ciclo di incontri - 13 Ottobre 1994
Quaderno n. 62
Corso di cultura ebraica (II° ciclo)
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Mosè Maimonide e il Medioevo ebraico

Giuseppe Laras
Rabbino capo Comunità ebraica di Milano
 

Mosè Maimonide è importante perché ha avuto notevole influenza anche sulla Scolastica cristiana, in particolare su Tommaso d'Aquino. In ambito ebraico è conosciuto, oltre che come maestro di pensiero, anche come decisore: se infatti in ambito filosofico la sua opera più importante è La Guida dei perplessi, non meno nota è un'opera di carattere, per così dire, dogmatico, il Mishnè Torah, che contiene la codificazione della normativa dell'ebraismo, testo che ancora oggi è fondamentale. Prima, però, di occuparci del pensiero filosofico, soffermiamoci a considerare qualche dato biografico e ambientale.

Mosè Maimonide nasce a Cordova nel 1135,  in uno dei periodi più tranquilli e fecondi per gli studi, dal momento che la Spagna di quel periodo già da diverso tempo si trovava sotto il dominio musulmano. Convenzionalmente infatti, l'ingresso in Spagna dei Musulmani è il 715, dopo un periodo di dominazione visigota caratterizzato da un marcato oscurantismo culturale e religioso. Si registra, oltre ad una serena convivenza religiosa tra Islam, ebraismo e cristianesimo, anche una sinergia culturale, specialmente in campo scientifico e filosofico. Maimonide stesso fu, molto probabilmente, allievo di maestri arabi, per ciò che riguarda la sua formazione medica; suo padre, insigne astronomo, aveva insegnato a studenti arabi; si ha anche motivo di ritenere che molti cristiani fossero coinvolti in questa collaborazione culturale. Ad un certo punto, però, l'atmosfera muta, in coincidenza con l'ascesa al potere della dinastia degli Almohadi, provenienti dal Marocco (i cosiddetti unitariani), i quali impongono con la forza ai sudditi la fede dell'Islam. Già si vedono, tragicamente accennate, le condizioni successive in Spagna, prima dell'espulsione in ambito cristiano. Questo cambio della guardia (1148-1149) determinerà la fuga del giovane Maimonide e della sua famiglia, prima in altre città della Spagna musulmana e poi, paradossalmente, proprio in Marocco (spesso, infatti, nel fulcro del potere è più facile sfuggire alla persecuzione che non in periferia). Tale permanenza risultò traumatica dal momento che sembra (pur non essendoci una certezza documentale) che il giovane Maimonide e la famiglia dovettero accettare formalmente l'Islam (si tratta di un'esperienza ante litteram di quel cripto-giudaismo, il marranesimo, che sarà tipico dell'ebraismo spagnolo all'epoca dell'espulsione). A distanza di qualche anno, interrogato da alcuni fratelli perché esprimesse qualche pensiero conforme alla tradizione autentica ebraica, scriverà un piccolo trattato in cui sviscera la materia dando delle indicazioni che serviranno a rasserenare le persone costrette, per sfuggire alla morte, a pronunciare una professione di fede che non sentivano come propria.

Dopo alcuni anni di permanenza in Marocco, la famiglia decide di trasferirsi in Israele. Allora non era semplice andare in Israele: si trattava di una terra in buona parte distrutta e quindi poco ricettiva, oltre che pericolosa, ma questo viaggio rappresentava il sogno della famiglia di Maimonide. La permanenza si protrae per poco tempo, fin quando si trasferiscono in Egitto, nella parte vecchia de Il Cairo, che vedeva la presenza di una folta comunità ebraica. Il sovrano, Sal' ha Din, prende a ben volere questo giovane medico e lo inviterà a corte facendolo poi diventare suo medico personale. L'intera vita di Maimonide (dai 32 ai 70 anni) si svolgerà quindi in Egitto: la sua fama di medico aumentava di giorno in giorno (si dice che Riccardo Cuor di Leone lo volesse con sé in Inghilterra). In una lettera lascerà una descrizione molto vivida della sua giornata senza un momento di sosta: alzatosi all'alba, si recava a palazzo dove iniziava la sua attività, a cominciare dal Saladino che voleva essere visitato tutti i giorni; una volta tornato a casa, trovava una fila di persone che lo attendevano per essere visitate. Ad un suo allievo che dalla Provenza intendeva andare a trovarlo per stare un po' con lui, egli rispose che la sua giornata non gli avrebbe permesso di dedicargli l'attenzione necessaria. Ciò nonostante, la produzione filosofica di Maimonide è imponente.

La sua opera principale è, come si diceva, La Guida dei perplessi. Il testo è rivolto ad un suo allievo, Joseph Ibn-aknin, che si trovava in una situazione di perplessità: ebreo molto pio e religioso, egli amava anche la filosofia (Aristotele) e ciò lo spingeva a soffermarsi sul contrasto esistente tra la Torah e le conclusioni aristoteliche. In sostanza, Maimonide vuole dimostrare, in quest'opera, che non c'è contraddizione tra il dato della fede e il dato della filosofia, perché si tratta di due piani diversi che vertono sullo stesso oggetto: un piano più diretto, che è quello della rivelazione, e un piano indiretto, che è quello della filosofia. In buona parte (pur con qualche eccezione) sia la filosofia aristotelica sia la Torah affermano le stesse verità, sia pure con linguaggi diversi (anche il musulmano Averroè, di qualche anno più vecchio di Maimonide e anch'egli di Cordova, giungerà, con la sua teoria della «doppia verità» -quella filosofica riservata agli studiosi e quella della rivelazione riservata alle persone semplici-, alle stesse conclusioni).

Già da molti secoli, cioè subito dopo l'avvento dell'Islam, era stato operato un accostamento tra la fede e la dottrina aristotelica: gli arabi avevano il Corano e Aristotele. La tematica cosmogonica, per esempio, creava delle difficoltà dal momento che sia nella Bibbia sia nel Corano è affermato il creazionismo (Dio, per un atto di libera volontà, crea il mondo nel tempo traendolo dal non essere), mentre Aristotele sosteneva l'eternismo (il mondo è sempre esistito, essendo la proiezione necessaria di Dio). Di conseguenza, nasceva un'altra contrapposizione, quella tra il mondo della libertà e il mondo della necessità: essa aveva riflessi anche in campo etico, perché, se il mondo ed io siamo frutto di un necessitarismo, entra in gioco il problema della libertà, mentre, se il mondo ed io siamo il prodotto di una libera volontà, il discorso etico prende un'altra piega. Il problema, come si vede, è rilevante e spiega il tentativo, in campo islamico, di trovare un accordo fra le due posizioni: alcuni studiosi dell'Islam arrivano a sposare la causa di Aristotele, mentre altri vi si oppongono cercando di dimostrare con la dialettica logica l'erroneità delle affermazioni dello Stagirita.

Maimonide, a proposito della tematica cosmogonica, entra in forte polemica con Aristotele, pur nutrendo per lui un amore sconfinato (ritiene infatti che Aristotele sia la quintessenza della sapienza). Egli afferma, infatti, che, se la posizione aristotelica è vera per quanto afferisce al mondo fisico, non è altrettanto vera per il mondo metafisico (un Dio, cioè, immobile, che pensa solo a se stesso, che non vede il mondo e che quindi non può giudicare le creature, non può essere il Dio personale della religione). Ciononostante, su moltissimi argomenti Maimonide accetta le conclusioni di Aristotele, arrivando addirittura a far dire alla Torah ciò che, almeno apparentemente, non intende dire, attraverso il ricorso all'interpretazione allegorica extraletterale (il cui maestro riconosciuto è Filone di Alessandria). A proposito di creazionismo ed eternismo, egli afferma che Aristotele non aveva delle prove che stessero alla base della sua impostazione eternista; sostenere infatti che il mondo è eterno significa regredire all'infinito sulle cause; se l'uomo è eterno, significa che è sempre esistito. L'eternismo, dunque, può essere affermato, ma non dimostrato. Anche il creazionismo -riconosce Maimonide- non può essere dimostrato; tuttavia, nell'ambito del teismo e del trascendentalismo, è possibile ipotizzare che Dio, con un suo atto di libera volontà, abbia determinato l'essere, la realtà: se non può essere dimostrato, sembra comunque essere più plausibile. D'altra parte, a fianco della tesi creazionista, c'è qualcosa che non c'è a fianco di quella eternista, cioè il dato della libertà. Nessuna delle due posizioni, dunque, -secondo Maimonide- è dimostrata, ma la tesi creazionista è meno improbabile di quella eternista.

L’intento di Maimonide è di dimostrare come il mondo possa essere stato il prodotto di un atto di libera volontà, perché, da un punto di vista filosofico, dal semplice nasce il semplice (il concetto di Dio unico è un concetto semplice, cioè di non compositezza); dato che il mondo non è semplice, ma composto, significa che Dio, con un atto di libera volontà, lo ha voluto composito. Si tratta di ragionamenti tipicamente filosofici che possono lasciare perplessi, ma Maimonide ricorre a tali argomenti, perché è tipico della scolastica ebraica e cristiana ricorrere alle metodologie dimostrative della filosofia per affermare o confermare delle verità di fede.

A parte questi problemi, Maimonide ha un'idea fissa: che lo scopo dell'uomo sia di conoscere Dio. Egli sa benissimo che l'uomo non può conoscere Dio; conoscere Dio significa, piuttosto, cogliere, nella misura in cui ciò è possibile, l'essenza di Dio. Per Maimonide, l'uomo dovrebbe impiegare buona parte della sua vita in tale ricerca. Non si tratta, tuttavia, di una ricerca di tipo mistico e pietistico, ma attraverso l'intelletto. Proprio sulla base di questo aspetto, Maimonide è stato definito un filosofo razionalista; egli, invece, si serve, metodologicamente, della ragione, ma per arrivare alla conoscenza di Dio, obiettivo tipico dei mistici. Per conoscere Dio, l'uomo deve, con il suo intelletto (la sua parte autentica e immortale), concentrarsi su alcune verità metafisiche: l'unità di Dio, la sua incorporeità, la sua eternità, il rapporto che intrattiene con il mondo e con le creature, la provvidenza, i suoi attributi.

Per sostenere questo suo convincimento, egli introdurrà un capovolgimento della stessa Torah: il testo rivelato, secondo lui e a differenza dei Maestri di Israele di tutte le epoche, non costituisce uno scoglio. Dal punto di vista ortodosso, infatti, l'osservanza dei precetti è un riflesso della volontà di Dio per l'uomo: nel momento in cui, attraverso il precetto, compie la volontà di Dio, l'uomo assolve il suo compito. Maimonide, invece, trasforma l'osservanza della Torah, da fine, a mezzo per poter arrivare alla conoscenza di Dio. Lo scopo dei precetti è infatti di creare una personalità equilibrata e giusta; se si hanno tante personalità equilibrate, si avrà una società equilibrata; se ci si troverà in una società equilibrata ed onesta, allora si avrà la possibilità di concentrarsi sulle realtà metafisiche. La Torah, attraverso la precettistica, ha lo scopo -secondo Maimonide- di creare le condizioni affinchè l'uomo possa puntare verso le verità autentiche che garantiscono l'immortalità.

Vediamo un esempio. Nel libro del Levitico (19,14), c'è un precetto che dice: «Non maledire il sordo». Interrogandosi sul significato di tale precetto, Maimonide sostiene che esso non è a vantaggio del sordo (come può cogliere la maledizione se non ci sente?), ma a favore di coloro che ci sentono, i quali, se si abituano a insultare, provocano nella loro anima e nel loro comportamento delle condizioni che li allontano dall'obiettivo della ricerca di Dio. E così pure, a proposito della precettistica che riguarda il riposo sabbatico, Maimonide sostiene che essa ha lo scopo di alleggerire, attraverso il riposo, la quiete e la serenità che ne deriva, le tensioni e quindi creare individui, nuclei e società formate da persone serene ed equilibrate che posseggano in sé le condizioni ideali per la ricerca di Dio. Si tratta di una concezione sicuramente rivoluzionaria e anche un po' pericolosa: se infatti qualcuno ritenesse di non avere bisogno di questa fase intermedia, che Maimonide chiama «la perfezione del corpo», per concentrarsi sull'ultima meta, cioè «la perfezione dello spirito», di fatto cancellerebbe uno dei punti fondamentali dell'identità ebraica, vale a dire l'adesione e l'osservanza della parola di Dio espressa nella Torah. E non a caso tale punto della sua dottrina ha attirato su di lui la critica di molti. Senonché, Maimonide era una persona tanto onesta che, quando riteneva di affermare una verità, non la taceva nel timore di dispiacere a qualcuno, come afferma, del resto, nell'Introduzione alla Guida dei perplessi: "Io sono l'uomo che, sentendo restringersi attorno a sé lo spazio e ogni via d'uscita e non avendo altro mezzo di insegnare una verità dimostrata, se non in modo che essa venga capita da un solo uomo intelligente e non capita da diecimila ignoranti, preferisce parlare per quell'unica persona, senza curarsi del biasimo di quella sterminata moltitudine, preoccupandosi di sollevare quell'unico uomo intelligente dal dubbio in cui è caduto e di dissipare il suo smarrimento, onde portarlo alla perfezione e alla pace".

Uno dei contenuti più importanti e più noti del pensiero filosofico di Maimonide è relativo alla sua dottrina etica. Egli è riaffermatore della dottrina della medietà, il giusto mezzo, già formulata da Aristotele nell'Etica Nicomachea, ma già presente nei testi biblici e post-biblici (si veda, a titolo esemplificativo, Prov. 4,27; 30,8 e Qoelet 7,16-17; nel Talmud gerosolimitano [Chagigà cap. II] si dice: "questa Torah assomiglia a due sentieri: uno di fuoco e uno di neve. Deviando da una parte, si perisce nel fuoco, deviando dall'altra, si perisce nella neve. Che cosa dunque si deve fare? Si proceda nel mezzo, non deviando né da una parte né dall'altra". Anche Jehudà ha-Levì sembra far propria la dottrina della medietà: "la Torah di Mosè non ci assoggetta ad un ideale ascetico, ma ci indirizza per la via mediana, attribuendo a ciascuna delle facoltà dell'anima e del corpo la parte che le conviene, senza eccesso, giacché l'eccesso di una facoltà comporta il difetto di un'altra...” [Kuzzarì II,50]). Il contenuto essenziale di tale dottrina è rappresentato da un'assoluta esigenza di equilibrio, sia in campo teoretico sia in campo pratico. Nel capitolo La cura delle malattie dell'anima della sua opera Gli otto capitoli, Maimonide sostiene che le azioni buone sono quelle equilibrate, cioè equidistanti da due estremi opposti (l'eccesso e il difetto) i quali sono entrambi cattivi. "Le virtù sono disposizioni dell'anima e abitudini a metà strada fra due atteggiamenti cattivi, di cui uno è rappresentato dall'eccedente, l'altro dall'insufficiente. Da queste diverse disposizioni derivano queste diverse azioni. Ad esempio: la continenza è la disposizione mediana fra il desiderio sfrenato e l'assenza di sensazione di piacere. Ordunque, la continenza fa parte delle azioni buone. La diposizione dell'anima che conduce alla continenza è una delle virtù morali, mentre il desiderio sfrenato è un suo estremo e l'assenza di sensazione di piacere è l'altro suo estremo, diametralmente opposto, ed entrambi sono un male in assoluto. Queste due disposizioni dell'anima, da cui derivano rispettivamente il desiderio sfrenato, che è la condizione eccedente, e l'assenza di sensazione, che è la condizioni insufficiente, sono entrambe delle disfunzioni delle virtù. Così, la generosità è mediana tra l'avarizia e la prodigalità; il coraggio è mediano tra la temerarietà e la pusillanimità; la cordialità è mediana tra la sfacciataggine e l'estrema timidezza; l'umiltà è mediana tra l'orgoglio e l'abbiezione; la riservatezza è mediana tra la superbia e l'autodisistima; la moderazione è mediana tra la cupidigia e il disinteresse; la ponderatezza è mediana tra la suscettibilità e l'apatia; la riservatezza è mediana tra la sfrontatezza e la timidezza, e così via".

E ancora: “Gli uomini spesso errano a proposito di tali azioni, ritenendo che uno degli estremi sia cosa  buona e una virtù dell’anima. Alcuni, infatti, ritengono che solo un estremo (l’eccesso) sia un bene, come quando, ad esempio, ritengono la temerarietà una virtù e appellano i temerari eroi, e, quando vedono qualcuno che, all’estremo limite della temerarietà, si espone al pericolo coscientemente e si salva per puro caso, lo esaltano per questo, dicendo: è un eroe! Altri, invece, apprezzano l’altro estremo (il difetto), definendo l’apatico un ponderato, l’abulico un appagato della sua sorte e colui che è insensibile ai piaceri, a motivo dell’ottusità della sua natura, un continente; e, sulla scia di tali errori, considerano la prodigalità e il fasto come azioni lodevoli. Ma tutto ciò è errato, poiché -in verità- lodevole è solo ciò che sta in mezzo, ed è verso di esso che l’uomo deve tendere, indirizzando tutte le sue azioni sempre verso tale medianità”.

La cosa interessante è che Maimonide, dopo averlo condannato, si sofferma sulla liceità, in alcune circostanze, dell’eccesso. Quando, per esempio, si è ammalati di avarizia, bisogna propendere verso il suo eccesso, la prodigalità, in funzione terapeutica; la generosità infatti non basta. Alcuni, vedendo degli uomini religiosi che praticano un certo stile di vista portato all’estremismo, non sapendo che lo fanno per fini terapeutici, si mettono ad imitarli e in questo modo sbagliano. Da qui deriva la presa di posizione di Maimonide contro gli atteggiamenti di solitudine, di autoprivazione, di anacoretismo, tutte pratiche di vita da non additare come esempio in quanto non produttive sul piano spirituale e su quello etico. A tal proposito egli dice: “Costoro assomigliano a colui che, non avendo cognizioni di medicina e vedendo che i medici esperti fanno bere ai moribondi polpa di coloquintide, convolvolo, aloè e altre simili sostanze, privandoli nel contempo di qualsiasi altro alimento, e che a seguito di ciò questi guariscono dalla loro infermità e sfuggono per miracolo alla morte, dicesse «se quelle sostanze sono capaci di guarire un ammalato, tanto maggiormente saranno capaci di mantenere in salute chi è sano o, addirittura, di fargliela aumentare» e prendesse quindi ad assumerle abitualmente, comportandosi alla stregua di un malato. Senza dubbio finirebbe per ammalarsi! La stessa cosa, senza dubbio, capiterà a questi ammalati nell’anima, se si serviranno di medicamenti, pur essendo sani. La stessa Torà (...) non ci comanda nulla di ciò, ma vuole unicamente che l’uomo viva in conformità con la sua natura e proceda nella via mediana; cioè a dire: che mangi con moderazione ciò che gli è consentito mangiare, che beva con moderazione ciò che gli è consentito bere, che pratichi con moderazione l’attività sessuale nell’ambito a lui lecito, che viva nella società con giustizia e lealtà, e che non abiti nelle caverne o sulle montagne, né indossi sacco e lana, né che mortifichi il suo corpo, debilitandolo e affliggendolo. Un implicito divieto in tal senso ci proviene dalla tradizione dei Maestri, i quali, a proposito del Nazireo (trattasi di persona, uomo o donna, che fa voto di astinenza da vino e da bevande fermentate, di non tagliarsi i capelli, di non avere contatto con i morti per non contrarre impurità: non essendoci nessuno che lo obbliga a fare ciò, il Nazireo ritiene di avvicinarsi maggiormente a Dio risultando a lui gradito, N.d.R.) di cui è detto «E (il Sacerdote) farà espiazione per lui, in quanto egli ha peccato avendo avuto contatto con un cadavere» (Num 4,11), si chiesero: «Ma, forse che costui ha peccato contro qualcuno? Sì, affliggendo la propria persona, (privandosi) del vino. E il ragionamento è a fortiori: se colui che si è privato del vino ha bisogno di espiazione, a maggior ragione (ne ha bisogno) colui che si priva di tutto!». Ma anche dalle parole dei nostri profeti e dei Maestri della nostra Torah noi impariamo che essi si comportavano sempre con equilibrio, preservando la loro anima e il loro corpo, secondo quanto impone la Torah”.

Sulla scia, dunque, della sua teoria della medietà, Maimonide prende posizione contro le forme di vita che portano alla solitudine e alla mortificazione e che non rispondono alle aspettative in quanto, più che avvicinare, allontanano l’uomo da Dio. In tale contesto, Maimonide è perfettamente in linea con la dottrina ufficiale dell’ebraismo, a cui risultano estranee tali forme di autoprivazione, sulla base del presupposto che la corporeità, essendo stata creata da Dio, non deve essere considerata qualcosa da soffocare, ma da gestire con misura (è vero che l’ebraismo ha conosciuto qualche forma di monachesimo -si pensi al movimento essenico, al movimento dei Terapeuti in Egitto, di cui parla Filone, e a Qumram-, ma si tratta pur sempre di fenomeni isolati e guardati con un certo sospetto e senso critico, tanto da non avere lasciato nessuna traccia).

In conclusione, vorrei soffermarmi sulla cosiddetta Confessione di fede di Mosè Maimonide. Questo testo non è stato composto da lui, ma riecheggia il suo commento alla Mishnà di Sanhedrin dove egli espone, sintetizzandoli, i fondamenti (ikkarim) della fede ebraica. Esso è entrato nella liturgia e suona così:

1. Io credo con piena fede che il Creatore, sia benedetto il suo nome, ha creato e guida tutte le creature; e lui solo ha fatto, fa e farà ogni cosa.

Creatore dal nulla della realtà ed unico: su questo principio egli ha dissertato a lungo ne La guida dei perplessi a livello filosofico.

2. Io credo con piena fede che il Creatore, sia benedetto il suo nome, è unico e che in nessun modo esiste unità come la sua e che lui solo fu, è e sarà il nostro Dio.

Non si tratta di un’unità matematica, ma ineffabile, che non si lascia scomporre.

3. Io credo con piena fede che il Creatore, sia benedetto il suo nome, è incorporeo e che non ha determinazioni corporee e non ha alcuna figura.

Un attributo fondamentale di Dio è l’incorporeità, mentre la corporeità contraddice la divinità.

4. Io credo con piena fede che il Creatore, sia benedetto il suo nome, è il primo e l’ultimo.

Con lui nasce e si conclude la realtà.

5. Io credo con piena fede che il Creatore, sia benedetto il suo nome,  è il solo a cui rivolgere la preghiera e che non si deve pregare nessuno al di fuori di lui.

6. Io credo con piena fede che tutte le parole dei profeti sono verità.

I profeti sono i ricettori e i trasmettitori della volontà di Dio, perché Dio parla all’uomo; è necessario che la voce di Dio si trasmetta attraverso i profeti, se si vuole avere ragione della volontà di Dio. Senza la profezia sarebbe impossibile confermare la Torah stessa.

7. Io credo con piena fede che la profezia di Mosè, nostro maestro, su di lui sia la pace, è stata veritiera e che egli è stato il più grande dei profeti, sia di quelli prima sia di quelli dopo di lui.

Si afferma la posizione preminente di Mosè, il quale è stato colui che ha parlato “faccia a faccia” con Dio. La comunicazione profetica avviene a tanti livelli (si veda in proposito la relazione di R. Colombo, disp. n. 59).

8. Io credo con piena fede che tutta la Torah, ora in nostro possesso, è quella data a Mosè, nostro maestro, su di lui sia la pace.

9. Io credo con piena fede che questa Torah non sarà mutata e che non ci sarà un’altra Torah data dal Creatore, sia benedetto il suo nome.

10. Io credo con piena fede che il Creatore, sia benedetto il suo nome, conosce ogni azione degli uomini e ogni loro pensiero, come è detto: “Lui solo ha plasmato il loro cuore e conosce tutte le loro opere”.

E’ il fondamento della Provvidenza: Dio vede gli uomini. Si tratta di un elemento che contrappone radicalmente la religione alla dottrina aristotelica, secondo la quale Dio veglia sulla specie e non sugli individui.

11. Io credo con piena fede che il Creatore, sia benedetto il suo nome, compensa coloro che osservano i suoi precetti e punisce coloro che trasgrediscono i suoi precetti.

E’ il principio della retribuzione: Dio, nel mondo avvenire, ricompenserà in ragione della condotta tenuta in questo mondo.

12. Io credo con piena fede nella venuta del messia, e, anche se egli tarda, con tutto ciò lo attenderò ogni giorno, finché verrà.

E’ un altro dei fondamenti della fede ebraica: il messia riconcilierà l’umanità e farà cessare tutte le ingiustizie, riunendo l’umanità in un corpo solo.

13. Io credo con piena fede che i morti torneranno a vivere, quando lo deciderà il Creatore, sia benedetto il suo nome.

Dopo la morte fisica, le anime si trasferiranno nel mondo a venire. Verso la conclusione dell’era messianica, Dio farà risorgere i morti: l’anima ritornerà nello stesso corpo a cui era appartenuta e da cui si era distaccata al momento della dipartita. Su questo argomento, Maimonide ha dedicato il Trattato sulla resurrezione dei morti.

(Testo rivisto dall’Autore)

 

 

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