La Chiesa e il mondo dal Concilio a oggi  9 maggio 1979
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La Chiesa e il mondo dal Concilio a oggi 

Ernesto Balducci


Sono molto onorato che per inaugurare questo Centro di nuova costituzione si sia pensato alla mia presenza. Sono convinto che il rinnovamento della Chiesa e della società italiana vengano dal basso, da iniziative nuove, perché le istituzioni della Chiesa e della società civile sono poco aperte alle nuove esigenze.
Sono anche contento dell'argomento che mi è stato proposto, perché mi ha obbligato a una riflessione, a una riconsiderazione di tipo storico, che ho fatto cercando di restare fedele ad un disegno razionale, ma anche allo spirito evangelico.
L'analisi non potrà essere obiettiva, ma militante: sono fatti che toccano il cuore della mia vita civile e religiosa.

Questo periodo storico io lo vedo come divisibile in tre fasi, tra loro abbastanza distinte, per caratteri specifici.
La prima fase, che potrei chiamare, con un termine kennediano, della “nuova frontiera”, è la fase che va fino al '67, caratterizzata soprattutto dalla fiducia nello sviluppo, dalla diffusione e dalla intensificazione dei processi della società tecnologica. Non bisogna scordare che il Concilio cadde proprio nello zenit di questo ottimismo storico.
La seconda fase è quella che va dal '67 al '73 ed è la fase in cui si è scoperta e si è aperta la frattura nella società occidentale tra gente e istituzioni: il boom della contestazione degli anni 68/69 ha significato anzitutto l'incapacità delle istituzioni esistenti a tradurre in risultati, politicamente universali, i bisogni emergenti dal basso.
Io penso che dal '73 in poi si possa distinguere una terza fase, un periodo di crisi dello stesso modello di civiltà in cui abbiamo vissuto e in cui lo stesso Concilio è stato pensato e si è sviluppato.
Questo tentativo di sistematizzazione storiografica è, naturalmente, uno schema un po' forzato, ma serve per farmi capire.

Il Concilio risvegliò nella cristianità italiana, e anche nella cristianità in assoluto, due dinamiche o processi che nel loro avvio fino al '67 si presentavano per lo più tra loro confusi, ma che, a posteriori, possiamo ben esattamente distinguere.
Questa convinzione appare fondata nella stessa dialettica del Concilio, che modificò le prospettive di partenza e che centrò la consapevolezza di sé della Chiesa sulla nozione di “popolo di Dio”, superando la fase pre-conciliare in cui la Chiesa identificava se stessa prevalentemente nelle proprie strutture istituzionali. 
Prima del Vaticano II la Chiesa era pensata come una struttura- istituzione con impulsi discendenti dal vertice e con alla base un popolo di fedeli il cui obbligo quasi esclusivo era quello della docilità alle direttive.
Questa visione istituzionale della Chiesa fu il prodotto di un processo storico che possiamo caratterizzare come l'”epoca tridentina” della Chiesa e fu messa in questione radicalmente dal Concilio. Non perché il Concilio assumesse atteggiamenti polemici, ma perché spostò l'asse della auto consapevolezza della Chiesa dalla istituzione alla comunità eucaristica.
Questo processo, che un teologo avveduto come Chenu chiamò “la rivoluzione copernicana della Chiesa” (cioè una Chiesa che prima ruotava attorno al suo asse istituzionale e che decide di assumere come suo punto di riferimento la concreta comunità dei credenti raccolta attorno alla Parola e alla Eucarestia), ha inserito in modo irreversibile, nonostante i flussi e i riflussi, dentro la cattolicità un movimento storico dai risultati forse distanti nel tempo.
Dobbiamo sperare in questi risultati, anche se li vediamo poco.

Stasera vedo tanti giovani che il Concilio l'hanno vissuto per racconti altrui e che quindi hanno il vantaggio e il difetto della mancanza di memoria storica. La vostra debolezza, e questo lo dico senza paternalismo, è che mancandovi la memoria storica, non sapete quanto è costato conquistare certi approdi e quindi vi meravigliate di quel che avvenne, di ostinazioni ecclesiastiche ottuse, e vi scoraggiate.
A chi come me proviene, come a volte mi piace dire, dall'epoca di Gregorio VII e poi ha camminato sorpassando secoli e Concilii fino ad oggi, le resistenze e le incertezze appaiono pure increspazioni sull'onda dell'oceano della storia. Io sono convinto che questa rivoluzione, questo cambiamento profondo nella coscienza della Chiesa è un cambiamento che non può essere arrestato perché è la coscienza della Chiesa come tale che ormai se ne è appropriata. Per esempio non è più saggio, neanche a livello della pura oggettività storiografica, scrivere oggi la storia della Chiesa basandosi soprattutto sull'orientamento dei Papi. 
Forse gli storiografi della Chiesa del passato potevano farlo (pensiamo al famoso Pastor che scrisse la storia della Chiesa come storia dei pontificati), ma oggi uno che facesse così sbaglierebbe gli strumenti storiografici, perché la Chiesa è concepita come una comunità di credenti che ha una sua coscienza, la quale poi è teologicamente investita di carismi particolari.
Il Papa stesso infatti non è una coscienza separata dalla "ecclesia", ma è segno e strumento di questa "coscienza comune" (sia pure con una prerogativa tutta sua, il famoso "privilegio petrino" per cui Pietro non deriva dall'assemblea dei credenti le sue competenze, ma direttamente dal Signore, però non in modo separato, ma in modo 
organicamente congiunto al "sensus fidei" della Chiesa nel suo insieme).
Penso che la grande euforia che vivemmo fino agli anni 67-68 nella Chiesa cattolica fosse dovuta a questa gioia per la riscoperta, per la riappropriazione dei "diritti cri¬stiani" da parte dell'intero corpo ecclesiale.
Fu un fiorire delle comunità di base, lo ricordo; fu anche un ingenuo unanimismo tra vescovi, preti e fedeli. Non c'erano allora i "preti del dissenso” perché era diffuso un ottimismo di maniera che si muoveva lungo l'onda dei gesti profetici di Papa Giovanni e direi anche di certi gesti ardimentosi di Paolo VI nella prima fase del suo pontificato. S'era forse creata una unanimità a buon mercato, che doveva passare al vaglio delle contraddizioni oggettive che ancora non si erano insinuate come cuneo dentro la realtà sociale ed ecclesiale, ma che stavano appunto per metterci alla prova.

L’altra dinamica, che si sviluppa in maniera confusa assieme alla prima dinamica, era quella socio-politica. Il Concilio (e qui penso al documento "Gaudium et Spes") ebbe un merito inenarrabile al riguardo. Ognuno di noi sa come la storia della Chiesa, dalle origini del mondo moderno ad oggi, abbia vissuto in maniera antagonista nei confronti delle istanze creative della società moderna. Non c'e rivoluzione, da quella galileiana a quella giacobina, a quella socialista, che non sia nata con la scomunica addosso.
Questa chiesa viveva nella presunzione di essere "il mondo", di essere la "società perfetta" e si poneva di fronte al mondo come porta¬trice di modelli univoci e risolutivi. Né contava molto la variante iniziata con Leone XIII della dottrina sociale della Chiesa, perché anche in questa variante, per la verità caratterizzata da una apertura verso la problematica moderna, sopravviveva la convinzione che la Chiesa ha la risposta anche per i problemi sociali (essa è "Madre e Maestra" e risponde ai problemi che l'uomo pone).
Quindi secondo questa concezione di tipo integristico la soluzione di tutti i problemi della storia sarebbe quella che tutti gli uomini fossero docili all'insegnamento della Chiesa.
In questa Chiesa noi abbiamo vissuto anche una giovinezza ardimentosa, innamorata di Cristo Re, desiderosa di avversari da sconfiggere (a volte la preoccupazione era quella di non averli. Ma le indicazioni del magistero ci davano soddisfazioni, perché ce ne erano sempre di nuovi).
Il Concilio, ed è questo che va tenuto presente, ha compiuto a questo riguardo un cambiamento della coscienza ecclesiale profondissimo, con conseguenze che si vedranno nel tempo, perché la Chiesa è un organismo storico dalla durata millenaria e congiunge al suo interno l'impulso profetico e Ie permanenze paralitiche.
Il Concilio ha riconosciuto nella "Gaudium et Spes" che il mondo moderno, l'uomo d'oggi è "testimone di un nuovo umanesimo in cui l'uomo si definisce per il suo senso dì responsabilità verso i fratelli e verso la storia intera". Questo umanesimo non ha niente a che fare con l’umanesimo quattrocentesco fiorentino e non si riduce a quello marxista, ma è il condensato ed insieme anche il superamento di un processo umanistico che è quello intero della storia dell’occidente.
La Chiesa non propone un suo umanesimo contro questo umanesimo, ma riconosce in questo umanesimo il luogo, lo spazio storico della sua testimonianza. Essa non si fa portatrice di un’unione del mondo sulla propria misura, ma riconosce che (primo articolo della "Lumen Gentium») il mondo d’oggi procede verso un’unificazione politica, culturale, economica, e la Chiesa è un segno e uno strumento di questa unione tra gli uomini.
La Chiesa, perduta la convinzione della propria autosufficienza, del proprio essere ombelico dell’universo, decide d’essere seme della crescita dell’umanità. E' un cambiamento profondo.
Questi concetti si sono sostanziati di gesti esemplari che per una mentalità educata biblicamente sono più importanti delle dottrine. Certi gesti di papa Giovanni erano più ricchi delle sue stesse dottrine. Anche il viaggio di Paolo VI in Terra Santa, il suo viaggio a Betlemme quasi per ricongiungersi alle origini della povertà della Chiesa, per noi hanno avuto una importanza che non sarà cancellata da nessun "timore episcopale". Per noi sono eventi di salvezza.
Ci fu poi un documento ricco anche nella sua sostanza profetica, "la Populorum Progressio" di Paolo VI nel '67.

Dal ’67 in poi siamo entrati nella fase critica. Tale fase è innanzitutto facilmente leggibile nello schermo della società civile.
Intanto la guerra del Vietnam fu per molti un luogo della vita morale, della vita cristiana, della coscienza. Il Vietnam, le guerre di liberazione del terzo mondo, le guerre di liberazione delle colonie portoghesi, non erano più come le guerre di liberazione degli altri tempi, o semplici pagine della storia civile. Diventarono, non solo per i cristiani, ma per tutto il mondo occidentale capitalistico, momenti della storia morale. Abbiamo scoperto allora la fase imperialistica del capitalismo occidentale che fino a quel momento era riuscito a coprire le sue espansioni coloniali con drappi ideologici secondo i quali ogni passo nel terzo mondo dell’occidente era un passo della civiltà nel cuore dei barbari.
Abbiamo constatato che la verità era all'opposto, per cui i barbari erano gli USA e i civili erano i Viet-Cong, Un certo terzomondismo aveva operato allora il salto dal paternalistico al politico. Chi non ricorda la raccolta degli stracci in aiuto del terzo mondo? Chi non 
ricorda "Mani Tese”, con le buone iniziative in sé elogiabili nella misura in cui l’elemosina rimane pur sempre un segno soggettivo di amore?
A un certo punto molti "terzomondisti" hanno capito che il vero modo di aiutare il terzo mondo era quello di aiutarlo a fare la rivoluzione. Molti cristiani hanno scelto questa strada e nessuno venga a dire che questa era una strada sbagliata. Io che ho anche dovuto scrivere un libretto che uscì in un momento storico particolare (“Il Vietnam collera dì Dio") ho potuto constatare poi come gli stessi arcivescovi del Vietnam, appena la rivoluzione ebbe vinto, salutarono la rivoluzione come un grande evento cristiano. Quello che a loro dopo la vittoria per opportunismo politico riusciva facile, per noi era stato difficile perché aveva voluto dire rimettere in questione una certa visione del mondo.

Quando entrai in seminario, il primo giorno, il Rettore chiamò tutti i bambini per insegnarci "Faccetta nera". Io sono nato con queste contaminazioni di cui la Chiesa ha mai chiesto perdono, ma io le ho sentite mie e ho dovuto vivere questi processi di cambiamento e ringrazio il Signore di averli vissuti nella Chiesa e anche con la Chiesa. 
E anche un uomo grande verso il quale noi italiani abbiamo tutti grandi debiti, come il vescovo Bernareggi, quando ci fu la guerra in Abissinia scrisse una lettera in cui esortava gli italiani ad obbedire alla Patria, perché in quel momento la vittoria italiana significava anche un grande evento della Chiesa.
In realtà io ho studiato storia della Chiesa su libretti apologetici per cui vigeva sempre, in ogni occasione, il principio per cui la Chiesa aveva sempre ragione e gli altri sempre torto. Quindi la storia non l'abbiamo mai imparata, l’abbiamo manipolata.
Per noi la solidarietà con le guerre di liberazione fu una scoperta che per realizzare il Concilio ci voleva ben altro che il solidarismo con la Chiesa olandese che era contro il celibato, voleva preti moderni, reclamava il rispetto dei diritti individuali nella Chiesa,
L’importante non era “il pigliar moglie” cosa per altro rispettabilissima, ma l’importante era liberare gli uomini, liberare il mondo.
Ci fu in molti la riscoperta di una più profonda fedeltà evangelica che non si lega solo alla difesa dei diritti soggettivi che la Chiesa non sempre ha rispettato, ma soprattutto alla difesa degli oppressi di tutto il mondo. Si creò così in pochi anni una distanza storiografica nei confronti del Concilio.
Avvenne proprio in quel momento lo scollamento tra le istituzioni e la nuova coscienza che cresceva dal basso. La contestazione del '68 ha significato che le istituzioni, che nel passato avevano mediato le esigenze che scaturivano dal basso e la realtà politica, si rivelarono del tutto inadeguate. Fu un punto di frattura che segnò un cambio di qualità nel processo storico.
Non è affatto vero, come alcuni sostengono in polemica, che la esaltazione del '68 è una mania. Le istituzioni (dalla famiglia alla chiesa, alla scuola, allo stato, all’esercito) non sono più tornate quelle di prima: esse hanno perduto in prestigio e credibilità. Non dico che abbiano perduto di stabilità; può darsi che stiano in piedi, ma possono stare in piedi per pubblica disattenzione, cioè perché nessuno più le contesta, in quanto giudicate insignificanti.

Io vedo per esempio nelle varie ondate di spiritualismo cristiano un fatto nuovo.
Non è lo spiritualismo della mia adolescenza in cui noi eravamo appassionati per Cristo Re e volevamo morire con lui come i martiri cattolici del Messico. I nuovi spiritualismi accettano la Chiesa per di più con indifferenza. Non hanno più la mentalità istituzionale dell'epoca pacelliana che io ho avuto (l’epoca dei ''baschi verdi").
Le istituzioni non portano più valori. Esse deperiscono: se non cadono per crollo, muoiono per lenta consunzione storica.
La scuola stessa in cui vivo tutti i giorni è in agonia. Sono tra quelli che dicono: meglio questo che niente. Però sentiamo che così non va avanti e chi vive tra circolari e cambi di ministri (Malfatti o Spadolini, il risultato è lo stesso), sente che questa scuola è stanca: vive per mantenere l’organico.
Sentiamo che le istituzioni sopravvivono per ragioni di pietà sociale per mantenere il personale; ma questo significa che non hanno grandi obiettivi.
Questo scollamento fra società e istituzioni fu un fatto enormemente grave. Direi che investì anche la Chiesa come società, e che in quel momento si verificarono quei fenomeni che definiamo di conflittualità ecclesiale che non sono stati letti nel dovuto modo con conseguenze abbastanza gravi.
Un terzo aspetto di questa fase di crisi che.abbiamo vissuto è quello della "sindrome radicale" della società (il Partito Radicale non c’entra): esiste una specie di corrosione del patto sociale tradizionale. Prima di questa crisi il soggetto sociale, il cittadino, viveva aderendo ai valori e alle istituzioni della società esistente e questa adesione era ripa¬gata poi da vantaggi personali o da prospettive di vantaggi personali.
Questo "contratto sociale" s’è come dissolto per cui c’è come una specie di "insorgenza dei diritti soggettivi". I ceti sociali, che avevano accettato i ruoli subalterni nella gerarchia della società, rivendicano e si riappropriano dei diritti da cui sono stati espropriati e conducono una battaglia verso una società egualitaria.
Pensiamo al fenomeno del femminismo, al mutamento della visione della famiglia che ha preparato la battaglia politico-civile del divorzio, pensiamo al cambiamento del ruolo femminile prima identificato nel ruolo dei tre "K" alla tedesca (cucina, chiesa, bambini) e che era pensato come servizio indispensabile ed utile per il bene della società e della Chiesa.
Una volta che questa compagine, perduto il suo asse, s’è scomposta, i ceti sociali hanno dato luogo ad un’insorgenza di diritti soggettivi acutissima, ma scomposta, perché non sufficientemente confrontata coi processi di struttura e spesso dissociata da un collegamento organico con il valore preminente del bene comune.
In questo contesto la Chiesa ha vissuto la frattura tra crescita di coscienza e istituzioni in modo assolutamente impari alle premesse conciliari. Intanto il Concilio aveva riscoperto e ribadito la collegialità della direzione della Chiesa. Il 1° Sinodo dei Vescovi, che noi attendemmo come appuntamento per sapere se i vescovi erano puri consultori del Papa o suoi corresponsabili, ci aprì gli occhi. Il papato mirava a salvare la propria posizione monarchica. I vescovi non solo non erano organo collegiale effettivo insieme a Pietro, ma solo consultori per decisioni che solo Pietro, nella sua solitudine istituzionale (cfr. "Humanae Vitae") prende, senza tener conto di quelli che sono i pur pubblici pronunciamenti episcopali.
Ci fu una grande frattura perché questo non adempimento della collegialità poi si è riprodotto a tutti i livelli. Mancando la collegialità al vertice, è mancata nelle diocesi, è mancata nelle parrocchie e abbiamo avuto un risorgere dello schema istituzionale-verticistico. Ditemi dove sono le diocesi in cui i Consigli Pastorali significhino qualcosa!
O non esistono nemmeno sulla carta o, se esistono, esistono per pazienza dei membri del consiglio stesso, copie nobili alla corte del Re sole.
La non-realizzazione della collegialità ha avvilito la convinzione che la Chiesa fosse la comunità dei credenti, con i ministeri, certo, con competenze apostoliche, non derivate da investiture di base, ma dal Cristo stesso, però con una unità organica, fra comunità di fedeli e ministri. 
Io ho vissuto il dramma dell'Isolotto di Firenze, ma è stato come il segno del rimanere nella Chiesa italiana di questa diversità nel sentirsi Chiesa tra una curia che ritiene i preti come puri delegati di se stessa, come rappresentanti del vescovo, e una comunità che considera i suoi ministri come momento organico della propria vita e quindi come rappresentanti del proprio cammino di fede. Non è che il problema sia stato ancora risolto, è lì a mezz'aria ed è inutile parlare dei preti, se prima non si scioglie questo fondamentale problema che il Concilio ha messo sul tappeto, senza risolverlo. 
La Chiesa visse in quegli anni in modo conflittuale e drammatico e ciò apparve in modo evidente per quanto riguarda il rapporto Chiesa e processi rivoluzionari nel terzo mondo. Però essa stessa entrò in contraddizione. La chiesa dell1America Latina a Medelin nel 1968 arrivò a riconoscere che il ruolo della Chiesa è il servizio della liberazione dell'uomo dal peccato, e siccome il peccato in America Latina è la condizione di subalternità imperialistica, ruolo della Chiesa è la liberazione dall'imperialismo. 
Il peccato, dice Medelin, è la dipendenza di un popolo, di un continente che vive sottostante alla volontà altrui e oggettivamente in condizione di male. La Chiesa non può ratificare, con predicazione di rassegnazione o di pazienza, questa dipendenza, ma deve essere invece annunciatrice di una marcia verso la liberazione. L'annuncio di Medelin è stato più importante di tutti i documenti, tutte le encicliche, le lettere episcopali del mondo cattolico, tanto che il Papa ha dovuto confrontarsi con quel dopo-Medelin che è Puebla.
Il vero meridiano della chiesa non passa più per Roma, né per Bonn, nè per Bruxelles, bensì passa per Puebla e per il terzo mondo, e non si torna più indietro.
Il fatto delle lotte di liberazione costituisce un avvenimento fondamentale in questo arco di anni e per il futuro. Allora si è dissolta la famosa dottrina sociale della chiesa basata sull'ipotesi che fosse possibile una terza via tra il liberalismo individualistico e il collettivismo marxista, e che questa fosse la via cristiana.
In questa terza via c’erano due condizioni, che la facevano nient'altro che la via capitalistica:
a) la difesa della proprietà privata dei mezzi di produzione (e voi sapete che se ad un capitalista intelligente garantite la proprietà privata dei mezzi di produzione, vi consente di rivoluzionare tutto il resto);
b) la vera via per il cambiamento sociale è la collaborazione fra le classi e non la lotta di classe che è il contrario dell'amore cristiano.
Come se la lotta di classe fosse un progetto della classe operaia e non piuttosto un fatto altrettanto reale, come le macchie solari, su cui si posò il cannocchiale di Galilei. Se noi diciamo che la società è in lotta, non è che vogliamo la lotta. Dire che è in lotta vuol dire che ci sono le macchie nel sole: basta usare un cannocchiale (che è l’analisi economica) per capire che la società è retta da una legge che è l’accumulo del capitale da una parte e la vendita della forza lavoro dall’altra.
Ora la dissoluzione di questa terza via è la fine della dottrina sociale della Chiesa, e per questo dobbiamo rendere onore a Paolo VI per tante scelte che hanno una intrinseca forza profetica, più di quanto un certo atteggiamento pregiudizialmente ostile non abbia ammesso. La “ Octagesima Adveniens" in fondo è anche la liquidazione della dottrina sociale della Chiesa: questa lettera di Paolo VI nel celebrare la "Rerum Novarum" 80 anni dopo disse che la Chiesa non ha una risposta sua autosufficiente per i problemi posti da un mondo così diverso e così vasto.

Entro nella Terza Fase, in cui ci troviamo, quella che va dal ’73 in poi.
Dopo il '73 sta avvenendo qualcosa di più grave, a mio giudizio, della scollatura tra la crescita di un progetto o di un movimento e l’istituzione. Il modello stesso di civiltà in cui siamo cresciuti, su cui tutto l’occidente ha costruito i suoi fasti e nefasti da due secoli a questa parte, è in dissesto. Perché il ’73 è l’anno degli sceicchi, cioè l’anno in cui ci venne detto che il petrolio dovevamo pagarcelo. Sessanta anni prima sarebbe bastata una cannoniera inglese a risolvere la situazione.
Il mondo è cambiato nei rapporti di forze. Non solo, ma abbiamo scoperto che il petrolio sta per finire. La fine del petrolio significa la necessità d’altre energie, significa affrontare il rischio della energia nucleare. Significa entrare in zona minatissima.
Ora non dovete dimenticare che tutta la mentalità occidentale è nata dalla convinzione acritica che il progresso va avanti da sé senza limiti.
L'aver scoperto che non è così, che tra l'ideologia del progresso e lo sviluppo tecnologico c'è un legame troppo stretto e che quest'ultimo ha una base d'argilla, ha significato paura del futuro e le centrali tecnologiche più prestigiose hanno lanciato allarmi.
Ora io so che c'è qualche cosa di vero in questo allarme, perché sta il fatto che non è ipotizzabile una società del futuro in cui tutta l'umanità viva - come dicevano i sociologi americani degli anni '50 - con un reddito pro-capite da tranquillizzare tutti.
Non è possibile perché i consumi di uno statunitense sono 50 volte quelli di un abitante del Bangladesh e se per caso tutti avessero il livello di consumi USA, in pochi anni la terra sarebbe inabitabile per eccesso di rifiuti e per esaurimento di energie.
I casi sono due: o gli americani consumano 50 volte meno (ma chi ci crede?) o il Bangladesh rinuncia a fare la rivoluzione (ma chi lo vuole?). 
C'è la paura del futuro. Questo per me è un dato di fatto da cui parto per capire tante cose. Questa paura del futuro mette in questione lo stesso umanesimo in cui siamo cresciuti, l'umanesimo che considera come caratteristica distintiva dell'uomo la sua capacità di conoscere il mondo per dominare il mondo. L'equazione fra conoscere e potere per me è il vizio antropologico che sta alle origini dell’avventura tecnologica. 
Il socialismo marxista di tipo positivista ha lo stesso vizio del capitalismo perché considera come assolutamente positivo nell'uomo la conoscenza come processo di modificazione della natura, per cui tutti gli altri rapporti tra l'uomo e la natura: conoscitivi, contemplativi, simbiotici, sono disprezzati.
Questo squilibrio tra uomo e natura proiettato nel futuro davvero suscita sgomento. A questo riguardo non è che l'uomo sovietico sia diverso dall'uomo americano: è in crisi il modello di civiltà in cui al primo posto è l’efficacia produttiva.
La Chiesa italiana in questa fase soffre di evidenti ritardi perché essa non è stata in grado di dare risposte che fossero all’altezza delle problematiche emerse da una crisi come quella che ho descritto: istituzionale e di civiltà. 
Per esempio la congiuntura ''radicale” ha provocato la Chiesa come tutrice della morale tradizionale. Non voglio contestare i valori storici della morale tradizionale (anzi, più vado avanti e più sono convinto che una certa morale, custodita nelle plebi, aveva grande valore) però qui non si tratta di interrogarci se la Chiesa della civiltà dell'albero degli zoccoli fosse bella, perché sappiamo che è finita.
Il cambiamento (e prendiamo la famiglia, per il caso del divorzio) esige in modo ormai assolutamente certo che i comportamenti morali producano le opzioni libere della coscienza. Un comportamento coatto, garantito dalla istituzione, non ha nessun significato evangelico, perché il significato evangelico dell'esistere è consustanziale alla libertà. 
Il resto appartiene all'ordine pragmatico dell'agire politico

Ora ad esempio una autentica pastorale della famiglia, con tutti i gravissimi problemi che nascono (la difesa della vita, la gravissima piaga dell’aborto, ecc.) trova la Chiesa italiana arroccata puerilmente sulla difesa degli strumenti punitivi per arginare il cambiamento.
Abbiamo bisogno di proposte evangeliche, non di minacce da codice penale. A questo punto c'è un divario drammatico. Non possiamo più difendere la morale cristiana identificandola con modelli sociologici del passato, per quanto essi possano essere stati ricchi di valori, perché il cambiamento storico, se è vera l'analisi fatta, è talmente marcato che occorre una proposta nuova di cui il Vangelo, essendo gravido di potenzialità profetica, è capace.
Questa crisi di credibilità della società capitalista ha lasciato scoperta un'area antropologica, un'area di bisogni umani che prima erano facilmente repressi ed emarginati nella fiducia collettiva della cultura dominante e nella razionalità istituzionalizzata. I bisogni umani che non corrispondevano ai parametri dell'ideologia dominante venivano modificati fin dalla culla, dalle elementari, dalla scuola, dalla Chiesa stessa.
Questi bisogni umani una volta che l'egemonia della razionalità del sistema è stata eclissata, stanno riesplodendo in modo selvaggio. E questi bisogni umani si chiamano bisogno di sicurezza, d'intimità, di comunità, di gioia erotica, di gratuità, di festività, di rapporti ludici, un insieme di bisogni che nella severa società capitalistica erano stati emarginati.
Tutto questo provoca una fioritura di "nuova religiosità" che costituisce il fatto singolare di questi ultimi anni e che può suggerire incaute conclusioni del tipo: tutti tornano a Dio. Ora c'è un grande bisogno religioso, avevamo ragione noi, quelli che avevano puntato sulla secolarizzazione erano dei mentecatti. Si crede di poter accogliere nel seno materno della Chiesa un afflusso di comportamenti e di atteggiamenti anche quando sono legati a una specie di dissoluzione della consistenza umana e sono nel senso della degradazione dell'uomo, della sua irresponsabilità storica.
Devo dire però che la Chiesa in Italia al riguardo non ha mai mostrato grande benevolenza verso questi movimenti carismatici, neo-pentecostali, ecc. perché intuiva che essi non avevano una spinta verso l'identificazione istituzionale appunto perché viziati di super soggettivismo. 
C'è la necessità di una lettura evangelica di questo fenomeno che porta in sé una istanza positiva, il bisogno di una diversa razionalità, di un diverso modo di sentirsi uomini, di una emancipazione dell'uomo dalla paurosa legge della crescita del profitto e della produzione.
E' bisogno di una nuova umanità. Che cosa abbiamo detto e diciamo noi di fronte a questo? Siamo sterili. Invece queste nuove congiunture rappresentano un luogo ideale per l'annuncio dell'utopia evangelica, della densità evangelica dell'esistere. Noi siamo poveri di parole, siamo preoccupati di circolari, di burocrazie, siamo lontani dagli uomini e questo è un dato drammatico.

La crisi poi dell'Eurocentrismo ha messo finalmente la Chiesa cattolica in drammatiche situazioni di cui sono un emblema le ultime vicende pontificali. E' morto un Papa che, tutto sommato, nella drammaticità della sua stessa testimonianza personale, più andava avanti nei mesi e più si aureolava di grandezza suggestiva. Per me Paolo VI è soprattutto un uomo che negli ultimi mesi ha avuto timbri e gesti che sembravano resuscitare dal profondo della memoria ecclesiale una statura profetica.
Poi abbiamo avuto una scelta di opportunismo curiale (Giovanni Paolo I) e poi una scelta, forse calcolata, di un papa non occidentale. Sta di fatto che Giovanni Paolo II non è un prodotto della curia, è un papa non italiano e non occidentale, non è nemmeno il cappellano dell’Europa di Strasburgo; non è colui che annuncia come qualche prelato incauto ha fatto uno di questi giorni, che "ci vuole un'anima cattolica per l'Europa", perché l'Europa è grande e va dagli Urali all'Atlantico e non si può consentire a questi paesi neocapitalistici, soggetti all'economia del marco, la pretesa di rappresentare l'Europa.
Questo papa in qualche modo semina l'ambiguità all'interno del processo storico. Non è vero che aiuta il "revival religioso", perché è un uomo il quale ha affermato, con una solennità che mi ha toccato, che la vera via della chiesa è l'uomo. È una grande parola.
Non mi importa poi come lui l'intende l'uomo, perché gli enunciati, quando si riferiscono, come in questo caso, a premesse evangeliche e conciliari, poi lasciano aperto il campo ad applicazioni in cui entra in gioco la diversità d'analisi.
Io sono convinto che la parola che conclude il ciclo positivo del Concilio, è che la via della fede si misura con l'uomo concreto. E' una parola che diffida da ogni spiritualismo, da ogni fuga dal mondo.
In Italia, nonostante l'episcopato italiano abbia legittimato il pluralismo politico con documenti ufficiali del magistero, nella prassi questo pluralismo non è veramente legittimo. C'è una contraddizione. Posso anche capire che ragioni pastorali, preoccupazioni e paure del futuro, paura di perdere solidarietà troppo garantite, suggeriscano questo scarto tra teoria e prassi. Però queste paure, queste prudenze non hanno impedito che ormai il mondo cattolico italiano da 17 anni a questa parte si trovi disseminato nella società italiana in una pluralità di posizioni, che potremmo anche raggruppare in tre orientamenti: abbiamo il mondo cattolico integralistico che ancora presume di dedurre dalla fede cattolica un progetto di società attorno al quale fare unità tra i cattolici; abbiamo una larga area di cattolici democratici che invece riconoscono che nella democrazia i cattolici devono passare attraverso la laicità, in base alla quale la differenza di fede non fa discriminazioni; e finalmente abbiamo la diaspora dei cristiani che hanno riconosciuto la loro collocazione storica nella grande ala della storia del movimento operaio.
Questi tre orientamenti sono il dato di fatto che viene diversamente valutato: chi come un necessario processo di quella storia che ho descritto; chi invece come una malaugurata dispersione del gregge cattolico.
Io non posso che proiettarlo nel futuro come preludio ad una realtà di Chiesa in cui l'essere credenti sarà soltanto un'assunzione di responsabilità di fronte al mondo a partire dalla profezia evangelica.
Allora l'essere credenti darà diritto, e dovere, di riconoscersi tali con gli altri, nel momento dell'Ecclesia, dell'ascolto della Parola di Dio e della frazione del Pane; per quanto riguarda il resto i credenti saranno come gli altri uomini obbligati a ragionare con la propria ragione, ad analizzare la società politica con gli strumenti che la scienza ha approntato, e a fare scelte progettuali derivanti dalla propria esperienza, dalle proprie differenze culturali.
Questa Chiesa cresce, va avanti. Io so bene che la storia procede attraverso scosse, impazienze, mutamenti profondi. Per essere in linea con le ragioni della mia presenza qui dirò che, affinché questo cambiamento avvenga, non bisogna desiderare al posto del vescovo che abbiamo, altri vescovi, più lungimiranti e coraggiosi, perché allora ricadremmo nel vecchio vizio.
Inutile scaricare le responsabilità sul Papa, sui vescovi, perché in verità, se siamo cristiani maturi, tutte le responsabilità sono nostre. La libertà nessuno ce la regala. La libertà regalata deve essere rifiutata perché infida.
La libertà ce la guadagniamo attraverso una seria riflessione di fede, una pratica di fede, e anche un dialogo con le altre istanze della Chiesa senza atteggiamenti di rifiuto e di disobbedienza programmata. Però questa crescita è indispensabile perché i cambiamenti che avvengono soltanto per mutamenti d'ordine, di rotta, non sono veri mutamenti. Se per ipotesi stesse a me mettere al posto di un vescovo di destra un vescovo di sinistra, io non ce lo metterei, perché avrei paura che il gregge cristiano potrebbe diventare di sinistra per obbedienza.
Io auspico una crescita cristiana per maturazione di coscienza ed essa non viene per caso, ma viene attraverso un confronto, un dialogo, una riflessione. Comunque un'iniziativa come è quella che con questa sera si inaugura, entra fra gli strumenti di questa prospettiva di crescita profonda, dal basso, della comunità dei credenti in Italia. 
Dobbiamo avere questa fiducia e prenderci in proprio le nostre responsabilità che non sono mai liete. Certo per un sacerdote sono maggiori perché in lui si incontrano due mondi che non riescono mai a congiungersi. O io mi considero portavoce delle tesi del popolo dei credenti e allora l'istituzione mi appare come di fronte a me; o io mi considero come delegato dei vescovi verso il popolo e allora è il popolo ad essere di fronte a me; allora io non so dove essere. 
Sono legato a una strutturale schizofrenia dentro la quale sconto il peccato di una storia intera. Non voglio essere un uomo sano in un mondo malsano. Io voglio essere organico a questo mondo perfino nelle sue contraddizioni.
Non mi importa di terminare la mia vita con la convinzione di essere un eroe, ma mi importa terminare la mia vita dicendo che sono servito a qualcosa, liberandomi da quel soggettivismo in cui mi ha educato la formazione ascetica della mia adolescenza in cui volevo essere a tutti i costi un santo con tutte le virtù. Ora che mi sono liberato dall'idea malsana di farmi santo, voglio soltanto servire gli altri. Poi se questo significa essere santi o meno, lo vedrà il Signore.
Ciò che conta è vivere la propria vita servendo alla crescita. So bene che questo servizio non può essere gradito ugualmente a tutti. Per forza è un servizio che ora urta gli uni, ora gratifica gli altri. Quello che conta è che questo servizio non si ponga mai il problema se piace o non piace, e a chi piace o a chi non piace, ma se questo servizio si inserisce nelle dinamiche di sviluppo della cristianità e della società civile del nostro paese, ed è con questo spirito che vi ho parlato questa sera.

 

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