanche questo semplice risultato negativo potrebbe essere a lungo mantenuto e la guerra finirebbe per arrivare anch’essa.
Noi abbiamo esperienza di questo fatto: era questa ad esempio la situazione del mondo fino al 1987 (42 anni sono passati dalla fine della Seconda guerra mondiale), l’anno dell’accordo di Washington per lo smantellamento dei missili intermedi in Europa.
In quei decenni c’erano tutti gli ingredienti della guerra: l’inimicizia, la divisione, la minaccia reciproca, gli eserciti, i missili, le armi nucleari e la cosiddetta mutua-distruzione assicurata.
C’erano tutti gli ingredienti della guerra, mancava lei, la guerra, la guerra atomica che in realtà non si faceva.
Era percezione comune che la guerra ci sarebbe stata se a un certo punto non si fosse posto fine a tutto questo: ricorderete che i fisici americani che pubblicano una rivista scientifica avevano in copertina un orologio che di volta in volta avvicinava sempre più le lancette alla mezzanotte dell’ora fatale, dell’ora in cui la guerra nucleare sarebbe effettivamente scoppiata e quando ci si è fermati su questa strada, la lancetta dei secondi era stata disegnata quasi prossima alla mezzanotte.
La guerra nucleare ci sarebbe stata se ad un certo punto non fosse accaduto qualcosa, se in Unione Sovietica non fosse sorto un nuovo pensiero politico, se con Gorbačëv (non a caso insignito ora del premio Nobel per la pace), l’ Urss non avesse preso la decisione unilaterale di uscire dal sistema della reciprocità violenta, del bilateralismo aggressivo, di uscire dal sistema di guerra, di abbattere i muri e di provocare così anche l’avversario alla sua conversione, al suo cambiamento di impostazione politica cambiando così la faccia dell’Europa e del mondo.
E adesso vediamo quello che accade nel Golfo: anche lì ci sono tutti gli ingredienti della guerra e per ora manca solamente la guerra.
Ci sono immensi eserciti schierati da una parte e dall’altra, c’è un immenso potenziale di fuoco che è concentrato sulla linea del fronte, c’è il blocco economico dell’Iraq e l’assedio, ci sono i diktat e gli ultimatum, ci sono gli ostaggi, c’è il rifiuto di Saddam Hussein di capitolare e di arrendersi senza condizioni, come gli viene richiesto, c’è una cultura di guerra che è profusa a piene mani in tutti i giornali e in tutte le sedi politiche dell’Occidente e c’è la propaganda di guerra in Iraq.
Ancora di più c’è, da una parte e dall’altra, la sublimazione di questa guerra possibile, la guerra che dai musulmani iracheni viene proclamata come santa, in quanto si tratta di combattere degli infedeli, e la guerra che dai cristiani occidentali, a cominciare da Bush, ma anche dal cardinale Decourtray (arcivescovo di Lione e presidente della Conferenza episcopale francese) e, per venire più vicino a noi da Gianni Baget Bozzo, viene proclamata come sacrosanta perché peggiore della guerra sarebbe il disonore di non farla. Dunque ci sono tutti gli ingredienti della guerra, manca solo la guerra.
C’è ancora una pace che resiste, ma che è semplice assenza di guerra, ma se tutto continua così la guerra certamente ci sarà, ci sarà a gennaio e sarà una guerra terribile che travolgerà tutto il Medio Oriente e forse ben più del Medio Oriente.
Perciò questa non è pace, la pace non può essere solo assenza di guerra, deve essere un’altra cosa, e anche la democrazia non può essere concepita solamente come un compendio di regole per la selezione della classe dirigente, non può essere concepita solo come un meccanismo formale per l’organizzazione del potere.
La democrazia in Italia, come si sa, è in crisi profonda, ma la crisi è diventata ancora più profonda da quando per riformare la democrazia si è pensato che il problema fosse solo quello di cambiare le regole, di modificare i meccanismi elettorali, di disegnare artificialmente, mediante interventi di pura ingegneria istituzionale, le forme dell’alternativa politica, dimenticando che il problema invece è quello dei contenuti della democrazia, dei fini della politica, dei rapporti tra i cittadini, della filosofia del servizio pubblico e dei servizi sociali, della pace interna e esterna dell’intera comunità nazionale.
La democrazia non è democrazia se non fonda la pace, se non debella il dominio interno e internazionale che è l’altro nome della guerra.
La democrazia oggi più celebrata e che si propone sempre più come modello per tutte le altre, la democrazia americana, non è democrazia se tiene in soggezione i neri e i portoricani, se emargina i poveri, se fa pagare cara la salute come una merce e se è così pericolosa per i bambini (perché come sapete i bambini negli USA sono una delle categorie più a rischio).
E così la democrazia americana, benché celebri regolarmente le elezioni, non è una democrazia se esporta fascismo come ha fatto e fa in America Latina, come ha fatto in Cile, come fa in Salvador, come fa interferendo con tutti i mezzi (dai servizi segreti, al ricatto economico fino agli interventi militari) nelle periferie del mondo a tutela degli interessi e dei privilegi della metropoli imperiale.
Questa democrazia non produce la pace ed è, anzi, tra le maggiori cause del grande disordine del mondo: come la pace non è un semplice gioco di guerra senza guerra, così la democrazia non è semplice regola del gioco, non è libertà formale, non è astratta enunciazione di diritti, ma è sostanza di autogoverno popolare, di diritti effettivamente esercitati, di giustizia realizzata, di pace vissuta e garantita; sennò non è democrazia, ma è solo un involucro vuoto di conclamata ingiustizia e di guerra fatta contro il popolo anche se democraticamente in nome del popolo.
Queste cose non sono ignote in teoria, anzi tutti le sanno: il problema è che non sono verità in pratica; che non siano ignote in teoria è dimostrato precisamente da quell’alto monumento di sapienza giuridica che è la Costituzione italiana, una Costituzione molto negletta, molto poco attuata e oggi anche un po’ diffamata che non merita però di essere né negletta né diffamata perché è una buona Costituzione, non a caso frutto di un brevissimo momento di unità nazionale dopo la grande divisione del fascismo e prima della nuova grande divisione dell’anticomunismo e della Gladio.
In quell’intervallo di tempo così atipico nel lungo corso della storia italiana, si è riusciti a produrre una Costituzione che è una delle costituzioni più belle e più avanzate che ci siano in Occidente, che molti ci invidiano e che molti ci imitano: tanto è vero che molti stati di recente democrazia ricavano dalla Costituzione italiana molti modelli e molti princìpi per le loro costituzioni. 
I costituenti si trovarono a dover fondare una democrazia che in Italia non c’era mai stata: una democrazia a suffragio universale, di uomini e donne, senza discriminazioni di sesso e senza discriminazioni di censo (il suffragio ristretto per il censo è durato in Italia fino alla Prima guerra mondiale).
Una democrazia che non fosse solo formale, ma fosse sostanziale: subito i costituenti compresero il nesso indissolubile tra democrazia e pace, pace interna e pace internazionale.
Per la pace interna stabilirono i diritti cosiddetti della prima, della seconda e della terza generazione.
I diritti della prima generazione sono quelli tradizionali: sono i diritti della Rivoluzione francese, sono i diritti di libertà soprattutto intesi come libertà “da”.
Libertà dalla costrizione, libertà dall’impedimento, libertà dal dominio, libertà diciamo intesa in senso negativo ma naturalmente ricca di contenuto positivo, libertà personale, libertà di comunicare, libertà di muoversi, libertà di associarsi, libertà di espressione del pensiero, libertà di religione e così via.
I diritti della seconda generazione sono quelli che danno sostanza all’astrattezza dei primi: sono i diritti economici e sociali, i diritti al lavoro, i diritti alla previdenza, all’assistenza, alla rimozione delle cause che impediscono la libera espressione della personalità, il diritto al ristabilimento dell’uguaglianza nonostante la disparità dei punti di partenza e così via.
E poi ci sono i diritti più recenti che sono i diritti di terza generazione: sono i diritti all’ambiente, ai beni culturali, alla salute, al paesaggio e naturalmente il diritto alla pace. Questa non è tanto libertà “da”, ma è libertà “per”: per realizzare qualcosa, per fare una società che sia vivibile.
Ed è qui che allora si stabilisce il nesso tra la realizzazione dei diritti, intesi come contenuto e sostanza della pace interna della comunità, e la costruzione, il mantenimento della pace internazionale.
Non ci sono diritti senza pace e non c’è pace interna senza pace internazionale.
E allora è qui che i costituenti con l’articolo 11 fanno una scelta di straordinaria importanza: sono così convinti di trovarsi di fronte al problema cruciale, alla condizione stessa della democrazia, a ciò per cui la democrazia sta o cade, che non solo escludono la guerra, ma la ripudiano e il soggetto che opera questo ripudio non è semplicemente lo Stato; non è lo Stato come ordinamento perché un ordinamento può sempre cambiare le sue determinazioni, ma il soggetto è l’Italia.
“L’Italia ripudia la guerra”, dice l’articolo 11 della Costituzione e cioè uno stato-comunità che viene prima e va oltre ogni ordinamento e ogni sua determinazione.
L’Italia ripudia la guerra e si deve intendere che questo ripudio è definitivo, immodificabile e irreversibile e molti costituzionalisti dicono che questo è uno dei principi fondamentali della Costituzione che, come la forma repubblicana dello Stato, non può essere sottoposto a revisione.
La novità è tanto più radicale in quanto fino ad allora il diritto di guerra era stato considerato come un diritto inerente alla sovranità, come il prolungamento naturale della sovranità dello Stato, anche democratico, né più né meno di quanto lo fosse il vecchio diritto di guerra del principe.
Secondo la teoria più estrema questo diritto sovrano di guerra non conosceva limiti e condizioni e uno Stato poteva fare guerra per qualsiasi motivo, era proprio una prerogativa della sovranità; c’era però una teoria più moderata affermatasi nel diritto internazionale, soprattutto dopo la Prima guerra mondiale, secondo cui la guerra era lecita, ma non per qualsivoglia motivo. Era lecita solo la guerra giusta, vale a dire la guerra tesa all’attuazione coercitiva di un diritto internazionalmente riconosciuto, cioè la guerra intesa come sanzione, come punizione del trasgressore.
Anche in questo caso però la guerra era considerata come un diritto della sovranità, cioè come un mezzo lecito e naturale per la risoluzione di una controversia internazionale quando lo Stato che muoveva guerra assumesse che quella controversia verteva per la violazione di un diritto.
Questo era lo stato delle cose fino alla Costituzione italiana.
Ora, è anche questa versione più moderata del diritto di guerra che l’articolo 11 ripudiava dicendo appunto che la guerra era ripudiata non solo come offesa alla libertà degli altri popoli, ma anche come mezzo per la risoluzione delle controversie internazionali e a tal punto si era consapevoli che questo ripudio della guerra innovava profondamente la vecchia concezione illimitata della sovranità, che collegata al rifiuto della guerra si ammetteva da parte dell’Italia quella rinunzia, quelle limitazioni alla sovranità che fossero ordinate al fine della creazione di un ordinamento di giustizia e di pace tra le nazioni.
Cioè per arrivare alla pace si metteva in gioco il diritto di sovranità, si accettavano le limitazioni della sovranità, che poi sono giustificate da questo fine di creare un ordinamento di pace e di giustizia tra le nazioni.
La pace dunque non solo come soggettiva aspirazione nazionale, ma come ordinamento, cioè come un bene realizzato e garantito dall’ordine politico e giuridico internazionale fondato sull’integrazione tra gli stati e perciò sulla limitazione della sovranità dei singoli stati.
L’unica guerra che restava e che resta lecita per l’ordinamento italiano, e a cui veniva finalizzato il servizio militare obbligatorio, previsto dall’articolo 52 della Costituzione, è la guerra difensiva, la cosiddetta “difesa della patria” che è qualificata in Costituzione come un sacro dovere del cittadino.
Ma nel sistema della Costituzione, fondato sul ripudio della guerra, tale difesa va intesa in un senso stretto non estensibile per esempio alla difesa di interessi italiani oltrefrontiera; questa non è difesa della patria. Difendere gli interessi italiani oltrefrontiera, analoghi ad esempio a quelli che gli Stati Uniti definiscono interessi vitali degli Stati Uniti all’estero, non è ammissibile per la Costituzione italiana. 
Questo concetto di difesa non è estensibile a questo né è estensibile alla difesa di principi generali del diritto internazionale o alla difesa di pur sacrosanti diritti altrui né, tantomeno, si può spacciare come difesa della patria la difesa di un certo livello dei prezzi del petrolio.
E così ad esempio nel dibattito parlamentare del 23 agosto scorso, mentre si discuteva appunto della partecipazione dell’Italia nelle misure di guerra contro l’Iraq, l’ex ministro democristiano Guarino, perciò un membro autorevole della maggioranza, spiegava che per “difesa della patria” si deve intendere in senso stretto: la difesa del territorio nazionale o di porzioni consistenti della popolazione nazionale contro un aggressione in atto, sicché in nessun modo sarebbe lecita, a termini di Costituzione, una partecipazione dell’Italia alla guerra del Golfo contro l’Iraq e tale illegittimità costituzionale, diceva ancora Guarino, persisterebbe anche se l’Onu desse la facoltà di usare la forza per la riconquista del Kuwait, perché una semplice facoltà o autorizzazione data dall’Onu si scontrerebbe pur sempre con lo stato insuperabile del ripudio della guerra dell’articolo 11.
Solo se l’Onu non solo desse la facoltà ai suoi membri, ma stabilisse l’obbligo e il dovere di un’azione coercitiva compiuta per il recupero del Kuwait, allora l’Italia potrebbe partecipare a tale azione militare perché allora il suo obbligo nei confronti dell’organizzazione internazionale e la consentita limitazione alla sua sovranità, prevarrebbero sulla riserva generale contro la guerra. 
Quindi perché fosse lecita una partecipazione dell’Italia a un’azione militare voluta dalle Nazione Unite, occorrerebbe non solo che quest’azione fosse autorizzata, ma che fosse decisa e intrapresa direttamente dalle Nazioni Unite con un dovere, un onere imposto agli stati membri.
Perciò solo sul vincolo di una deliberazione e nelle forme di una forza multinazionale dell’Onu, l’Italia potrebbe partecipare a una guerra fuori dai suoi confini e non di difesa.
Qui appunto si apre l’altra grande questione che riguarda la democrazia internazionale e che riguarda le Nazioni Unite, perché bisogna dire con molta chiarezza che chiamare in causa l’Onu non vuol dire affatto che con l’Onu ogni guerra sia possibile. 
Infatti il vincolo tra democrazia e pace non c’è solo nell’ordinamento interno italiano, ma c’è anche nell’ordinamento internazionale e in quelle norme fondamentali dell’ordinamento interazionale. Come per l’Italia sono rappresentate dalla Costituzione, così per la comunità internazionale sono rappresentate dallo Statuto dell’Onu; anzi si può dire che c’è una corrispondenza e una coerenza perfetta tra il dettato costituzionale italiano sulla pace e la difesa e lo Statuto delle Nazioni Unite che, non dimentichiamolo, era già vigente quando la carta costituzionale italiana fu scritta e di cui essa risulta in qualche modo l’attuazione sul piano nazionale.
Anche le Nazioni Unite infatti, non meno dell’Italia, ripudiano la guerra; la parola usata non è questa, ma si parla, fin dal preambolo della carta e come enunciazione della stessa ragione d’essere delle Nazioni Unite, del flagello della guerra da cui devono essere salvate le future generazioni; per questo l’Onu è nata, per salvare dal flagello della guerra le future generazioni, questo il fine istituzionale, la ragione, l’ontologia dell’Onu. 
E non solo nel preambolo: tutte le singole norme dello Statuto delle Nazioni Unite, coerentemente con questa finalità e con questa premessa, sono esplicitamente o implicitamente, ma più spesso esplicitamente, ordinate al mantenimento o al ristabilimento della pace e della sicurezza internazionale. 
È vero quello che dicono i sostenitori delle maniere forti e cioè che a differenza della vecchia Società delle Nazioni, le Nazioni Unite hanno inteso istituire un vero e proprio sistema di sicurezza collettivo che prevede in ultima istanza per attuarsi anche l’uso della forza; le Nazioni Unite non sono un profeta disarmato come in qualche modo era la Società delle Nazioni, ma quest’uso coercitivo della forza che viene riconosciuto alle Nazioni Unite, e che viene riconosciuto fondamentalmente nell’articolo 42 della carta dell’Onu, è configurabile come un’azione di polizia internazionale e non potrebbe mai concepirsi come un vero e proprio diritto di guerra.
L’Onu non ha ereditato il diritto di guerra dei vecchi stati sovrani, sicché una guerra che in ipotesi non fosse più lecita se fosse fatta in nome proprio da uno stato nazionale, diventerebbe lecita se fatta in nome dell’Onu o se fatta dall’Onu.
La illegittima guerra degli Stati Uniti e di tutto il campo crociato nel Golfo non diverrebbe legittima solo per l’effetto miracoloso di una deliberazione dell’Onu; questo se vogliamo stare al diritto vigente prima ancora di riformare e di democratizzare ulteriormente le Nazioni Unite.
L’Onu può certo decidere un certo uso coercitivo della forza anche militare, ma questo non può mai voler dire intraprendere una guerra nel senso classico del termine; quello che è avvenuto con l’Onu, cioè con il passaggio a una democrazia universale dei popoli, non è il trasferimento del diritto incondizionato di guerra e nemmeno del diritto di guerra giusta dai singoli stati a un nuovo potere che sta al di sopra degli stati.
È avvenuta un'altra cosa: è avvenuto il coronamento del processo di ripudio e di delegittimazione della guerra, non solo per quanto riguarda i singoli stati, ma anche per quanto riguarda la comunità degli stati.
Non cambia solo il titolare del diritto di guerra, la cui legittimazione alla guerra era una delle condizioni perché la vecchia guerra potesse essere considerata come giusta (uno degli ingredienti della guerra giusta fin dalla vecchia dottrina classica agostiniana cattolica era che la guerra doveva essere prima di tutto dichiarata dall’autorità legittima); il problema non è solo che cambia l’autorità legittimata a dichiarare la guerra, il problema con la nascita delle Nazioni Unite è che cade lo stesso concetto di guerra giusta, non c’è più guerra giusta, perché non ci deve essere guerra.
E non è per caso che dopo lo Statuto dell’Onu uno dei più tradizionalisti cardinali romani, il cardinale Ottaviani, poteva scrivere nelle sue “Institutiones iuris publici ecclesiastici” questa frase icastica: “Bellum est omnimode interdicendum” (traduzione: “La guerra è in ogni modo da interdire”).
E non è neanche un caso che dopo lo Statuto dell’Onu, papa Giovanni XXIII poteva nella “Pace in terris” classificare come un segno dei tempi e non come un’acquisizione dottrinale, cioè come un’evidenza di senso comune il fatto che la guerra era ormai priva di ragione (“alienum a ratione”) e in nessun caso poteva essere considerata come atta a risarcire o ristabilire i diritti violati.
Questa è la novità introdotta dalla carta delle Nazioni Unite: l’Onu non può fare la guerra per domare, per assoggettare o distruggere il suo nemico, per il semplice fatto che l’Onu non può avere nemici, perché tutti i popoli e gli stati fanno parte integrante della comunità delle nazioni in cui l’Onu consiste.
E perciò neanche l’Iraq è nemico dell’Onu anche se ne viola le norme o ne disattende le risoluzioni; una guerra fatta dall’Onu contro uno dei suoi membri sarebbe una guerra civile, una guerra intestina che frantumerebbe l’unità delle nazioni, sarebbe come se nell’esercizio della loro funzione di polizia i carabinieri invece di perseguire la mafia siciliana muovessero guerra alla Sicilia bombardandola e distruggendola.
Quali sono le guerre che allora restano lecite dal punto di vista del diritto internazionale? Anche qui restano lecite le guerre di difesa che ciascuno stato può condurre per difendersi da un’aggressione in base al principio di autotutela stabilito dall’articolo 51 della carta dell’Onu, ma anche questo diritto di autotutela non è illimitato. 
Esso può esercitarsi, dice la carta dell’Onu, fino a quando il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale, vale a dire per esercitare in maniera collettiva e non più individuale quel ruolo di tutela.
Ed è in questo quadro allora che l’Onu può ricorrere alla forza, ma questa forza come dice l’articolo 42 della carta, può esplicarsi in azioni determinate volte a mantenere o a ristabilire la pace internazionale e mai può esplicarsi in quell’infinito, coordinato e sistematico complesso di azioni coercitive e di violenza che è costituito dalla guerra.
È proprio per evitare che il ricorso alle misure coercitive da parte dell’Onu si traduca in un vero e proprio ricorso alla guerra, che lo Statuto stabilisce una serie rigorosa di procedure e garanzie che devono, a pena di nullità, presiedere a quest’uso internazionale della forza.
E queste procedure e queste garanzie sono stabilite negli articoli della carta dell’Onu: dall’articolo 42 in poi dove si dice che per esercitare questo ruolo coercitivo di attuazione coattiva del diritto internazionale, l’Onu costituisce una forza militare che è formata da contingenti di diversi stati membri, ma la procedura attraverso la quale ciascuno stato membro mette a disposizione dell’Onu queste forze militari è una procedura negoziale; vale a dire ogni stato deve negoziare con il Consiglio di sicurezza il passaggio sotto l’autorità delle Nazioni Unite di propri contingenti militari e quindi un processo negoziale in cui si stabiliscono diritti e doveri delle parti e la forza dell’Onu, una volta costituita, deve essere messa sotto la direzione strategica del Consiglio di sicurezza, coadiuvato dal Comitato di Stato Maggiore, composto dai capi di stato maggiore dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza.
Queste norme e queste garanzie escludono varie cose: escludono per esempio che una forza nazionale possa automaticamente diventare una forza dell’Onu semplicemente spolverandoci sopra i colori dell’Onu, esclude che una guerra, un’azione militare possa essere condotta da forze di membri delle Nazioni Unite sotto un comando che non sia il comando del Comitato dei capi di stato maggiore e sotto la responsabilità politica del Consiglio di sicurezza e non certo sotto il comando e la responsabilità politica di quello stato e di quella direzione politica di quello stato.
Ciò significa che un’azione militare di questo tipo è soggetta ai limiti, ai condizionamenti e alla direzione del complesso delle Nazioni Unite attraverso questi organi dirigenti.
E questa mi pare che sia la ragione per cui la grande guerra che oggi è preparata in Medio Oriente non può diventare la guerra dell’Onu, non può questa guerra come è stata preparata, organizzata, pensata, predisposta, sic et sempliciter diventare la guerra dell’Onu per virtù di una semplice nuova risoluzione del Consiglio di sicurezza; se lo diventasse, se questo avvenisse, se per disgrazia il Consiglio di sicurezza si prestasse a un’operazione di questo genere, se l’Unione Sovietica non mettesse il veto a una risoluzione di questo genere, se facesse questo grande errore di perdere tutto il senso e il frutto del grande cambiamento politico che ha fatto finora riguardo alla grande questione della pace e della guerra, se tutto questo avvenisse, se l’Onu facesse sua la guerra preparata dagli Stati Uniti e dai loro alleati nel Golfo, l’Onu tradirebbe la sua ragione d’essere, ucciderebbe se stessa e questa sarebbe un'altra e forse non delle minori conseguenze gravissime di una guerra nel Golfo.
Perché attraverso questo atto si tornerebbe in realtà a legittimare la guerra, si ripristinerebbe la guerra come architrave della politica internazionale, si ripristinerebbe la guerra, cosa da cui siamo appena usciti, come fonte e culmine della politica mondiale, si reintrodurrebbe il concetto di guerra giusta, la guerra come sanzione.
Si ripristinerebbe il diritto di ricorrere alla guerra per risolvere le controversie internazionali, ognuno naturalmente invocando il proprio diritto contro il diritto dell’altro e quindi, in definitiva, non si farebbe altro che riconsacrare il diritto dei più forti nei confronti dei più deboli, perché quando c’è una controversia sul diritto ognuno afferma che il suo diritto è quello vero e quello giusto e se si affida di dirimere questa controversia alla guerra finisce per avere ragione solamente chi vince la guerra, cioè chi è più forte.
C’è poi un'altra caratteristica particolarmente sgradevole di questa guerra annunciata ed è che questa guerra (e anche in questo c’è una certa interrelazione col problema della democrazia) sarebbe fatta almeno da una parte, da eserciti in schiere, e io credo che se la democrazia interna e internazionale proscrive la guerra e mette precisi limiti anche alla guerra di difesa, tanto più si deve dire che esclude la guerra di mestiere.
Invece succede che con l’avanzare della tecnologia c’è una crescente e pericolosa tendenza a sostituire gli eserciti di leva, gli eserciti di popolo, fondati sul servizio militare obbligatorio con gli eserciti di professionisti, con gli eserciti professionali e la tendenza a fare della guerra una guerra di mestiere come era una volta quando la guerra era fatta dai mercenari.
È una tendenza che si manifesta un po’ dappertutto e che si manifesta anche in Italia.
Abbiamo concluso da poco nella Commissione difesa della Camera un’indagine conoscitiva per enunciare le linee del cosiddetto “nuovo modello di difesa”: se non c’è più la guerra a est e a ovest vediamo come deve essere fatto il modello di difesa italiana.
Nel documento di maggioranza che è stato preparato – lo stiamo discutendo in questi giorni - dal presidente della Commissione Zanone, c’è una chiara azione a favore dell’esercito di mestiere anche in Italia e quindi anche qui con una rimessa in causa del principio del servizio militare obbligatorio che è sancito dall’articolo 52 della Costituzione.
Ma questa tendenza che in Italia già si comincia ad affacciare, rischia di diventare già in qualche modo un’opzione in un documento parlamentare, e per altro una tendenza che ha già fatto molto colpo altrove ed è già in atto in America, negli Stati Uniti, la tendenza ormai a configurare le forze armate in forze armate professionali. E questa è una delle conseguenze della guerra in Vietnam.
Una delle ragioni per cui fu perduta la guerra in Vietnam da parte degli Stati Uniti fu che i soldati di leva bruciavano le cartoline, non volevano fare la guerra, facevano obiezione di coscienza, andavano in Svezia, dentro poi tutto quel movimento contro la guerra che invase l’America e che costrinse gli Stati Uniti a ritirarsi dal Vietnam.
Come risposta gli Usa abolirono la costrizione obbligatoria e introdussero l’arruolamento volontario, professionale e così adesso l’esercito americano è tutto interamente un esercito di mestiere: perciò la guerra del Golfo sarà la prima grande guerra fatta dagli americani con un esercito di mestiere.
Tra l’altro con delle conseguenze abbastanza negative dal punto di vista dell’eguaglianza dei cittadini americani: di fatto quelli che poi sono andati a fare i militari sono al solito portoricani, neri, quelli meno favoriti, quelli che hanno minori possibilità di successo sociale e così via e che quindi cercano nel mestiere delle armi un modo di sopravvivere, un modo di trovare un’educazione, un addestramento e naturalmente un modo di provvedere alla propria vita; quindi succederà che se ci saranno, come ci saranno, morti americani in questa guerra, al solito la maggior parte dei morti saranno delle classi meno favorite, non certamente delle classi più ricche.
Però devo dire che questa caratteristica della guerra di mestiere non cambia solamente la natura dei combattenti, la natura di quelli che concretamente fanno la guerra, ma cambia anche la natura e la concezione della guerra. E questa mi sembra una cosa di particolare gravità.
Vorrei cercare di trasmettervi questa impressione raccontandovi una storia: un anno fa, proprio il 17 novembre dell’anno scorso, il giorno in cui cadeva il muro di Berlino, noi come Commissione difesa della Camera ci trovavamo per una missione informativa a Omaha, nel Nebraska, negli Stati Uniti, nella sede del S.A.C., lo Strategic Air Command, che sarebbe il comando delle forze strategiche americane da cui dipende la maggior parte della forza d’urto nucleare degli Stati Uniti; per esattezza i due terzi degli armamenti nucleari americani dipendono dal S.A.C., perché dipendono dal S.A.C. tutte le forze nucleari di terra e quelle aeree con la sola esclusione delle forze nucleari della marina, che dipendono invece da un altro comando. 
Tra l’altro dall’aeroporto di questo S.A.C. si alzava in volo quel famoso aereo che dal 1964, cioè dalla crisi di Cuba, vola ininterrottamente per 24 ore su 24 sugli Stati Uniti perché è un aereo in cui c’è sempre un generale (perché bisogna avere molte stelle qui sulla divisa) che ha questo preciso compito: quand'anche in una guerra nucleare fossero distrutti tutti i comandi politici e militari a terra, fosse distrutta la Casa Bianca, fossero distrutti tutti i comandi delle postazioni missilistiche, degli I.C.B.M., quand’anche tutto fosse distrutto, ci sarebbe pur sempre questo aereo che gira 24h su 24h sugli Stati Uniti, con un generale a bordo che all’ultimo momento può spingere il bottone per cui direttamente si dà il comando alle forze nucleari sotterranee, custodite nei silos sotterranei degli Stati Uniti, per scatenare la finale apocalissi nucleare. 
Questo è lo scopo di questo aereo che gira 24h ore su 24: questo per dirvi il fascino perverso insomma di questo luogo e tra l’altro devo dire che nel nostro incontro con questi generali e con questi ufficiali americani noi abbiamo trovato una grande professionalità, un grande senso di realismo.
Per cui per esempio i generali del S.A.C., quelli che stavano a terra, avevano perfettamente capito che era finita l’era della guerra nucleare, avevano ormai perfettamente inquadrato tutta la novità che era intervenuta nell’Unione Sovietica; i loro servizi di intelligence avevano detto che le parole di pace e di disarmo dell’Unione Sovietica non erano solamente parole, ma corrispondevano effettivamente a una riduzione corrispondente delle forse strategiche sovietiche e anche di fronte all’obiezione che molti politici attardati e conservatori facevano, secondo cui della Russia non ci si può mai fidare, perché potrebbe sempre da un momento all’altro ritornare alle vecchie proposte aggressive, questi responsabili della sicurezza militare degli Stati Uniti rispondevano tranquillamente sì, questo può succedere in teoria, ma in pratica noi ce ne accorgeremmo con tanto anticipo, per cui saremmo in tempo a ripristinare le nostre strutture di difesa.
I generali a terra erano ormai pacifici, tranquilli e sicuri che tutto questo grande apparato era oramai superato, non c’era più bisogno.
C’era uno solo che invece diceva che no, il pericolo era grandissimo, ed era il generale che stava sopra quell’aereo lì, con cui noi siamo entrati in rapporto radio e a cui noi abbiamo fatto questa domanda: “Ma generale ormai lei non si sente un po’ frustrato a girare e stare lì sopra? Ormai la guerra nucleare non c’è più e lei non deve più schiacciare nessun bottone” e lui disse: “No, macché, è importante, può sempre succedere, non si sa mai”.
Era l’unico insomma che aveva bisogno di difendere il suo mestiere, la sua funzione là sopra e credo che poi quest’aereo sia stato fatto discendere finalmente a terra.
Perché ho raccontato questa cosa? Per dire che in questo comando del S.A.C., c’era una grande scritta che diceva: “La guerra è il nostro lavoro, la pace è il nostro prodotto”.
Naturalmente c’è la solita retorica della guerra che produce la pace e devo dire che a me non ha fatto tanto impressione il fatto che venisse stabilita questa connessione quasi di causa-effetto tra la guerra e la pace, perché purtroppo questa viene da lontano nella cultura dell’Occidente, quindi non è questo che meraviglia, quest’idea che la pace sia ottenuta attraverso la guerra e non attraverso la politica, la giustizia, ecc.
La cosa che mi colpì fu questa definizione della guerra come job, come un lavoro; e questo mi sembrò un modo paradossale per confermare per così dire quella intuizione di Marx secondo la quale nell’ambito del sistema produttivo della società capitalistica, ma più in generale nella società industriale avanzata, il lavoro è un lavoro alienante, è un lavoro che sembra essere produttivo e in realtà si rovescia in lavoro distruttivo, un lavoro in cui il prodotto del lavoro viene separato dal lavoratore, da colui che produce, si ritorce contro di lui e rischia addirittura di distruggerlo e di alienarlo, di farlo perdere come soggetto.
Quindi sembrava proprio che quest’idea della guerra e del lavoro fosse proprio il massimo del simbolo per esprimere questa carica distruttiva, autolesionista del lavoro che alla fine si rovescia, si rivolta contro chi lo fa e nel caso dei militari che fanno la guerra di lavoro, è chiaro che insomma possono anche rimetterci la vita, la soggettività è al grado massimo perché questo lavoro è un lavoro che distrugge gli altri e distrugge loro stessi.
Questa frase della guerra come job mi è tornata in mente quando trovandomi a Bagdad nei primi di novembre, poche settimane fa, in coincidenza con la nostra presenza a Bagdad (eravamo andati con una delegazione parlamentare non ufficiale per aprire qualche strada di dialogo col regime iracheno e per vedere se si potevano riportare a casa gli ostaggi italiani e non solamente quelli italiani, impresa che poi ha aperto la strada come avete visto a molte altre iniziative che si sono positivamente sviluppate), contemporaneamente il segretario di stato americano Baker andò in Arabia Saudita, prima a parlare col re per decidere la data dell’attacco e poi andò a ispezionare le truppe, i marines e le truppe di terra, le truppe schierate nel deserto. 
Siccome era solo il Segretario di stato e non era il presidente Bush, i soldati con cui entrò in contatto non erano stati selezionati, non erano stati scelti, non erano artificiali, erano normali, veri insomma. I colloqui, le battute che si sono scambiati tra questi soldati e Baker che sono stati riportati dai giornali americani (li ho letti mentre ero a Bagdad) erano questi: i soldati dicevano a Baker: facci fare il nostro job e mandaci a casa, dobbiamo fare questo job, dobbiamo cacciare l’Iraq dal Kuwait? Benissimo, non ci far restare qui senza fare nulla, senza fare il job e senza stare a casa nostra: o ci fai fare il job o ci fai andare a casa e se vuoi farci fare il job faccelo fare subito e poi andiamo a casa. 
Quindi la mentalità della guerra come un job e questa non è solamente una notazione folkloristica perché io credo che questa richiesta pressante di questi soldati di fare il job e di andarsene a casa, è una delle cause non ultime di questa accelerazione che ha avuto, negli ultimi giorni e nelle ultime settimane, la spinta americana e il lavorio diplomatico americano per arrivare a stabilire in tempi ormai ravvicinati la data della guerra, la data dell’attacco.
È per tutta questa serie di ragioni che le notizie che proprio oggi si sono lette e cioè di questa risoluzione dell’Onu di cui gli Stati Uniti stanno cercando in questo momento di ottenere l’approvazione da parte del Consiglio di sicurezza dell’Onu, una risoluzione che dovrebbe contenere l’ultimatum all’Iraq che non ha altra alternativa all’accettazione di questo ultimatum, alla resa senza condizioni che si chiede all’Iraq, che non ha altra alternativa che la guerra, che queste notizie sono estremamente preoccupanti, perché bisogna allora capire quale è questa guerra che si sta decidendo di fare.
Ed è importante che noi cerchiamo di capire, perché una delle cose peggiori che sta accadendo è che noi andiamo verso una guerra che probabilmente non ha precedenti dopo la Seconda guerra mondiale, che sarà una guerra di grandi mutazioni, una guerra dalle conseguenze non facilmente calcolabili e ci stiamo andando senza che nessuno ne parli, senza che nessuno se ne accorga, come se fosse una specie di evento della natura. Hanno fatto un’esercitazione per preparare questa guerra (che poi è andata male perché c’era un po’ di vento grazie a Dio anche questa tecnologia poi cede di fronte alle irritazioni della natura), ma questa esercitazione di sbarco che dovevano fare si chiamava “tuono imminente”; un tuono quando arriva, arriva:, non ci si può fare nulla, è un evento della natura, ma questa guerra non è un evento della natura, non è un tuono, non è un terremoto, non è un’eruzione di un vulcano, è un evento della cultura, è un evento della politica, è una decisione che si sta prendendo. 
Noi non possiamo andare incontro a questa decisione come si va incontro a un tuono o a un terremoto.
Questo è un fatto che è deciso, che è voluto, che è organizzato, che è preparato e allora non è possibile che nessuno, non noi, ma nessuno anche al di fuori di noi, anche al di fuori di questo Paese, ma intanto in questo Paese, non è possibile che si vada incontro a questo evento come se fosse un fatto minore, un evento così marginale, rispetto a cui ci sono cose più importanti, che certo sono importantissime (il Gladio, lo sciopero dei magistrati…), ma insomma questa è una guerra.
Nessuno ne parla, non c’è una grande discussione nazionale, non c’è una vertenza nazionale, una vertenza politica aperta su questo. 
Il Parlamento è da molto tempo che non se ne può occupare, non ne discute (abbiamo avuto solo due discussioni parlamentari, una ad agosto e una a settembre) e su questo non si chiedono le dimissioni del Governo, non si mettono in valore le distinzioni che pure ci sono all’interno della maggioranza tra per esempio la linea Andreotti e la linea De Michelis; non si contesta questo ministro degli Esteri, il quale dice pubblicamente come se fosse la cosa più naturale del mondo che lui sta lavorando a una conferenza per la cooperazione e la sicurezza nel Medio Oriente sulla modello della Csce, la Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa (che ha portato quei frutti così importanti, l’abbiamo visto anche in questi giorni a Parigi, questo stabilimento in un clima di fiducia di sicurezza in Europa, ecc.).
Il punto è che quello che dice De Michelis è che lui questa conferenza per il Medio Oriente la sta preparando non invece della guerra, ma per dopo la guerra: lui vuole che prima ci sia la guerra e poi ci sarà una bella conferenza per la cooperazione e la sicurezza in Medio Oriente, il che è un’assurdità storica; questo lo hanno rilevato anche i parenti degli ostaggi italiani e il comitato delle famiglie degli ostaggi che sono già tornati in Italia dall’Iraq e hanno fatto un documento in cui hanno denunciato questo. 
Il pensare adesso di fare una conferenza politica, diplomatica, sull’assetto dei primi tempi in Medio Oriente dopo la guerra, è la stessa assurdità storica di dire nel 1939, prima dello scoppio della guerra in Europa, prima dell’invasione della Polonia, però prepariamo già da adesso la conferenza di Helsinki per poi mettere a posto le cose in Europa.
Quando si entra nell’ingranaggio di una guerra non è assolutamente prevedibile quali possono essere i contraccolpi, le conseguenze, le devastazioni, i tempi lunghi che ci vogliono per riassorbire gli odi, le inimicizie, le distruzioni, ecc. Quindi è una cosa totalmente assurda. Una linea politica di questo genere oltre che essere diciamo contestabile sul piano dell’opportunità, sul piano dell’interesse nazionale, soprattutto è culturalmente e storicamente assurda.
E su questo nessuno dice nulla, nessuno parla, non c’è una contestazione, non c’è un dibattito pubblico, non c’è una sollevazione dei partiti di opposizione, non c’è nulla e questa è la cosa che fa impressione, perché non è che ci sia bisogno grandi capacità di interpretazione dei fatti o grandi apporti informativi: basta leggere i giornali per sapere queste cose.
E allora che tipo di guerra sarebbe? È un guerra che certamente è una guerra distruttiva, perché gli Stati Uniti hanno fatto l’esperienza della guerra nel Vietnam, sono rimasti profondamente frustrati dall’andamento della guerra in Vietnam (quella che è stato chiamata la “sindrome del Vietnam” che per anni e anni ha gravato sulla politica americana) e l’Onu una guerra come quella in Vietnam non la farà mai più; una guerra che comincia gradualmente che poi ha un escalation graduale, con una pressione sempre più forte fino a sperare di vincere, senza arrivare mai all’ultimo stadio della violenza, non la faranno mai più, perché quella guerra hanno già visto che non funziona. Gli Stati Uniti devono fare invece una guerra di immediata e alta intensità capace di risolvere in pochissimi giorni, vale a dire prima che si possa consolidare una opposizione interna, prima che possa nascere un movimento pacifista negli Stati Uniti, prima che ci possa essere una contestazione al congresso, prima che possano prodursi delle fratture in questo fronte anti-iracheno, prima che possano stabilirsi dei fattori di disgregazione degli alleati arabi, loro devono fare questa guerra e in pochissimo tempo con un’altissima intensità.
E quando Bush il 3 agosto, dopo l’invasione del Kuwait, ha chiamato il generale Powell e gli ha detto manda in Arabia una forza militare, Powell ha detto: io ce la mando la forza militare, ma se vado in Arabia, se vado lì per fare la guerra, devo fare una guerra che posso vincere.
Il generale Powell è un generale nero, è il primo generale nero che comanda la potenza militare americana e lui ha bisogno di dimostrare la sua professionalità: se mi fate fare una guerra devo fare una guerra che io devo vincere, non può il primo generale nero che comanda la forza militare americana fare una guerra e perderla, perché questo è un lusso che noi non ci possiamo permettere, se devo fare una guerra devo vincere e ha preteso e ottenuto di fare il più grande ponte aereo della storia e trasportare in pochissimo tempo nel deserto una grade quantità di uomini, di materiali e di armamenti; poi ha preteso un aumento di questi uomini, ha preteso adesso altri 100.000 (tra l’altro si disarma l’Europa e si mandano lì a poca distanza, tra l’altro questo fa anche perdere tutto il valore del disarmo europeo perché questi 100.000 in più mandati in questi giorni sono quelli che sono smantellati dal teatro europeo) e poi chiede che altri 100.000 siano mandati dagli Stati Uniti, si deve arrivare ad una forza d’urto di 450.000 uomini solamente americani, poi ci sono gli inglesi, ci sono i francesi, ci sono gli arabi e quindi sarà una guerra d’urto di grandissime proporzioni, di grandissime capacità distruttive.
Non sarà solamente una guerra che viene dal sud, ma sarà una guerra che viene anche dal nord, perché all’attacco dal sud, che sarà soprattutto in un attacco aereo e quindi un attacco rivolto a distruggere tutte le basi, tutti i centri di comando e certamente anche le popolazioni civili, l’Iraq secondo i piani di guerra che furono rivelati dal capo di stato maggiore dell’aeronautica americana, il generale Dugan, che per aver rivelato questi piani è stato per l’appunto destituito; una guerra che viene dal sud ma che sarà anche dal nord, perché dal nord attaccherà la Turchia e la vera e propria invasione dell’Iraq avverrà con gli eserciti turchi musulmani di terra e quindi sarà una guerra di grandissime dimensioni.
Non sarà una piccola guerra, sarà una grande guerra e siccome in questa guerra gli americani vogliono morire in pochi, questa è un'altra delle caratteristiche, dei punti fondamentali del modo di fare la guerra degli americani, allora siccome questa sarà una guerra ad alto tasso di morti, bisogna fare che i morti siano dall’altra parte, e quindi come dire non è una cosa verso cui noi andiamo con tanta solare indifferenza.
L’altra cosa che io vorrei chiedermi è se le ragioni di questa guerra sarebbero almeno delle ragioni giuste, perché insomma ci si dice che questa guerra deve servire per una ragione pedagogica, e mai pedagogia eventualmente è stata più sanguinosa, comunque la pedagogia sarebbe quella di dimostrare che il diritto internazionale finalmente bisogna rispettarlo e che non si possono invadere gli altri Paesi, non si possono annettere, non si possono violare le regole di diritto internazionale, cose sacrosante naturalmente.
Si tratta di vedere primo se questo obiettivo, sia pure importantissimo, è comunque proporzionato al costo di una guerra come quella che si prepara e secondo se veramente è questo l’obbiettivo che poi ci si propone, se è la vera motivazione della guerra oppure se per caso la guerra non abbia altre motivazioni che sono meno pregiate di questa. 
Io vorrei darvi una testimonianza, appunto perché è sempre bello rifarsi a testimoni credibili proprio perché sono al di sopra dei sospetti di partigianeria o di faziosità, e come prima ho citato Guarino, adesso vorrei citare l’ex presidente dell’Eni, Reviglio, socialista, espressione della classe dirigente di questo Paese, il quale in un dibattito a Torino ha spiegato quali sono dal suo punto di vista di osservatore tecnico e di esperto le ragioni della guerra. Ha spiegato che quando lui era presidente dell’Eni, nel 1987 durante la guerra Iraq-Iran, gli americani avevano deciso di mandare la prima volta la flotta nel Golfo allo scopo di tenere aperte le vie d’acqua internazionali per garantire l’approvvigionamento di petrolio all’Occidente (il petrolio è così importante, per come parlano i petrolieri sembra che sia il sangue delle vene dell’occidente…), allora gli americani volevano mandare la marina nel Golfo per garantire il rifornimento di petrolio, per sminare, ecc.
Allora, dice Reviglio, on la Saipem, una società dell’Eni, avevano costruito in Iraq due oleodotti, due pipelines: una che arrivava dall’Iraq alla Turchia e una che andava dall’Iraq al Mar Rosso; perciò attraverso questi due oleodotti poteva passare tutto il petrolio che si voleva indipendentemente da qualsiasi vicenda di guerra nel Golfo, però, diceva, siccome noi facciamo gli affari anche con l’Iran, senza dirlo troppo questo fatto, l’avevamo tenuto un po’ nascosto, quindi forse non si sapeva, perché avevamo fatto una cosa per l’Iraq e noi volevamo anche fare affari con l’Iran.
Il governo italiano dice a Reviglio di andare in America a spiegare agli americani che non c’era bisogno che mandassero le navi nel Golfo, perché per il petrolio ci pensavamo noi, ci pensava l’Eni che con gli oleodotti riusciva a portare tutto il petrolio di cui c’era bisogno.
Allora Reviglio va in America per questa missione altamente umanitaria e pacifica e lì c’è un giovane nell’ufficio del presidente della banca centrale americana, (tra l’altro era un black monday), tra una brutta notizia e l’altra, ebbe il tempo di dire a Reviglio , ti ringrazio per questa informazione, gli italiani sono molto gentili ma il fatto è che noi non vi mandiamo la marina nel golfo per il petrolio, sappiamo benissimo che il petrolio ce lo prendiamo lo stesso. Noi mandiamo la marina nel Golfo per fermare il fondamentalismo islamico e Saddam Hussein è il nostro uomo noi andiamo nel golfo per sostenere la guerra dell’Iraq contro l’Iran. 
Allora, dice Reviglio, per sostenere la guerra dell’Iraq contro l’Iran, l’Iraq è stato armato fino ai denti, armato dall’Occidente, dagli Stati Uniti, dall’Italia, dalla Francia, dalla Germania, ecc.
È successo ad un certo punto che la guerra con l’Iran è finita, questo potenziale militare è rimasto in mano all’Iraq, allora Israele ha iniziato a contestare perché ormai era una grande potenza militare ai confini in Medio Oriente e l’Occidente ha iniziato a preoccuparsi di come questa potenza militare si sarebbe potuta atteggiare negli equilibri di potenza del Medio Oriente.
E la decisione che ha preso l’Occidente è che questo moloch militare deve, come è stato costruito, così deve essere distrutto e perciò all’origine della crisi c’è questo ripensamento dell’Occidente nei confronti dell’Iraq e questa esigenza, questo interesse strategico, chiamatelo come volete, dell’Occidente a ridimensionare la potenza militare dell’Iraq.

 

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