30 Aprile 1980                          
Chiesa e organizzazioni cattoliche a Bergamo di fronte alle lotte sociali del primo dopoguerra 
  chiudi  
stampa questa pagina  





LE VICENDE
DELL’UFFICIO DEL LAVORO (1919-1921)


Roberto Amadei

LE VICENDE

DELL’UFFICIO DEL LAVORO (1919-1921)

Una presentazione critica e completa del sindacalismo cattolico bergamasco per il periodo immediatamente successivo alla prima guerra mondiale richiederebbe lo sviluppo dei seguenti punti: consistenza della sindacalizzazione (numero degli iscritti, settori nei quali era presente, dinamica associativa, autonomia, finanziamenti), tutela contrattuale (forme di contratto, contenuto dei medesimi, situazione nella quale si formavano i contratti e loro applicabilità, incidenza dell’azione sindacale sui rapporti di lavoro), attività extra-contrattuale (obbiettivi politici e strumenti usati per realizzarli), uso dello sciopero, legami con le altre organizzazioni cattoliche, rapporti con gli altri movimenti sindacali. Il contributo qui presentato toccherà questi punti solo tangenzialmente, perché il suo scopo è di offrire qualche dato relativo ai rapporti tra l’Ufficio del Lavoro (centro propulsore e coordinatore delle diverse associazioni sindacali cattoliche bergamasche) e alcune componenti della Chiesa locale nel periodo 1919-1921. La scelta è stata determinata anche dalla documentazione finora rinvenuta[1]

Nel suo primo periodo (1907-1914) l’Ufficio del Lavoro era stato travagliato dalle polemiche con i responsabili del movimento cattolico bergamasco, a causa delle posizioni assunte in alcune vertenze, in particolare nello sciopero di Ranica, così che alla vigilia della guerra il bilancio dell'organizzazione era pressoché fallimentare. Il direttore provvisorio, don Francesco Carminati, in una relazione del 7 aprile 1914 affermava che solo poche leghe erano rimaste in vita e anche queste con un’attività piuttosto limitata; proponeva perciò di rafforzare l’Ufficio, del quale era l’unico addetto, per rilanciare l’organizzazione sindacale a beneficio religioso, morale ed economico delle masse lavoratrici[2].

La guerra e la morte del vescovo [3] davano il colpo mortale all’Ufficio.

 La ripresa

Immediatamente dopo l’arrivo del nuovo vescovo [4], la Presidenza dell’Azione Cattolica manifestava l’intenzione di curare in modo particolare la presenza dei cattolici tra le masse operaie, sia perché era il settore più scoperto, sia per le agitazioni in atto tra i tessili, sia per i prevedibili problemi del dopoguerra e anche per la temuta concorrenza dei socialisti: così all’inizio del 1916 si riapriva l’Ufficio del Lavoro.

La sua riattivazione però si dimostrò piuttosto difficile, per la guerra che impegnava gli uomini migliori, per una certa resistenza del clero ed anche per le idee non molto precise circa la natura dell’istituzione e della sua attività. Sempre nel 1916 si nominava una commissione per l’organizzazione e la vigilanza dell’Ufficio, si contattarono diverse persone per l’incarico di direttore e di segretario, perché il progetto prevedeva un direttore, un sacerdote come assistente collaboratore, un segretario propagandista, un contabile cassiere e un consiglio direttivo.

Alla fine della guerra esisteva il consiglio direttivo (era la commissione precedente completata da alcuni membri) presieduto da don Francesco Garbelli, parroco della parrocchia cittadina di S. Caterina; il direttore don Franco Carminati, coadiutore a Grumello del Monte ed esperto organizzatore del sindacato dei bottonieri e delle leghe dei contadini della sua zona; il segretario, Celestino Ferrano, proveniente da Monza; la responsabilità ultima e l’onere finanziario erano della Giunta dell’Azione Cattolica [5].

Durante la guerra l’azione dell’Ufficio si era concentrata in modo speciale nel settore dei tessili, guidando le agitazioni del luglio e novembre 1917 per l’aumento del caro-viveri e quelle del maggio, del giugno e dell’ottobre 1918, sempre con lo stesso obbiettivo e per ottenere l’indennizzo per le interruzioni di lavoro provocate dalla mancanza di materie prime[6].

Nel 1917, per esempio, si erano tenute più di duecento conferenze[7] e alla fine del 1918 si contavano 12 mila tessili raccolti nella Federazione Operai Tessili, 479 muratori, 212 metallurgici, una sezione del Sindacato Nazionale tra i Ferrovieri cattolici, si stavano organizzando anche gli impiegati ed i pensionati e, con speciale impegno, si erano gettate le basi dell’organizzazione dei mezzadri, che rappresentavano la porzione più consistente e più inquieta degli addetti all’agricoltura [8].

Nel 1917 l’azione dell’Ufficio del Lavoro aveva inquietato le autorità di pubblica sicurezza e il prefetto ne aveva minacciato la chiusura sotto l’accusa di sobillazione [9].

L’attività (1919-1920)

L’organizzazione si sviluppò rapidamente, così che nel maggio 1919 funzionavano la Federazione dei Tessili, con più di 17 mila aderenti; il Sindacato dei bottonieri, con circa mille iscritti; la Federazione muraria, con 300 membri; l'Unione dei contadini, con più di 10 mila aderenti raccolti in 104 sezioni; continuava la sezione dei ferrovieri, era sorta la Federazione dei lavoratori delle industrie estrattive, funzionavano poi altre leghe che progressivamente si sarebbero raccolte nelle rispettive federazioni; complessivamente gli aderenti all’Ufficio erano più di 30 mila e nei mesi successivi aumentarono ancora [10].

Penso che questo successo quantitativo sia da attribuirsi alla maturazione delle masse provocata dalla guerra e dai problemi economici del dopoguerra; era però anche il frutto della lunga tradizione dell’associazionismo cattolico bergamasco e dell’intensa propaganda esplicata dall’Ufficio del Lavoro per convincere i lavoratori, in modo particolare i contadini, circa la necessità di organizzarsi per dare sbocco positivo alle loro rivendicazioni e importanza sociale alla loro classe.

La struttura interna dell’organizzazione si sviluppava secondo la linea accennata sopra: le diverse federazioni, almeno quelle principali, avevano un proprio consiglio direttivo, formato in gran parte da membri eletti dalla base; l’attività coordinatrice era affidata al direttore e al segretario, che intervenivano direttamente nelle questioni principali per le quali erano sempre consultati il consiglio direttivo interessato e i rappresentanti della base; il collegamento con la periferia era assicurato da diversi propagandisti. Le direttive generali erano fissate dal consiglio direttivo generale, a sua volta controllato dalla Giunta dell’Azione Cattolica. Quindi un notevole sforzo per una sensibilizzazione capillare e per una vasta partecipazione all’elaborazione della linea di condotta dei diversi sindacati: le numerose assemblee, i vari convegni, le discussioni con gli interessati prima e dopo la stipulazione dei contratti, erano alcuni dei momenti di un sindacalismo che si proponeva non solamente la soluzione delle vertenze, ma anche la crescita sociale delle masse [11]. Il 2 agosto 1919 l’Ufficio dava inizio, senza consultare il vescovo, alla pubblicazione del settimanale La squilla dei lavoratori, altro segno della vitalità dell’organizzazione e della sua volontà di evitare il verticismo. Nelle elezioni politiche del 16 novembre dello stesso anno, il candidato dell’Ufficio, Carlo Cavalli, benché osteggiato dai dirigenti locali del Partito Popolare e dal quotidiano cattolico L’Eco di Bergamo (era stato imposto da Sturzo per accontentare la corrente sindacale del partito) ottenne il maggior numero di preferenze, superando candidati già da tempo affermati come Preda, Bonomi, Cameroni.

Per quanto riguarda l’attività politica, pur appoggiando il Partito Popolare, i responsabili de! movimento sindacale cattolico, tutti militanti nello stesso partito, sottolineavano che la loro azione voleva limitarsi al sociale e all’economico.

Per l’attività più propriamente contrattuale svolta nel settore rurale mi limito ad indicare le linee generali [12]. I mezzadri bergamaschi partecipavano intensamente al travaglio che scuoteva il mondo rurale italiano subito dopo la conclusione della guerra e le manifestazioni, più o meno clamorose, diventavano sempre più frequenti. I motivi immediati potevano essere diversi, però sullo sfondo, quale punto di raccordo di tutte le aspirazioni, si agitava la questione de! passaggio dalia mezzadria all’affitto. L’Ufficio dei Lavoro cercò di orientare la sua opera verso questi obbiettivi: nei comizi, nelle frequenti adunanze e sul settimanale si sosteneva con chiarezza che la meta ultima da raggiungere era l’affitto, o meglio, questa era la penultima tappa che avrebbe dovuto portare i lavoratori della terra alla proprietà diretta. Come soluzione immediata l’Ufficio decise di partecipare attivamente al miglioramento del contratto di mezzadria, stipulato nell’aprile dei 1919, e rinnovato, con alcune migliorie, l’anno successivo. Contemporaneamente elaborava un capitolato per quei proprietari che volevano concedere la terra in affitto, insisteva perché le proprietà degli utenti pubblici fossero concesse in affittanza collettiva ai contadini, assisteva con ogni mezzo quei mezzadri ai quali era offerta la possibilità dell’affitto.

Intenso era pure l’aiuto prestato nelle sempre più numerose vertenze che si aprivano in quasi tutto il territorio della provincia e che diventarono aspre negli ultimi mesi dei 1919 e all’inizio dell’anno successivo. Aumentarono infatti gli escomi, perché diversi proprietari disdicevano il patto colonico con il pretesto di dare la terra ai disoccupati, disponibili a qualsiasi contratto. Diventava perciò sempre più difficile gestire una situazione che si faceva ogni giorno più esplosiva e quindi le richieste dell’Ufficio si irrigidivano: più perentorie le richieste dell’affitto e le pressioni sulle autorità perché le appoggiassero con il loro peso; minaccia di resistere con la forza e con la solidarietà di tutti i mezzadri agli escomi; da parte di alcuni propagandisti, con il tacito assenso del centro, si parlava apertamente di organizzare il boicottaggio nei confronti di quei proprietari che si dimostravano restii a concedere la terra in affitto.

Parallelamente si poneva con chiarezza il problema del cattivo stato delle case coloniche, se ne trattava spesso sul settimanale, se ne discuteva nei convegni, si chiedeva al prefetto la requisizione delle case inabitate a vantaggio dei contadini male alloggiati e la costituzione di commissioni comunali, autorizzate ad imporre ai proprietari di case coloniche le sistemazioni ritenute necessarie. L’Ufficio del Lavoro si fece poi promotore e guidò diverse altre vertenze, come lo sciopero dei bottonieri (5-15 febbraio 1919) per ottenere un consistente aumento de! caroviveri, il sussidio di disoccupazione e le quarantotto ore settimanali, già ottenute dai tessili. Lo sciopero più significativo fu quello generale dei tessili (28 luglio - 8 agosto 1919) per ottenere un aumento salariale del 50 %; la vertenza si concluse, attraverso una mediazione del governo, con la concessione di un aumento del 20 %. Durante questo sciopero furano molto attivi Guido Miglioli e Romano Cocchi, che da Cremona passava all’Ufficio dei Lavoro di Bergamo, come segretario della Federazione tessili e poi quale segretario generale, in sostituzione di Celestino Ferrario, dimissionario per dissensi con la direzione.

Nei primi mesi del 1920 l’Ufficio accentuò le sue prese di posizione. Le richieste avanzate per i tessili, oltre all’aumento salariale del 50 % ed al rifiuto delle ore straordinarie, si estendevano alla compartecipazione degli utili, ad un certo controllo delle assunzioni da parte delle commissioni interne e all’obbligatorietà, per i lavoratori, di essere iscritti all’organizzazione di classe da loro preferita. Dopo otto giorni di sciopero, il 6 febbraio 1920, venne firmato il nuovo contratto: venivano accolte le prime due richieste, mentre le altre erano demandate agli esiti del dibattito che si stava svolgendo a livello nazionale.

Anche altre categorie (cementieri, muratori, bottonieri, ecc.), con dure lotte caratterizzate da notevole solidarietà, riuscirono a spuntare vistosi aumenti.

In sostanza mi pare si possa affermare che l’Ufficio del Lavoro era riuscito in breve tempo a diventare il punto di riferimento della maggioranza dei lavoratori bergamaschi, perché era stato capace di interpretare abbastanza realisticamente le loro richieste, naturalmente all’interno del programma della CIL, alla quale aderiva, senza però significativi rapporti pratici, preferendo mantenere una certa autonomia.

Le polemiche

I frequenti scioperi organizzati e sostenuti dall’Ufficio del Lavoro, le richieste sempre più pressanti della terra in affitto, le intemperanze verbali di qualche propagandista, unite ad alcuni episodi di violenza e, sullo sfondo, la situazione generale del paese, inquietavano alcune componenti del mondo cattolico.

Le critiche più dure uscivano dalla Giunta dell’Azione Cattolica, responsabile ultima delle scelte dell’Ufficio del Lavoro. Già nel dicembre 1918, il presidente Giuseppe Locatelli, aveva accusato l’Ufficio di fomentare la lotta di classe e alla critica si era associato il vicepresidente, Francesco Volpi. Il direttore de L’Eco di Bergamo, don Bortolotti, difendeva invece l’operato dell’Ufficio ed attaccava aspramente il conservatorismo dei proprietari. Il presidente dell’Ufficio, don Garbelli, si limitava a richiamare lo statuto, approvato dal vescovo, nel quale era contenuto l’esplicito impegno a difendere, nel pieno rispetto della legalità, i contadini nell’acquisizione di tutti i miglioramenti ritenuti possibili [13].

La questione riesplodeva nei primi mesi del 1919 [14]; il presidente attaccava duramente don Carminati, minacciava le dimissioni, polemizzava con l’Ufficio nel convegno annuale delle organizzazioni cattoliche locali e, nel mese di giugno, in una lettera al vescovo, così puntualizzava il problema: «Può la Giunta Diocesana, per istituto suo e per la grave responsabilità che le incombe, consentire con tranquilla coscienza al proprio Ufficio del Lavoro di adoperarsi (sia pure con mezzi che essa dice di semplice persuasione) a far sì che tutti i contadini organizzati — i quali sono ormai la quasi totalità della Provincia — rifiutino solidalmente la loro opera al proprietario, che non crede di dover concedere la sua terra in affitto?». Naturalmente egli era per la negativa, perché si ricorreva all’arma «non sempre lecita dello sciopero generale, si calpestava lo stesso diritto di natura così in ordine alla proprietà, come alla libertà di lavoro». E poi «la meta finale, confessata, a cui tende l’U. del Lavoro, è quella di sostituire la classe dei contadini, tutt’altro che preparati tecnicamente e intellettualmente, all’intera classe dei proprietari attuali» così "benemeriti”[15] . Il vescovo, dopo aver interpellato il presidente dell’Unione Popolare e la Segreteria di Stato, rispondeva negativamente. Egli era poi già intervenuto, sia pure indirettamente, con la lettera pastorale del 19 marzo 1919, nella quale ricordava il dovere di rispettare il principio di proprietà, che non si può ridurre solamente alla casa, al terreno e al capitale ma «è per i lavoratori vera proprietà altrettanto sacra la propria energia consacrata al lavoro. E’ dunque essenzialmente necessaria la giustizia più scrupolosa d’ambe le parti, non conflitti, non lotte tumultuose ed esagerate, ma con calma si espongono i propri diritti senza diminuire i reciproci doveri». Le stesse idee erano esposte nella lettera pastorale dell’episcopato lombardo (19 luglio 1919) alla quale, a Bergamo, si fece seguire una significativa scelta di «Principii e direttive generali per l’azione sociale cattolica», tratti dalla Rerum Novarum e concernenti la collaborazione delle classi, il rispetto della proprietà privata e i suoi doveri morali e sociali, lo sciopero come extrema ratio, i limiti della solidarietà nello sciopero e nella rivendicazione delle legittime aspirazioni. Il 30 settembre 1919 il vescovo pubblica la seguente dichiarazione: «A rispondere alle insistenti domande di molti rev. sacerdoti e di molti laici ed a sgravio di una responsabilità che assolutamente non vogliamo assumerci, dichiariamo formalmente che nessun propagandista, sacerdote o laico, venne da Noi autorizzato a diffondere in nome Nostro teorie o metodi sociali che, per molteplici reazioni avute, dobbiamo ritenere in aperta contraddizione agli insegnamenti della Nostra Lettera Pastorale 19 marzo 1919 scritta in conformità alle istruzioni avute dalla Suprema autorità della Chiesa» [16]. Era una chiara sconfessione dei metodi dell’Ufficio del Lavoro, ribadita e resa più netta nella lettera agli interessati; probabilmente progettava già interventi decisi per rimuovere alcune persone e riportare l’Ufficio all’obbedienza alle direttive episcopali, soprattutto dopo che il conte Della Torre gli aveva garantito il totale appoggio delle «Superiori Autorità».

Nel marzo del 1919 erano scesi in campo anche alcuni parroci della vicaria di Telgate, per lamentarsi con la Giunta, perché gli organizzatori dei contadini li lasciavano in disparte. Altri sacerdoti, invece, sostenevano con ardore tutte le iniziative dell’Ufficio, che naturalmente era strenuamente difeso dal suo presidente. Per esempio, riguardo al quesito rivolto dal Locatelli al vescovo, Francesco Garbelli non contestava la sostanza della presentazione del tormentato problema "mezzadria o affitto?”, però gli sembravano forzati i modi in cui veniva posto e soprattutto sosteneva che si dimenticava che l’Ufficio del Lavoro aveva come compito istituzionale la gestione e la difesa delle richieste delle masse lavoratrici. Per la richiesta dell’affitto egli era d’avviso che si trattava «di un diritto sociale, e che l’invocarlo sia perfettamente lecito anche di fronte alla morale, onde sono leciti anche i mezzi legittimi per conseguire la realizzazione di un tale diritto esclusi sempre, ben inteso, i mezzi illegali e violenti» [17].

Affermava inoltre che «personalmente egli ritiene che la solidarietà degli organizzati sia ammissibile anche neH’ipotesi che fu prospettata col quesito sottoposto a Mons. Vescovo», però «se teoricamente si è parlato della eventualità di uno sciopero generale dei contadini, l’Ufficio del Lavoro ha sempre sconsigliato e sconsiglia tuttora gli scioperi»[18] .

Anche L’Eco di Bergamo si dimostrò favorevole all’Ufficio, difendendolo dai ripetuti attacchi della stampa borghese, pur non nascondendo la sua preoccupazione per il linguaggio "classista” di alcuni propagandisti. Nei primi mesi dell’anno il giornale aveva aperto un dibattito, dai toni abbastanza seri e sereni, sulla questione della terra in affitto; dopo diversi interventi tesi ad illuminare gli aspetti morali, sociali ed economici del problema, la discussione veniva conclusa da un articolo del direttore, sostanzialmente equilibrato e interlocutorio, nel senso che riteneva la questione non ancora sufficientemente chiarita ed invitava tutti (mezzadri, proprietari, Ufficio del Lavoro) a continuare il dialogo senza preclusioni di sorta. Ricordava poi che il problema della terra ai contadini non era stato creato artificiosamente dai propagandisti dell’Ufficio, ma si radicava nell’evoluzione della società e nelle promesse fatte durante la guerra. Naturalmente escludeva qualsiasi lotta di classe ed ogni violenza: «Bisogna sapere bene distinguere ciò che è legittima rivendicazione di classe per stabilire una feconda armonia nel mondo del lavoro e della produzione e per dare nello Stato pari dignità a tutte le classi, da ciò che può riuscire a demolizione dello stesso edificio economico e sociale»[19] .

All’inizio del 1920 il vescovo veniva insistentemente sollecitato da varie parti a prendere posizione contro i dirigenti dell’Ufficio, accusati di azioni contrarie allo "spirito cristiano” (così i parroci della diocesi), di propaganda rivoluzionaria e di guidare le masse con incoscienza (così numerose personalità del laicato cattolico), il 13 e 14 febbraio entrava pesantemente in scena il direttore del quotidiano cattolico, con due articoli di aperta condanna dell’operato dell’Ufficio del Lavoro, Prendendo lo spunto da alcuni episodi di violenza egli ne individuava la causa nei «sistemi di propaganda, tutt’altro che ponderati, prudenti e cristiani, di alcuni almeno dei propagandisti e dei capilega dell’Ufficio del Lavoro. Affatti ignari dei principii anche fondamentali della cristiana sociologia e, diciamolo francamente, aventi troppa poca familiarità colla stessa dottrina cristiana seminano odio, incitano a rendersi giustizia da sé, ricorrono facilmente allo sciopero [...].

Nelle recenti faccende dei tessili ad arte hanno presentato richieste impossibili, non parlano mai di religione e di morale (la questione sociale è principalmente questione morale) e là dove più ha lavorato l’Ufficio del Lavoro è diminuita la pratica religiosa [...]. Occorre mutare criteri e sistemi di propaganda, occorre cambiare certi propagandisti». Due giorni dopo (16 febbraio) il censore della stampa cattolica, don Battista Ruggeri, stigmatizzava gli errori del settimanale dell’Ufficio: mancanza di accenni religiosi, assenza della dottrina sociale cristiana e sostegno alla lotta di classe. Da Roma la C.I.L. e il Partito Popolare inviavano Ulisse Carbone per un’inchiesta dalla quale pare, almeno stando alle indiscrezioni giornalistiche [20], ne uscivano malconci alcuni dirigenti locali del Partito Popolare e dell’Azione Cattolica. L’Ufficio del Lavoro cercò di difendersi dalla tempesta con un articolo, laudativo de! proprio operato, pubblicato su Domani Sociale[21] e con un ordine del giorno di piena solidarietà e di condanna del quotidiano cattolico bergamasco, firmato dagli organizzatori degli Uffici del Lavoro dell’Alta Italia [22]. Si era mossa anche la Segreteria di Stato (3 e 11 febbraio), chiedendo chiarimenti al vescovo e offrendogli l’aiuto da lui giudicato necessario. Il vescovo spedì una relazione molto critica nei confronti di tutti i responsabili dell’Ufficio del Lavoro: indisciplina verso i parroci, linguaggio socialista, pretesa della terra in proprietà o almeno in affitto, sciopero facile e mancanza di sensibilità religiosa. Preannunciava mutamenti radicali e dichiarava utilissima la lettera pontificia che gli era stata offerta e per la quale enumerava alcuni punti: doveri delle classi più ricche e più colte di favorire il miglioramento economico delle altre, rispetto dei diritti di tutti, propaganda impregnata di spirito cristiano e di preoccupazioni morali, convenienza ma non obbligatorietà della partecipazione agli utili (i proprietari dovrebbero però favorirla). Il documento pontificio, giunto a Bergamo l’11 marzo, svolgeva tutte le questioni indicate dal vescovo, eccetto quella della partecipazione agli utili e concludeva: «Noi amiamo sperare che tutti ti ascolteranno, che se qualcuno avesse comunque a mostrarsi restio, senza esitanza lo rimuoverai dal suo ufficio» [23]. Un gruppo di notabili cattolici preparò la soluzione definitiva, facilitata dalle pronte dimissioni dei due sacerdoti responsabili, il presidente Garbelli e il direttore Carminati. Il 1 aprile il vescovo nominava una commissione presieduta dal provicario generale, già consulente morale dell’Ufficio, con l’incarico di ristrutturare integralmente l'Ufficio del Lavoro; vennero licenziati i più compromessi e il 1 giugno si allontanò anche la personalità più discussa, ma indubbiamente anche la più seguita, Romano Cocchi, segretario generale, coinvolto anche nelle polemiche scoppiate all’interno del gruppo dirigente bergamasco del Partito Popolare. Egli però, appoggiato da alcuni membri del Consiglio direttivo, in nome dell’autonomia del movimento sindacale contestò la validità del licenziamento e si fece eleggere Direttore dell’Ufficio, occupandone la sede per circa un mese [24]. Il 7 giugno il vescovo, con una dura comunicazione, espelleva Cocchi e seguaci dall’organizzazione sociale cattolica [25]; come risposta essi fondavano l’Unione del Lavoro che, a partire dall’undici luglio, pubblicava un proprio settimanale, Bandiera Bianca. Nella diocesi esistevano ormai due organizzazioni sindacali cattoliche, ambedue aderenti e riconosciute dalla C.I.L. ed entrambe legate al Partito Popolare. Le polemiche dilagavano sui due settimanali, con violenza all'Interno degli stabilimenti e anche nella predicazione dei sacerdoti. L’Ufficio de! Lavoro ribadiva la necessità di essere fedeli alla dottrina sociale cristiana mediante l’ubbidienza alla gerarchia ecclesiastica e di opporsi al socialismo nei metodi e nei contenuti delle rivendicazioni economico-sociali, che dovevano essere sempre accompagnate da un forte impegno per la formazione religiosa e morale. L’Unione del Lavoro invece esaltava l’autonomia del movimento sindacale, l’intransigenza nelle lotte necessarie per raggiungere gli obbiettivi e l’ampliamento degli stessi: «l’organizzazione doveva emanciparsi, trasformando la sua funzione, ampliandola dal campo economico a quello politico e diventare un anello organico della vita sociale per mutarla radicalmente». Sul piano pratico l’Ufficio del Lavoro normalmente cercava di collegarsi con le organizzazioni nazionali e di seguire la strada più realista e più moderata; l’Unione del Lavoro invece accentuava il carattere provinciale del movimento ed esasperava le rivendicazioni, alle volte in forma un po’ demagogica. Naturalmente il dissidio indebolì la forza contrattuale delle masse lavoratrici a vantaggio dell’altro contraente, che non tardò ad approfittarne. La C.I.L. e il Partito Popolare tentarono ripetutamente di far rientrare la scissione, non risparmiando critiche all'Ufficio del Lavoro per l’intransigenza manifestata nelle polemiche e perché più ossequiente alle direttive del vescovo che alle loro. Il vescovo, stanco di sollecitare, anche attraverso la Segreteria di Stato, i dirigenti nazionali del partito e della confederazione perché sconfessassero i "ribelli” (nell’agosto erano stati da lui espulsi da ogni associazione cattolica) [26] decise di riorganizzare in modo definitivo l'Ufficio del Lavoro (novembre 1920); il quotidiano cattolico e il settimanale La squilla dei lavoratori sovente polemizzarono con l’attendismo dei politici e dei sindacalisti, il chiarimento decisivo arrivò solamente nel febbraio 1921, quando la C.I.L. sconfessava l’Unione del Lavoro e il Partito Popolare espelleva Cocchi e seguaci. Il motivo immediato era il rifiuto da parte dell’Unione del Lavoro delle ultime proposte conciliative avanzate dalla C.I.L.; in realtà, oltre alle pressioni della Segreteria di Stato e al numero degli aderenti, deve essere stato determinante l’atteggiamento sempre più autonomo e sempre più "filo-socialista” del movimento cocchiano. L’Ufficio del Lavoro, iniziando dal nome (Unione Confederale del Lavoro di Bergamo) venne riorganizzato completamente secondo gli statuti della C.I.L., superando così l’ambiguità di prima: era un organismo sindacale aderente alla C.I.L. e insieme istituzione direttamente gestita dall’Azione Cattolica. I "cocchiani” si presentarono alle elezioni del 19 maggio 1921 ottenendo 7.700 voti (il Partito Popolare raccolse 48.161 voti) e nessun deputato; l’abbandono dei capi più prestigiosi convinse Cocchi a far confluire il suo movimento in quello socialista (estate 1921).

 

[1] Il tema è stato in parte trattato da G. Bonomini, Il sindacalismo cattolico bergamasco nel primo dopoguerra (1919-1920), in "Ricerche di storia contemporanea bergamasca”, n. 3-4, 1972, pp. 23-36.

Presso l’Archivio della Curia Vescovile di Bergamo ho consultato la busta "Ufficio dei Lavoro”, contenente una ricca documentazione del periodo 1919-1921, relativa al rapporto con gli organismi cattolici; notizie utili anche nella b. VI, 31 (Verbali delle -adunanze della Giunta Diocesana 1915-1925) e nella b. VI, 32 (Giunta Diocesana. Verbali delle sedute dell’ufficio di presidenza 1915-1925); dati sono stati forniti anche dallo spoglio de L’Eco di Bergamo, dal settimanale dell’Ufficio del Lavoro, La squilla dei lavoratori, e da Bandiera Bianca, settimanale dell’Unione del Lavoro, fondato da Romano Cocchi.

L’archivio dell’organizzazione non è stato finora trovato, probabilmente fu asportato dai cocchiani, perciò è difficile ricostruire la vita interna dei vari organismi sindacali, dei quali non si conoscono neppure gli statuti.

In un lavoro di prossima pubblicazione verrà presentata la ricostruzione completa delle vicende dell’Ufficio del Lavoro.

[2] Archivio Curia Vescovile, b. VI, 71.

[3] Mons. Giacomo Maria Radini Tedeschi moriva il 22 agosto 1914.

[4] Mons. Luigi Maria Marelli entrava in diocesi I’ 11 aprile 1915.

[5] La lettura dei verbali delle riunioni della Giunta e della Presidenza della Azione Cattolica permette solamente una parziale ricostruzione degli episodi accennati nel testo.

[6] L’Eco di Bergamo, 19 marzo 1919.

[7] Seduta della Presidenza, 9 gennaio 1919.

[8] Seduta della Giunta, 21 ottobre 1918.

[9] Seduta della Presidenza, 4-11 -18 dicembre 1917.

[10] L'Eco di Bergamo, 19 maggio 1919. Il 3 luglio 1919, il giornale parlava di 70.000 organizzati.

[11] Come esempi si possono ricordare i convegni dei rappresentanti dei contadini del 26 gennaio 1919, 14 marzo 1919, 16 aprile 1919, 14 maggio 1919, 1 luglio 1919, 1 marzo 1920 quando convennero a Bergamo dagli 8 ai 10 mila contadini.

[12] Per questa sintesi mi sono servito delle cronache dei convegni, dei comunicati e degli articoli apparsi sulla stampa indicata precedentemente.

[13] Seduta della Presidenza, 10 dicembre 1918.

[14] Seduta della Presidenza, 18 marzo 1919, accenni anche in quelle successive. Seduta della Giunta, 27 maggio 1919.

[15] La lettera, 17 giugno 1919, nella b. "Ufficio del Lavoro”.

[16] Tutti questi documenti sono reperibili ne La Vita Diocesana, IX (1919), pp. 47-50, 99-107, 111-115, 134.

[17] Seduta della Presidenza, 1 aprile 1919.

[18] Seduta della Giunta, 18 luglio 1919.

[19] L’Eco di Bergamo, 29-31 gennaio, 1-3-5-7-12-15-19-21-27 febbraio, 20-25 marzo 1919.

[20] II Popolo, 2 aprile 1920.

[21] La squilla dei lavoratori, 6 marzo 1919 (riportato integralmente). L’articolo è intitolato "Bergamo e il sistema”.

[22] La squilla dei lavoratori, 28 febbraio 1920.

[23] La Vita Diocesana, XII (1920), pp. 44-47. I documenti utilizzati per questa parte nella b. "Ufficio del Lavoro”.

[24] La versione cocchiana dei fatti in R. Cocchi - E. Tulli, Scandali nella Vandea clericale, Milano, 1923.

[25] La Vita Diocesana, XII (1920), pp. 75-76.

[26] La Vita Diocesana, XII (1920), pp. 121-124.

 

logo - vai alla home page
Fondazione Serughetti Centro Studi e Documentazione La Porta
viale Papa Giovanni XXIII, 30   IT-24121 Bergamo    tel +39 035219230   fax +39 0355249880    info@laportabergamo.it