ciclo di incontri - Novembre 1998
Quaderno n. 74
Leggere la Scrittura. Un approccio culturale al testo biblico
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Il “libro” e i suoi canoni

Marco Zappella
 

Introduzione

Non tutte le Bibbie sono uguali. Nella storia, infatti, questo libro ha subìto delle articolazioni differenziate, frutto di differenziate intenzionalità. Chi si occupa di attività editoriali sa che l’indice costituisce la fase finale di un’opera, cioè il momento in cui l’opera assume una sua perspicuità, un suo senso (si tratta, per così dire, dei dati anagrafici di un’opera). A un indice diverso corrisponde una strutturazione interna, un senso, un’intenzionalità diversa.

Nel linguaggio teologico questo indice, questa strutturazione interna, ha assunto il nome di canone. Si tratta di un termine di origine accadica, che richiama l’italiano canna: il canone infatti è qualcosa che serve per misurare, qualcosa che dà la misura e stabilisce un perimetro al cui interno si trova qualcosa e oltre il quale quel qualcosa non si trova più. In sostanza, i libri che rientrano in un canone servono a stabilire le regole della fede, mentre i libri che non vi rientrano non servono a tracciare tale perimetro, non sono regolatori. Tre canoni implicano quindi tre scelte culturali e teologiche diverse.

Cercheremo ora di capire in superficie, ma non superficialmente, cosa vogliano dire questi tre indici, come siano strutturati e quali finalità si propongano[1].

I. I canoni: descrizione

1. Partiamo dal canone ebraico-base. Come noto, per indicare questo insieme di libri, gli ebrei, senza sbilanciarsi troppo e senza entrare nel merito del contenuto, usano l’acrostico TeNaK, il quale indica le tre parti in cui si divide il canone ebraico: Tôrâ (“Legge, insegnamento”), Nebî’îm (“Profeti”), Ketûbîm (“Scritti”).

a) Tôrâ (“Legge, insegnamento”). I cinque libri recano come titolo l’incipit del libro stesso, secondo un’antichissima tradizione: bere’šît (“in principio”), šemôt (“nomi”), wayyiqrâ (“e chiamò”), bemidbar (“nel deserto”), haddebarîm (“le parole”). Visto che per l’ebreo la Bibbia è, di fatto, la Tôrâ, il corpus di questi cinque libri rappresenta non solo il nucleo storico, ma soprattutto la struttura portante della spiritualità ebraica.

b) Nebî’îm (“Profeti”). La suddivisione interna è fra Nebî’îm ri’šônîm (“profeti anteriori”) e Nebî’îm ‘a:arônîm (“profeti posteriori”). Nei Nebî’îm ri’šônîm (“profeti anteriori”) si trovano: Giosuè, Šofetîm (tradizionalmente tradotto con Giudici, ma, più che di giudici, si tratta di figure carismatiche investite dallo spirito per salvare il popolo in situazioni di emergenza), 1-2 Samuele, 1-2 Re. Questa sezione è definita “i profeti” per il fatto che qui non si ha a che fare con una storia di Israele, quanto piuttosto con una lettura teologica della storia, il cui intento è di spiegare non ciò che è avvenuto all’inizio, ma ciò che avviene alla fine, cioè la distruzione di Gerusalemme e l’ultima deportazione in Babilonia. Questa lettura teologica della storia intende spiegare come è potuto accadere una catastrofe di tali dimensioni, a partire da una domanda tanto ovvia quanto drammatica: se sono vere le promesse del Signore, come è potuto accadere ciò? La spiegazione non può che essere profetica. E infatti nei Nebî’îm ‘a:arônîm (“profeti posteriori”) si sviluppa tale lettura teologica della storia: essi sono profeti non perché indovinano la storia, ma perché la sanno leggere, non perché predicono il futuro, ma perché aiutano a capire un presente che è votato al castigo. Si potrebbe dire che i Nebî’îm ri’šônîm (“profeti anteriori”) e i Nebî’îm ‘a:arônîm (“profeti posteriori”) sono come le due pale di un dittico: sotto forma di narrazione storica i primi e sotto forma di oracolo profetico i secondi spiegano il perché della catastrofe. Essi stanno comunque all’interno di un unico disegno. I “profeti anteriori” danno una lettura post eventum (come è potuto succedere che Gerusalemme sia stata conquistata, il tempio distrutto e la dinastia davidica interrotta se Dio aveva promesso tutto questo?), mentre i “profeti posteriori” danno lettura in eventu (mentre stanno vivendo la storia, dicono: attenzione perché qui si va a finire male!).

All’interno dei Nebî’îm ‘a:arônîm (“profeti posteriori”), ai cosiddetti Profeti maggiori (Isaia, Geremia, Ezechiele), seguono i cosiddetti dodici profeti minori (costituiscono un libro unico): Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Mic(he)a, Nacum, Abakkuk, Zafania (Sofonia), Aggai, Zaccaria, Malachia. Sul perché dell’assenza di Daniele, l’unico ad essere propriamente profeta (sono note le sue interpretazioni dei sogni), diremo fra breve.

c) Ketûbîm (“Scritti”). Dopo i Tehillîm (letteralmente “le lodi”, Salmi), Giobbe e Proverbi, troviamo le cinque Megillôt (“rotoli”): si tratta di cinque rotoli che ancora oggi vengono letti in occasione delle cinque festività più importanti dell’ebraismo, cioè la megillâ di Rut (per la festa delle Settimane), la Megillâ di Šîr haššîrîm (“Cantico dei cantici”, per la festa di Pasqua), la Megillâ di Qoelet (per la festa delle capanne), la Megillâ di ’êkâ (letteralmente “Come?”, Lamentazioni, festa del ricordo della distruzione di Gerusalemme), la Megillâ di Ester (per la festa di Purim). Come in ogni libro che si rispetti, alle cinque Megillôt segue un’appendice, formata da tre libri: il libro di Daniele, il libro di Esdra-Neemia (considerato un libro unico), il libro delle Dibrê hayyamîm (letteralmente “diario, annali”: 1-2 Cronache). Il libro di Daniele rientra nel genere letterario dell’apocalittica, un genere che, sviluppatosi tra il 200 a.e.v. e il 100 a.e.v., prospetta il riscatto e l’indipendenza della Palestina nel futuro, e ciò non perché Dio non sia potente o si sia dimenticato del suo popolo, ma perché ha in serbo un futuro meraviglioso per chi gli resterà fedele: la persecuzione presente serve a vagliare chi è fedele a Dio e chi non lo è, in modo tale che, nel tempo finale, si vedrà chi merita di appartenere a Israele e chi non lo merita. Si capisce come questa corrente abbia avuto notevole influenza su molti articoli di fede del cristianesimo (vita nell’aldilà, premio retributivo), tanto che i libri apocalittici ebraici si sono salvati grazie ai circoli cristiani. E si capisce anche come, dopo il 100 e.v., quando ormai la speranza del riscatto sembrava tramontata, questi libri rappresentassero un problema per i rabbini e quindi furono cassati, ad eccezione del libro di Daniele, per il fatto che la figura di Daniele (in ebraico Dani-El, “Dio giudica”) nell’Antico Vicino Oriente ha rappresentato la figura del saggio per eccellenza.

2. Vediamo adesso come questo indice sia stato modificato dalle comunità ebraiche di lingua greca. La definizione di Settanta (LXX) si riferisce ai settanta o settantadue traduttori che, secondo la tradizione, hanno tradotto in greco il testo ebraico della Bibbia, per fare in modo che gli ebrei di lingua e cultura greca di Alessandria d’Egitto, dove esisteva la più consistente comunità ebraica della diaspora, potessero leggere la Bibbia nella loro lingua, cioè il greco.

Notiamo anzitutto come si passi da titoli basati sull’incipit a titoli basati sul contenuto dei libri: da Tôrâ a Pentateuco (“cinque astucci”), da bere’šît a Genesi (“inizio”), da šemôt a Esodo (“uscita”), da wayyiqrâ a Levitico (norme specifiche per i Leviti), da bemidbar a Numeri (il censimento delle tribù), da haddebarîm a Deuteronomio (“seconda legge”). Questo passaggio è significativo, perché implica l’idea secondo cui la Bibbia è la storia di Israele: si parte dalla genesi per arrivare all’oggi. Si spiega allora perché al Pentateuco facciano seguito i Libri storici, con il libro di Rut inserito a questo punto, in quanto ambientato al tempo dei giudici, e con, al termine, la genealogia di Davide, facendo quindi da ponte tra Giudici e Re 1-4; seguono due libri di sintesi, 1-2 Paralipomeni (ta paralipomena, “le cose omesse”), che servono a completare quanto è stato tralasciato; arrivati alla distruzione di Gerusalemme, non può che seguire il rimpatrio, ed ecco quindi Tobia, Giuditta, Ester e Maccabei (quest'ultimo ambientato durante la dominazione dei Seleucidi in Palestina). Abbiamo dunque a che fare con una intenzionale costruzione storiografica. In sostanza, gli ebrei di lingua greca vogliono mostrare ai loro contemporanei e conterranei che anch’essi hanno una storia e un’opera storiografica degna di stare accanto a quelle di un Erodoto, di un Tucidide, di un Polibio.

Dopo il passato (la storia), il presente (la filosofia, intesa come insieme di norme per il retto comportamento sociale e religioso). Ecco allora i Libri poetici (Salmi (151), Giobbe, Proverbi, Ecclesiaste, Cantico dei cantici, Sapienza, Siracide), cioè i libri in cui viene raccolta la sapienza quotidiana del popolo ebraico.

Dopo il presente, il futuro (i profeti). Evidentemente, in ambito greco, i profeti non potevano che essere assimilati alle sibille e agli oracoli, cioè a un fenomenologia religiosa collegata con la divinazione del futuro. È come se gli ebrei dicessero: non solo voi avete grandi storici, grandi filosofi e grandi oracoli, anche noi li abbiamo.

Infine, la comunità di lingua greca, dotata - per così dire - di un palato letterario più raffinato rispetto a quella di lingua ebraica, aggiunge racconti che, per tradizione o per valore estetico, risultavano apprezzati; ecco allora aggiunte quali Tobia, Giuditta, 1-3 Maccabei, la Lettera di Geremia e Daniele, che non termina, come nell’originale ebraico al capitolo 12, ma con due nuovi capitoli, il 13 (con la famosa storia di Susanna) e il 14.

3. Nella Sisto-clementina abbiamo la stessa partizione (Pentateuco, Libri storici, Libri poetici, Libri profetici), ma spesso, accanto ai titoli latini, si trova il corrispondente ebraico (Regum libri 3-4 - Malachim; Verba dierum - Paralipomenon 1-2). Ciò dipende dal fatto che Girolamo, traducendo in latino la Bibbia ebraica, si attiene al canone ebraico, mentre per tutti i libri presenti nella Settanta, ma non nel canone ebraico, mantiene una traduzione anteriore (quella Africana o Vetus latina). Nelle intenzioni di Girolamo, quindi, la sua traduzione si pone come il punto di confluenza di due culture (quella ebraica e quella greca), di cui il cristianesimo latino si considera erede.

4. Per quanto concerne l’oggi, il canone può essere quello cattolico (Settanta e Vulgata) o quello protestante (canone ebraico). La Bibbia in lingua corrente interconfessionale (TILC) e la Traduzione Ecumenica della Bibbia (TOB) presentano il canone ebraico con l’aggiunta dei libri cosiddetti deuterocanonici.[2]

Recentemente Alonso Schökel († luglio 1998) ha proposto una disposizione secondo criteri prevalentemente letterari[3].

II. I canoni: implicazioni culturali e religiose

1. Il canone ebraico non è stato definito - come si è pensato da Spinoza in poi - al cosiddetto concilio di Jabne del 90-95 e.v., bensì intorno al III sec. e.v., per una ragione molto semplice. Un canone, proprio perché fissa il perimetro tra ciò che è vincolante e ciò che non lo è, presuppone un contesto polemico. E il contesto polemico è l’assunzione sempre più chiara da parte della chiesa cristiana di un canone più ampio di libri sacri[4]. Ne derivò la decisione dei rabbini di fissare in modo definitivo un canone di libri. Si tenga però presente che, oltre a quello ebraico, ci sono altri canoni, per esempio quello dei Samaritani (che accettavano solo il Pentateuco) e quello dei Karaiti (IX-X sec. e.v.), i quali, rifiutando la tradizione orale (la Tôrâ ‘al pê), sostenevano la necessità di tornare al testo originale ebraico; essi infatti codificano il testo ebraico così come lo possediamo oggi, aggiungendo le vocali e conteggiando le parole. Prima ancora dei Karaiti, esisteva un altro gruppo di “eretici”, la setta di Qumran. Tra i rotoli di Qumran troviamo, per esempio, la Lettera di Geremia in greco, Tobia, Siracide, il libro dei Giubilei. Ciò significa che al tempo di Gesù non solo non esisteva un canone, ma neppure un testo sacro.

Soffermiamoci ora sul Pentateuco. Noi siamo abituati a pensarlo come un insieme di cinque libri, cui fa seguito un ciclo storico che va da Giosuè a 2Re; ma se osserviamo meglio, si vede che chi ha pensato questo insieme letterario lo ha pensato come opera storica globale. Se infatti consideriamo l’ultimo capitolo (24) del libro di Giosuè (l’episodio dell’assemblea di Sichem, in cui il popolo è posto di fronte alla scelta tra le divinità dei Cananei e il culto di Yhwh), ci accorgiamo che il suo autore ha voluto agganciare il libro Giosuè con il Pentateuco per mostrare come la conquista della terra, avvenuta sotto Giosuè, costituisca l’apice delle promesse presenti nel Pentateuco. In questo caso, allora, non si potrebbe più parlare di Pentateuco (cinque libri), ma, casomai, di Esateuco (sei libri). Se poi leggiamo Giosuè-2Re, ci accorgiamo che il meccanismo secondo cui Gerusalemme è stata distrutta perché il popolo non ha rispettato la legge viene ampiamente sviluppato nel libro del Deuteronomio, il quale, essendo tutto impostato sul binomio obbedienza alla legge = vita, disobbedienza alla legge = morte, conterrebbe l’idea-base dello sviluppo “storico” successivo; in questo caso allora non avremmo più né un Pentateuco né un Esateuco, ma un Tetrateuco (quattro libri). Tutto ciò dimostra che già nel canone ebraico si trova un’intenzionalità storiografica: chi ha messo insieme questi blocchi (il cosiddetto storiografo deuteronomista) ha voluto presentare una storia di impianto teologico, ma con un impatto universale.

Oggi si tende quindi a vedere il Pentateuco (o Tetrateuco o Esateuco) come parte di un disegno storiografico più vasto, che va da Genesi a 2 Re, in parallelo con altre storiografie del mondo orientale e greco, che si collocano cronologicamente nel periodo storico che equivale al postesilio israelitico[5]. Resta da spiegare perché il Pentateuco sia sopravvissuto a livello canonico come realtà autonoma, staccato dalla più vasta opera deuteronomista di cui ora viene solo a formare una premessa. L’intervento del Deuteronomio intende sottolineare l’arcaica figura di Mosè nella sua funzione di legislatore e di profeta, con la quale riassume in sé le due correnti che in epoca postesilica sono entrate in conflitto tra loro, cioè quella degli scribi e quella dei liberi profeti, su cui bisognava esercitare un qualche controllo. Sarebbe appunto questa la situazione che spiegherebbe più da vicino le affinità tra Deuteronomio e Geremia e che potrebbe far supporre la nascita di una prima collezione di testi “canonici”, composta da tutto il complesso di Genesi – 2 Re e dal solo libro di Geremia. Si sarebbe trattato di un canone aperto, che di fatto ha incorporato poi altri testi (soprattutto profetici), fino al II sec. a.e.v.. La preminenza accordata a Mosè ha fatto sì che a lui si attribuisse tutta la fase più antica della storia d’Israele così ripensata, soprattutto dal lato istituzionale e normativo, e perciò il Pentateuco (inteso ovviamente come tôrâ) è venuto ad assumere la funzione di una specie di costituzione.

2. Passiamo ai Settanta. La scelta di nomos (“legge”) come equivalente di tôrâ (propriamente “insegnamento, direzione, via da seguire”) fra le possibili soluzioni offerte dalla lingua greca[6], sembra essere illuminata dal configurarsi dei Settanta come nomos politikos avente valore legale nell’ambito delle controversie giuridiche. Infatti, nella situazione giuridica di Alessandria, nomos è la norma la cui fonte non è nella volontà del re[7] e i Settanta s’inquadrano in una situazione politica e sociale in cui i monarchi si fanno garanti della pacifica coesistenza delle componenti della società[8]. I testi papiracei dei III e II secolo mostrano appunto che la tôrâ ebraica corrisponde alla nozione di “legge civile”, alternativa ai diagrammata reali, applicabile agli ebrei d’Egitto.

A questo proposito è interessante la testimonianza di Giuseppe Flavio (I sec. e.v.), il quale nel Contra Apionem dice: “Non è permesso all’arbitrio di chiunque scrivere storia e non esiste alcuna discordanza negli scritti – infatti i profeti sono gli unici ad avere appreso, da un lato, gli avvenimenti più antichi e remoti secondo l’ispirazione proveniente da Dio, dall’altro, a scrivere la storia e i fatti loro contemporanei con chiarezza (saphos), così come essi erano avvenuti – ne deriva la giusta conseguenza, anzi necessaria, che non abbiamo un’infinità (myriades) di libri discordanti (asymponon) e contraddittori, ma soltanto ventidue libri che abbracciano la storia di tutti i tempi e che sono giustamente considerati come divini. Cinque sono di Mosè. Essi contengono le leggi e la tradizione dalla creazione dell’uomo fino alla sua morte. Questo periodo comprende poco meno di tremila anni. Dalla morte di Mosè fino a quella di Artaserse[9], re dei Persiani dopo Serse, i profeti posteriori a Mosè scrissero i fatti avvenuti al loro tempo in tredici libri (Giosuè, Giudici+Rut, Samuele, Re, Cronache, Ezra+Neemia, Ester, Giobbe, Isaia, Geremia+Lamentazioni, Ezechiele, Profeti minori, Daniele). Gli altri quattro libri (Salmi, Proverbi, Cantico dei cantici, Ecclesiaste) contengono inni a Dio e precetti morali per gli uomini. Da Artaserse fino ai nostri tempi ogni evento è stato narrato, ma questi libri non hanno acquistato la stessa autorità dei precedenti, perché la successione dei profeti non è più precisa (ten ton propheton akribe diadochen). I fatti mostrano il sentimento con cui ci accostiamo alle nostre proprie Scritture. Infatti, pur essendo già passato tanto tempo, nessuno ha osato aggiungere né togliere né cambiare qualcosa”[10].

In Giuseppe Flavio, come si vede, c’è già la preoccupazione di contrapporre la Bibbia alla paideia greco-romana: la tôrâ è la summa della sapienza del popolo ebraico da contrapporre alla sapienza greca, il che significa contrapposizione tra un testo religioso e una cultura. Il Contra Apionem è infatti un attacco alla storiografia greca: recente (archaiotes) e inaffidabile (superficialità: euchereian), essa preferisce la retorica e non ha conservato rapporti ufficiali (anagraphas) degli eventi occorsi. Al contrario, gli orientali in generale, e gli ebrei in particolare, si sono preoccupati di ciò. Tra gli ebrei questo incarico è stato svolto da profeti e sacerdoti e con grande cura si è preservata la genuina discendenza di quest’ultimo gruppo. Giuseppe in altri scritti si sente dotato del dono profetico e quindi in grado di scrivere storia. Gli scritti giudaici non solo sono superiori sul piano storiografico, ma costituiscono una genuina alternativa alla cultura e alla storiografia greca.

3. Concludiamo con la Vulgata. Delle intenzioni di Girolamo ho già detto al punto I.3. Qui basta aggiungere che nel XVI sec. si impone l’esigenza da parte della chiesa cattolica di contrapporsi alla riforma di Lutero sul suo stesso piano: quindi, prima si stabilisce un testo e un canone, e poi si canonizza un testo dell’antichità. Sullo sfondo c'è l'idea del ritorno alla purezza delle origini (si pensi ad Erasmo, alla corrente della devotio moderna e a Lutero stesso), ma ad origini che siano in stretta e diretta continuità con il presente (Agostino, Tommaso, tradizione ecclesiastica medievale). La scelta della Vulgata, consacrata poi materialmente nell’edizione sisto-clementina[11], di fatto introdurrà un elemento nuovo: per quattro secoli la chiesa cattolica avrà un solo testo canonico, non solo per la lingua che lo veicolava (il latino), ma anche per il testo nella sua materialità[12].

Conclusione

Da quanto s'è detto, si può affermare che ogni canone, proprio per l'intenzionalità teologica che vi soggiace, non è neutro. Nell'antichità si assiste ad una situazione di pluralismo, visto che la traduzione dei Settanta e la traduzione latina (Vulgata) sono coesistite, pur appartenendo alla stessa confessione. Con la sisto-clementina, invece, si verifica una sorta di assolutizzazione del canone in funzione polemica (antiluterana). Oggi, infine, si è tornati a una pluralità di testi, di canoni e quindi anche di teologie, in opposizione alla omogeneità della Vulgata; l'esempio più eloquente è costituito dalle versioni TOB e TILC.

Conversazione tenuta presso la Fondazione "Serughetti-La Porta" il 19 ottobre 1998. Testo redatto dall'Autore.

 


TeNaK

 

Tôrâ

bere’šît (in principio)

šemôt (nomi)

wayyiqrâ (e chiamò)

bemidbar (nel deserto)

haddebarîm (parole)

 

Nebî’îm

Ri’šônîm (anteriori)

Giosuè

Šofetîm (Giudici)

Samuele (1-2)

Re (1-2)

 

’a:arônîm (posteriori)

 

Isaia

Geremia

Ezechiele

(12) Profeti minori

Osea-Gioele-Amos-Abdia-Giona-Mic(he)a- Nacum-Abakkuk-Zafania (Sofonia)-Aggai-Zaccaria-Malachia

 

KetûBîm

 

Tehillîm (Salmi)

Giobbe

Proverbi

 

Megillôt

 

Rut (settimane)

Šîr haššîrîm (Cantico dei cantici – pasqua-azzimi)

Qoelet (capanne)

’êkâ (Lamentazioni)

Ester (Purim)

 

Daniele

Esdra-Neemia

Dibrê hayyāmîm (diario, annali= 1-2 Cronache)

Settanta

(Bratsiotis)

Pentateuco

Genesi

Esodo

Levitico

Numeri

Deuteronomio

 

Libri storici

 

Giosuè

Giudici

Rut

1-2 Re (= 1-2 Samuele) 3-4 Re (= 1-2 Re)

1-2 Paralipomeni (= 1-2 Cron.)

°1 Esdra

 2 Esdra (Esdra+Neemia)

Tobia

*Giuditta

*Ester (greco)

*1-3 Maccabei[.1]

 

Libri poetici

 

Salmi (151)

Giobbe

Proverbi

Ecclesiaste

Cantico dei cantici

*Sapienza

*Siracide

 

 

Libri profetici

 

Osea, Amos, Michea, Gioele…

 

Isaia

Geremia

*Baruc

Lamentazioni

*Lettera di Geremia

Ezechiele

Daniele (14 cc.)

4 Maccabei

[Rahlfs aggiunge °Odi di Salomone (Preghiera di Manasse[.2])

Salmi di Salomone]

Sisto-Clementina (1592)

Pentateuco

Genesi

Esodo

Levitico

Numeri

Deuteronomio

 

 

Libri storici

 

Giosuè

Giudici

Ruth

Samuehelis (regum) libri 1-2

Regum libri 3-4 (Malachim)

Paralipomenon 1-2 (Verba dierum)

1 Esdrae

2 Esdrae (verba Neemiae)

Tobia

Giuditta

Ester

 

 

Libri poetici

 

Giobbe

Psalterium (Gallicanum / iuxta Hebraeos)

Proverbi

Ecclesiaste

Cantico dei cantici

Sapienza

Ecclesiastico

 

Libri profetici

Profeti maggiori

Isaia

Geremia

Lamentazioni

Baruch (6 capitoli)

Ezechiele

Daniele

Profeti minori

12 Profeti minori

Maccabei 1-2

[NT]

IV Esdra

Oratio Manasse

3 e 4 Esdra

Sal 151

Lettera ai Laodicesi[.3]


 

Bibbia di Gerusalemme

 

Genesi

Esodo

Levitico

Numeri

Deuteronomio

Giosuè

Giudici

Rut

1-2 Samuele

1-2 Re

1-2 Cronache

Esdra

Neemia

Tobia

Giuditta

Ester

1-2 Maccabei

 

III. Libri sapienziali

 

Giobbe

Salmi

Proverbi

Qoelet

Cantico dei cantici

Sapienza

Siracide

 

IV. Libri profetici

 

Isaia

Geremia

Lamentazioni

Baruc

Ezechiele

Daniele (con 13–14)

Osea…Malachia

Interconfessionale-Lingua corrente

 

Genesi–2 Cronache secondo il Canone ebraico

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

deuterocanonici

 

 

Ester greco

Giuditta

Tobia

1-2 Maccabei

Sapienza

Siracide

Baruc

Lettera di Geremia

Dan 13–14

Alonso-Schökel

 

I. PROSA

 

Pentateuco

 

Genesi–Deuteronomio

Storia

Giosuè

Giudici

1-2 Samuele

1-2 Re

1-2 Cronache

Esdra

Neemia

1-2 Maccabei

 

Narrazioni

 

Rut

Tobia

Giuditta

Ester

 

II. POESIA

 

Profeti

Isaia

Geremia

Ezechiele

Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Mic(he)a, Nacum, Abakkuk, Zafania (Sofonia), Aggai, Zaccaria, Malachia

Daniele (con 13–14)

Baruc

Lettera di Geremia

 

Poesia

 

Salmi

Cantico dei cantici

Lamentazioni

 

Sapienziali

 

Proverbi

Giobbe

Ecclesiaste

Ben Sira

Sapienza



[1] Si vedano le tabelle riportate alla fine della presente relazione.

[2] Cfr. in proposito la Bibliografia alla fine del volume.

[3] Si veda lo schema alla fine della presente relazione.

[4] Cfr. Giustino, Dialogo con Trifone.

[5] Si tratta di Erodoto, anche se non in una prospettiva di storia universale, Ellanico, Ecateo, Berosso e Manetone.

[6] Per esempio thesmos, termine più solenne di nomos.

[7] In questo caso si tratterebbe di diagrammata e prostagmata.

[8] Da questo punto di vista sembrerebbe anche comprendersi la tradizionale alternativa riguardo all’origine della Settanta -traduzione chiesta dalla biblioteca reale- o targum greco per la pratica sinagogale.

[9] Artaserse I, 464-424 a.e.v..

[10] Contra Apionem 1,7-8 / 1,37-42.

[11] Da Sisto V 1590 e Clemente VIII 1592.

[12] La versione latina, che soltanto da Ruggero Bacone in poi sarà chiamata Vulgata, fino al XVI secolo conosce una pluriforme attestazione; solo nel XIII secolo, all’università di Parigi, si comincia a sentire il bisogno di rifarsi a un testo affidabile.

 

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