ciclo di incontri - 27 Ottobre 1994
Quaderno n. 62
Corso di cultura ebraica (II° ciclo)
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Ebraismo e modernità

Mino Chamla
filosofo e studioso del pensiero ebraico - Milano
 

Occore fare qualche premessa e una precisazione.

Essendo il tema in questione alquanto vasto e impegnativo, quello che ho scelto è soltanto uno dei possibili percorsi. Si tratta -lo posso assicurare- di un percorso molto meditato, nel corso degli anni, intorno ad un ordine di pensieri su cui ho già fatto in tempo a tornare molte volte. E’ dunque, a tutt’oggi, e anzi oggi più che mai, per me, un percorso in fieri.

In secondo luogo, è chiaro come non si possa parlare, semplicemente, di “cultura ebraica nella modernità”, poiché significherebbe dover parlare di decine di cose molto diverse, percorrendo sentieri lontanissimi l’uno dall’altro. In questa sede, piuttosto che parlare di alcune figure dell’ebraismo moderno o del pensiero che lo rappresenta, verranno suggerite, semmai, delle figure di quell’ebraismo, non nel senso di “persone” o “personalità”, ma in quello di vere e proprie figure, cioè configurazioni della condizione ebraica moderna, pur sempre rimandando, naturalmente, qualora se ne presenti la necessità, a singoli pensatori e a quanti si siano resi protagonisti o abbiano elaborato, sotto qualsiasi forma, quelle configurazoni medesime.

Confido, tra l’altro, sul fatto che già qualche anno fa è stato tenuto in questa sede un corso intorno ai rapporti tra l’ebraismo e la cultura moderna, con successiva pubblicazione degli atti (cfr. AA.VV., La tradizione ebraica e la cultura dell’Occidente, “I quaderni della Porta” n. 1, Juvenilia, Bergamo 1990). In quell’occasione erano state appunto esaminate alcune figure di grandi pensatori ebrei contemporanei; pensatori che, guarda caso, sono sempre tutti, ebraicamente, molto problematici. Poiché una delle caratteristiche dell’ebraismo moderno è proprio quella di essere difficilmente circonscrivibile nell’ambito ebraico. Anche quanti negli ultimi due secoli, e più precisamente nell’ultimo, si sono definiti, per esempio, “filosofi ebrei”, rivendicando con orgoglio per sé tale identità e qualifica, non sono tuttavia, com’è evidente, “filosofi ebrei” nello stesso senso in cui lo fu, per esempio, Maimonide. Con l’età moderna è avvenuto un cambiamento di prospettive; è soprattutto cambiata, via via, la condizione ebraica nel mondo, rispetto ai parametri tradizionali. E, a ben vedere, è proprio questo a costituire problema. Ecco perché, a maggior ragione, preferiamo esaminare “situazioni” invece che il pensiero di qualcuno. In fondo, già nel precedente intervento si è considerato, con Spinoza, il prototipo degli intellettuali ebrei nell’età moderna. Ed era, da questo punto di vista, il più problematico di tutti, non solo perché era il più antagonistico e radicale.

La seconda questione preliminare va ben oltre l’orizzonte ebraico. Quando si parla di modernità si intendono moltissime cose diverse: bisogna, quindi, esemplificare caso per caso. Per gli Ebrei, poi, è tutto più complicato. Essi, infatti, -caso unico al mondo- vivono una doppia modernità, o, perlomeno, costituiscono il gruppo umano che più di altri mostra una certa, fatale consapevolezza di tale particolare dialettica. Vivono, cioè, la modernità degli altri, che ricade loro sempre addosso, nel bene come nel male. Ma vivono pur sempre il problema della loro modernità, quella che si sviluppa, se si sviluppa (vedremo poi meglio e più da vicino i termini della questione) dalla loro cultura e dalla loro tradizione. In realtà, è evidente come le due modernità non siano sempre distinguibili e districabili. E questo è ancora il problema di cui si accennava all’inizio. C’è sempre un intreccio, molto complesso, tra ciò che viene dall’ebraismo e ciò che invece agli Ebrei viene da fuori. L’interazione, certo, è continua e non può essere diversamente. Né particolarità e universalità stanno sempre, in questa dialettica ebraica interno/esterno, dove ci si aspetterebbe di trovarle.

Prendiamo quello che pare essere un principio o, almeno, un momento di svolta della modernità storica e politica, e senz’altro il principio formale -ma non per questo meno importante- della modernità ebraica, e cioè la Rivoluzione Francese  (d’ora in poi: R.F.). Come si sa, gli Ebrei ottengono con la R.F., per la prima volta in Europa (poiché in America gli Ebrei erano stati “cittadini come tutti gli altri”, all’atto stesso di fondazione della nazione americana), l’emancipazione, cioè la piena parificazione ed uguaglianza di diritti civili e politici con tutti gli altri cittadini.

Non va dimenticato, intanto, un piccolo particolare: con la R.F. gli Ebrei conquistano, con qualche non essenzialissimo ritardo, ciò che anche altri uomini conquistano veramente per la prima volta, vale a dire quei diritti che tutti i cittadini ottengono, precisamente in quanto cittadini, contemporaneamente. Tuttavia, anche prima della Grande Révolution, per esempio nell’Olanda del Seicento -proprio l’Olanda di Spinoza-, gli Ebrei avevano ottenuto di fatto un’emancipazione sostanziale, la libertà cioè di essere Ebrei e di non essere infastiditi in alcun modo per questo, di non essere discriminati e di poter svolgere (quasi) qualunque attività loro piacesse. Per inciso, nella stessa Francia pre-rivoluzionaria c’era un nucleo di Ebrei concentrato nella parte sud-occidentale del paese (per intenderci, intorno alla città di Bordeaux, proprio in quel dipartimento della Gironda che ha dato poi il nome ai Girondini), anch’essi provenienti dalla Diaspora marrana, che godevano di fatto degli stessi diritti dei loro omologhi nel resto della popolazione. Naturalmente, il ricco godeva di certi diritti e il povero non godeva di altri, ma, grosso modo, si trattava delle medesime prerogative, proprio perché questi Ebrei, che tutti, a partire dall’autorità pubblica, sapevano essere Ebrei, erano formalmente dei buoni cristiani. Grazie ad una sorta di finzione giuridica, ch’era pure un segreto di Pulcinella, vivevano in piena libertà: potevano andare in Sinagoga, praticare il commercio e i comandamenti. Si trattava insomma di un’emancipazione sostanziale, esattamente come quella di cui godevano, da più di un secolo, i loro confratelli olandesi. Emancipazione sostanziale, certo, quindi non formalmente riconosciuta. Ma tale differenza tra emancipazione sostanziale ed emancipazione formale non è, a sua volta, solo questione di forma, dal momento che implica una rilevante serie di “contenuti”. Già nel precedente intervento su Spinoza dicevo che ad Amsterdam, ed in generale in Olanda, gli Ebrei erano sì liberi, in un certo senso, e per le cose essenziali; ma non erano liberi, per esempio, di non essere Ebrei, o semplicemente di essere un po’ troppo eterodossi, scostandosi da ciò che ci si attendeva ragionevolmente da loro; non erano liberi di portarsi su posizioni intellettuali e religiose troppo radicali. In un certo senso (e neanche troppo paradossale) gli Ebrei erano liberi soltanto di essere Ebrei “normali”.

Ora, il problema essenziale che la R.F. pone, non soltanto agli Ebrei, è, in realtà, quello di una libertà di fare di se stessi ciò che si vuole (e lasciamo naturalmente da parte qualunque discussione sulle contraddizioni della Rivoluzione, da allora ad oggi). Non è un caso, in effetti, che, anche di recente, in ambienti intellettuali ebraici di alto livello, soprattutto in Francia, non sia mancato chi ha sostenuto che la R.F. è stata, per i suoi effetti a breve e a lungo termine, la più grande catastrofe della storia ebraica: il fatto di permettere agli Ebrei di allontanarsi dal Ghetto ha portato alla disfatta e alla distruzione del mondo tradizionale, di quella “dimora”, come l’ha definita uno di questi intellettuali, Shmuel Trigano, che gli Ebrei hanno troppo frettolosamente abbandonato per avventurarsi nel mondo. Gli Ebrei sono stati liberati, sono usciti dal Ghetto, sono divenuti, da solida e coesa comunità qual erano, “atomi individuali”, finendo così per perdersi. Il problema, che noi stiamo osservando sotto specie ebraica, riguarda in realtà tutti: si tratta della difficile libertà dei moderni, per cui, caduti tutti gli “ordini” tradizionali, ogni individuo “vale per se stesso”, è libero di fare di se stesso ciò che vuole, anche, per ipotesi, di trasformarsi in un non-più-ebreo, o, più spesso, in una persona che si è allontanata drasticamente dalla “casa” comune.

Diventa allora interessante ripercorrere alcune delle posizioni, sostenute in Europa anche prima della R.F., a favore dell’emancipazione degli Ebrei, alcune interne al mondo ebraico e alcune esterne.

La prima - già richiamata nel precedente incontro- è forse, dal punto di vista teorico, la più “avanzata”; essa è incarnata da Moses Mendelssohn (nonno di Felix Mendelssohn Bartholdi, musicista famoso per la sua Marcia Nuziale). Esponente dell’Illuminismo tedesco, oltre che caposcuola della Haskalah, l’Illuminismo ebraico, egli era impegnatissimo nel dibattito filosofico e politico intorno alla condizione degli Ebrei nei vari stati tedeschi dalla metà del Settecento  in poi. Mendelssohn aveva chiarissimo in mente quale fosse il percorso da seguire (si veda soprattutto il suo Jerusalem, o sul potere religioso e il giudaismo, del 1783): occorreva anzittutto sganciare completamente la causa religiosa, tutte le cause religiose, dalla causa del potere politico. Si trattava, quindi, da un lato di dichiarare e realizzare l’uguglianza politica di tutti i cittadini, e dunque anche degli Ebrei; e dall’altro di lasciare libertà di espressione alle religioni (e al dialogo, anche, fra le religioni), ma soprattutto allo sviluppo della vita religiosa dei diversi gruppi. Con, in più, quella peculiarità mendelssohniana per la quale il messaggio profondo dell’ebraismo doveva, necessariamente, sganciarsi da qualunque connesione col potere politico e da qualunque utilizzo di esso (Mendelssohn era fieramente contrario al principio stesso della scomunica), proprio per poter esplicare per intero la propria universalità spirituale, pur restando sempre un messaggio di cui gli Ebrei, e soltanto gli Ebrei, sono i legittimi depositari e “portatori”. Il discorso di Mendelssohn è chiarissimo. E forse proprio per questo egli è stato spesso frainteso e aspramente criticato (col più classico “senno di poi”) dagli Ebrei venuti dopo, ma soprattutto dai contemporanei. Sebbene non gli siano mai state negate le migliori intenzioni (si trattava pur sempre di un uomo pio dal punto di vista religioso, che non voleva assolutamente l’abrogazione o l’emenadazione della Legge, anche se aveva proposto delle piccolissime riforme pratiche) e sebbene sia poi diventato uno degli ispiratori del movimento ottocentesco di Riforma dell’ebraismo in Germania, tuttavia egli era molto restio a promuovere qualunque cambiamento nell’ambito della Halakah e della Tradizione. Ciononostante, gli si è di fatto rimproverata, per le conseguenze “dissolventi” che avrebbe avuto, la chiarissima distinzione tra religione e politica, una distinzione, per di più, che, nella consapevole prospettiva di Mendelssohn, non poteva che arrecare giovamento alla religione e alla spiritualità ebraica, oltre che agli Ebrei intesi come collettività con una “missione universale” da compiere.

Tra i non Ebrei (oltre al tedesco Christian Wilhelm Dohm, un vero e proprio “funzionario di Stato”, che era amico di Mendelssohn e che scrisse un famoso testo sulla Riforma politica degli Ebrei e della loro condizione, pubblicato nel 1782), risulta significativa la posizione dell’Abbé Grégoire, il più accanito sostenitore dell’emancipazione ebraica già nell’Assemblea Nazionale del 1789. L’Abbé Grégoire perorava la concessione di uguali diritti agli Ebrei, argomentando che, per quella via, essi si sarebbero pure emancipati dagli aspetti più antipatici, più “separatisti”, più arcaici che ancora  caratterizzavano la loro condizione nel mezzo della società “gentile”. Eppure egli si spingeva oltre, dicendo (cosa, a dir poco, straordinaria, anche dal punto di vista dell’apparente contraddizione): “Emancipiamo gli Ebrei, perché vedrete che, una volta emancipati, si convertiranno in massa al cristianesimo”. In un certo senso: una volta rimossa la loro costrizione ad essere quelle che sono, gli Ebrei arriveranno a comprendere che la verità e la vera bellezza dello spirito stanno da un’altra parte.

Si comprende come proprio gli intellettuali ebrei “revisionisti” e “contro-rivoluzionari”, di cui parlavo prima, abbiano visto nell’Abbé Grégoire quasi la personificazione di quell’intenzione malevola da parte del mondo esterno verso gli Ebrei che, in modo quasi fatale, avrebbe portato a fare dell’emancipazione il grimaldello definitivo, quello cioè più efficace, per l’eliminazione “finale” dell’ebraismo e del popolo ebraico. E invece, in un certo senso, Grégoire aveva capito, sia pure in modo un po’ troppo interessato, l’essenziale, vale a dire non il fatto che gli Ebrei dovessero convertirsi al cristianesimo, ma che l’emancipazione significava permettere loro di essere quello che volevano, fino a riportarsi o rapportarsi anche all’ebraismo in modi completamente diversi da quelli del passato, proprio in quanto liberi da costrizioni e da un senso dell’identità imposto dall’esterno (e introiettato dall’interno). Non a caso, già ai tempi della R.F. una buona parte dell’establishment delle comunità ebraiche, soprattutto l’establishment rabbinico, ma non solo, capì subito che l’emancipazione costituiva una messa in discussione radicale dei rapporti precedenti. Ci furono, per esempio, alcuni rabbini i quali chiesero alle autorità pubbliche di non dare agli Ebrei l’emancipazione, cioè la libertà, poiché sapevano che si trattava, né più né meno, della fine del mondo ebraico tradizionale com’era stato conosciuto sino ad allora, e sentivano distintamente il grande e “perturbante” pericolo ch’era nell’aria.

E’ importante comprendere questo nesso tra uscita dal Ghetto -evento simbolico e, spesso, molto concreto, perché fisicamente gli Ebrei uscirono dai Ghetti- e la difficile libertà dei moderni. Ma qui, a rendere peculiare il rapporto tra l’identità ebraica e la modernità, interviene un altro aspetto, cioè il fatto che quell’identità era sempre stata, per molti aspetti e facendo astrazione dai momenti meramente istituzionali, un’identità molto speciale, di tipo spirituale, che, sostanzialmente, nulla aveva a che fare né con un’appartenenza di tipo nazionale -comunque la si voglia intendere- né con il legame tra il popolo e il suo “buon Re” o “buon Signore”. Quella ebraica era, piuttosto, un’identità che esprimeva, come già aveva espresso in passato, un senso possibile della libertà dei moderni, cioè l’idea che si parta sempre da qualcosa (nel caso degli Ebrei la propria Tradizione e la propria Legge) per farne, attraverso di sé, qualcosa di nuovo e diverso, qualcosa di sempre individuale, nello spirito -per intenderci- di un “Dio vivente” che garantisca significato e “apertura dell’Essere” attraverso il popolo ebraico. Tutto ciò , naturalmente, non nel senso che il popolo ebraico sia il Dio vivente o anche solo privilegiato (eletto?) rispetto all’esperienza di Quello, ma, piuttosto, con l’idea forte di uno “Spirito” richiedente che ciascuno lo interpreti e lo arricchisca a modo suo, una volta chiaro che tutti devono osservare la Legge o comuque riconoscersi nella tradizione comune.

Credo che uno dei sensi più profondi attribuibili all’esperienza ebraica “di sempre” sia proprio questo: il fatto di avere una Legge comune, ma, a partire da quella Legge e da quella tradizione, prendere il volo -l’interpretazione, per intenderci- sul piano della vera (e niente affatto “spiritualistica”) spiritualità.

Ebbene, proprio su questo sfondo, gli Ebrei -come i contemporanei, da due secoli in qua, hanno capito molto bene- erano forse meglio attrezzati per affrontare la modernità, mentre ciò che accadde ben presto fu che la difficile libertà si rovesciasse nella ricerca di nuovi ancoraggi. Non è un caso, per esempio, se sia stato dopo la R.F., e non prima, che si è sviluppata la mostruosità del nazionalismo moderno, i miti del sangue, i miti del rapporto tra la terra e il popolo, di un popolo che appartiene ad una terra, laddove, nel mondo di “prima della Rivoluzione”, altri erano stati gli ideali e gli “ordini” della società e del mondo. Insomma, tutti sappiamo -questo è l’ABC del discorso sulla modernità- che il moderno è la libertà politica e la (possibile) democrazia e che, nello stesso tempo, il moderno è anche -forse non soprattutto, come taluni sostengono- Auschwitz. La modernità è la tensione tra, da un lato, un discorso di libertà universale in cui ognuno deve sperimentare fino in fondo la propria libertà di individuo o anche di gruppo (quando ci si identifica e ci si riconosce in idee condivise con altri); e, dall’altro, il bisogno di opporre a questa inquietante libertà, difficile, spesso inaffrontabile, qualcosa di molto solido che ci appartenga per sempre e che nessuno ci possa sottrarre (per esempio, appunto, il rapporto con una terra, il sangue, l’appartenenza a una razza superiore, l’appartenenza ad una Nazione).

E’ ragionevole sostenere (al di là di tante, famosissime, “teorie dell’antisemitismo”, come ad esempio quella di Hannah Arendt) che la molla comune a tutte le forme di antisemitismo della modernità, fino al culmine “razziale”, dal punto di vista teorico ancor prima che pratico, del nazismo, sia proprio questa: il riconoscere nell’Ebreo non il “completamente diverso”, ma semmai un altro, molto simile a te, che però possiede delle risorse, qualcosa con cui riesce ad affrontare gli stessi tuoi problemi in un modo diverso e più “vincente” del tuo, restando ben ancorato all’ebraismo o anche più o meno allontanandosene. E quando pure si allontana dall’ebraismo, almeno ai livelli più alti e significativi -poiché anche gli Ebrei hanno il diritto di essere talvolta persone con uno spirito piccolo piccolo e volto soltanto a vivere in pace la propria esistenza-, lo fa per volgersi verso direzioni e posizioni di rottura nella cultura, nella politica e in altri campi.

Si può e si deve molto dubitare del “pregiudizio positivo” che vuole gli Ebrei popolo “coltissimo”, in modo quasi connaturato, popolo che, com’è chiaro, appena glielo si lascia fare, offre il meglio di sé. In altre parole, anche il sottolineare troppo la partecipazione ebraica alla cultura alta e di “rottura” può essere pericoloso, oltre che semplicemente errato, per alcuni aspetti non marginali. Ma è indubbio che gli Ebrei hanno mostrato, nella storia degli ultimi secoli, una capacità di affrontare la modernità -la “buona” e liberatoria modernità- con uno spirito particolarmente “leggero”, molto aperto e disponibile, anche, volendoci avventurare su un terreno un po’ scabroso, dal punto di vista economico. In effetti, il fatto che -e si tratta di un caposaldo dell’immaginario antisemita!- l’Ebreo sia identificato nello stesso momento con il proletario rivoluzionario (o il borghese rivoluzionario: qui fa lo stesso), ma anche con il capitalista, può essere riportato al terrore di molti per la modernità e le sue modalità, anche quelle più discutibili; e potremmo discutere a lungo sull’accumulazione capitalistica, sui meccanismi del denaro o sulla “perversione” insita nel denaro. Certo, proprio il denaro è un bene “mobile” per eccellenza e qualcosa con cui gli Ebrei sembrano talvolta -e sottolineo il “sembrano”- avere lo stesso rapporto di libertà che intrattengono con la cultura, con lo “spirito”. E ciò, nell’immaginario antisemita, non può che risaltare.

In buona sostanza, quindi -e non è certo un discorso che si faccia qui per la prima volta- l’antisemitismo moderno non è affatto paura del diverso, come può essere il razzismo, in senso lato, ma è paura dell’eguale, di un eguale che, però, fa cose diverse da noi e che porta con sé probabilmente un passato, un presente e un futuro che ci inquietano, profondamente e in tutti i sensi, qualunque cosa faccia effettivamente l’Ebreo in “carne ed ossa”. E così arriviamo alle risposte, innumerevoli, che l’ebraismo ha cercato di dare a questi snodi dell’identità, propria e altrui, nell’epoca moderna.

Ne ho selezionate tre, quasi per caso, ma non del tutto, dal momento che, sia pure per motivi diversi, mi stanno a cuore tutte e tre.

1. Anzitutto, c’è la Riforma ebraica, di cui non starò a raccontare i contenuti. Si trattò, comunque, di cosa soprattutto tedesca, nella prima metà dell’Ottocento e nelle diverse realtà che caratterizzavano la Germania di allora. In seguito, il movimento si trasferì in America, per gettarvi le più solide e sostanziose radici. Ed infatti, a tutt’oggi, l’ebraismo statunitense è, per una buona metà, riformato, secondo direzioni plurime, dal momento che non c’è una sola Riforma. Forse in uno spirito analogo a quello del Protestantesimo, sono sorti quasi subito indirizzi anche molto diversi l’uno dall’altro. Tuttavia, se si va a vedere da vicino, si scopre, per esempio, che nell’Ottocento, accanto alla Riforma, si sviluppò subito una Neo-ortodossia, il cui padre riconosciuto fu un rabbino tedesco, Samson Raphael Hirsch; egli è anche, di fatto, il padre di tutto l’ebraismo “occidentale” -compreso, quindi, quello italiano- che sia rimasto, nell’ultimo secolo e mezzo, “ortodosso”, cioè non abbia accettato in nessun senso sostanziale le direttive della Riforma.

La massima aspirazione di Samson Raphael Hirsch -che si concretizzò anche in un’azione educativa sviluppatasi in Germania dalla metà del secolo scorso, per poi espandersi in tutto il mondo, seguendo appunto le vie del moderno “ebraismo occidentale”- fu quella di creare un Ebreo che, come egli lo definiva, fosse un Mensch-Israel, cioè un Uomo con la U maiuscola, che doveva essere anche Israele e che anzi, nel suo essere Israele, trovasse gli spunti fondamentali per il suo essere Uomo. E ancora, nell’idea di Hirsch, l’Ebreo doveva assommare dentro di sé le migliori qualità della tradizione ebraica (per Hirsch tutta la tradizione), insieme con i prodotti migliori, compresi quelli “moderni”, dell’umanità senza aggettivi. E non a caso, anche Hirsch e la Neo-ortodossia tedesca ebbero come precursore riconosciuto Moses Mendelssohn, allo stesso modo dei Riformati. Il problema quindi cui, da subito, tutti, indistintamente, cercano di far fronte, è quello di coniugare ebraismo e universalità, appartenenza e identità ebraica e, al tempo stesso, apertura al mondo, disponibilità, per esempio, ad attingere dalla cultura mondana, senza preclusioni. Non a caso, come già accennato -e si tratta di un particolare storico di grandissima rilevanza-, quelle scuole, di cui Hirsch diede il primo esempio, sono poi sostanzialmente le scuole ebraiche, sia pure non “riformate”, che si sono create un po’ dappertutto nel secolo successivo e che hanno dovuto affrontare sempre più il problema di mettere insieme, da un lato, l’ebraismo pienamente vissuto e, dall’altro, l’appartenenza al mondo, l’universalità. Per esempio, e senza voler abbassare in nulla il livello del discorso con questioni, all’apparenza molto terra-terra, di politica scolastica o poco più: come si fa a far studiare a dei ragazzini tutta la tradizione ebraica, o almeno qualcuna delle sue basi fondamentali, come fa normalmente una scuola ebraica, e nello stesso tempo tutta la cultura, per così dire, “profana”? Si tratta di una questione rilevante, che all’inizio sembrava non doversi porre, ma che oggi emerge sempre di più in primo piano.

Già la Riforma aveva mostrato quante ambiguità e difficoltà implicasse il rapporto degli Ebrei con la modernità. Essa, infatti, fu anche, per una sua parte essenziale, un tentativo di adeguarsi a ciò che facevano gli altri e che sembrava, appunto, “moderno” o, comumque, auspicabile e “normalizzante”. Un esempio tra tutti. Gli Ebrei potevano vedere i loro concittadini cristiani -spesso, non bisogna scordarlo, protestanti- recarsi nelle chiese tedesche, trovarvi una forte concentrazione spirituale e vivere molto dignitosamente un certo tipo di religiosità. Gli Ebrei, invece, nella sinagoga, tradizionalmente, vivevano e basta. Ne deriva che l’esperienza più comune (e lo è ancora, per fortuna) era di entrare in una sinagoga e sentire la gente chiaccherare e i bambini vociare rumorosamente. La sinagoga è vista come una “casa di Dio”, non solo nel senso di un luogo di eccelsa spiritualità, ma come luogo in cui, più che altrove, nella prospettiva umana, aleggia una certa presenza; poi però si è nella sinagoga come si è fuori. E allora ci fu nella Riforma questa volontà di adeguare il rito ebraico, almeno un poco, a quelle forme esteriori, che erano viste pure come un segno di modernità, qualcosa di così auspicabile ed apprezzabile da riprodurne senz’altro l’eguale.

Tuttavia, in rapporto a questa tendenza imitativa dell’esterno, i problemi, da subito, non mancarono. E, non a caso, le spaccature all’interno del movimento riformato avvennero su questioni come l’uso della lingua ebraica. Quando si cominciò a tradurre le preghiere e, in genere, il rituale liturgico nella “lingua del popolo”, si giustificò la cosa dicendo che, in realtà -ed era vero-, sin dai tempi antichi si era letta nel Tempio la Bibbia in aramaico e che, in fondo, il Talmud aveva detto con chiarezza che si può e anzi si deve usare la lingua del posto se serve a farsi capire dal popolo (ebraico, beninteso). Ebraicamente e tradizionalmente, quindi, non si trattava di una frattura irreparabile; e tuttavia, com’è chiaro, ciò che era sempre apparso come un elemento fortissimo di unione, anche quando non si capivano più le preghiere che si pronunciavano, non poteva essere eliminato da un giorno all’altro. E molti avvertivano il pericolo che era implicito nel mettersi a pregare in tedesco, in inglese, in francese o in italiano, con ormai più soltanto un vaghissimo sentore della “lingua santa”.

Esisteva dunque nella Riforma una forte tendenza ad “adeguarsi al mondo”, che suscitava però fiere opposizioni. Ma le questioni sollevate dai riformisti erano quelle stesse che l’ebraismo doveva porsi, prima o poi, a partire da stesso e dall’interno. Una di queste, forse la più rilevante, era quella relativa al ruolo della donna, questione tra le più discusse e anche, almeno dal punto di vista di chi scrive, più dolenti, nell’ambito dell’ebraismo: non subito, infatti, e quasi più nel nostro secolo che in quello precedente, prima in alcuni indirizzi riformati, poi via via negli altri gruppi  e infine adesso in quella grande realtà, tipicamente americana (ma non solo), a mezza via tra Riforma e Ortodossia, dei Conservative, la Riforma ha portato alla figura della donna-rabbino. Il problema tuttavia rimane aperto. E si tratta di uno di quei tipici problemi che potevano e dovevano essere posti senza bisogno di vedere ciò che succedeva nel mondo esterno, pur restando ben saldi all’interno della tradizione. E infatti ci sono già oggi degli ortodossi (molto pochi, per la verità) per i quali si arriverà, un giorno, probabilmente e com’è nelle cose e anche nella giustizia divina, al rabbino-donna, anche se, per arrivarci, bisognerà fare un certo percorso all’interno dell’ebraismo, richiamandosi alla tradizione e lavorando finemente di interpretazione.

Esiste quindi, senza dubbio, una dialettica del dentro e del fuori, anche a livello religioso, o meglio a livello più eminentemente religioso; si tratta di una dialettica aperta, in cui le due modernità, quella ebraica e quella “esterna”, vengono a continuo e diretto confronto.

2. Una seconda tipica risposta moderna, forse la più tipica, è il sionismo, da cui non è lontanissimo, per ciò che ci interessa qui, il bundismo. Nel 1897 viene fondato a Vilna il Bund, in pratica il partito operaio e socialista degli Ebrei. E’ importante sottolineare che il Bund, in sostanza, predicava un’identità e una vita nazionale degli Ebrei (che, per esempio, potevano e dovevano utilizzare la loro lingua, per i bundisti più l’yiddish che l’ebraico) nei luoghi in cui già vivevano, mentre dovevano nel contempo solidarizzare e lottare con gli altri operai e “dannati della terra”. Tant’è che qualcuno (forse persino Lenin) definì i bundisti dei “sionisti con il mal di mare”, nel senso che non volevano andarsene da qualche altra parte, attraversando il mare, ma rimanere lì a “fare” l’identità ebraica “separata”. I bundisti, in realtà, non aspiravano affatto ad una identità ebraica separata, ma volevano che l’identità ebraica restasse abbastanza separata da sopravvivere in quanto tale, in quanto, appunto, “identità degli Ebrei” (un’identità “laica”, tra l’altro, e quasi in nulla più “religiosa”).

Per molti aspetti, il sionismo (e si parla qui del sionismo politico, moderno, laddove esiste anche un sionismo religioso, con tutta una serie di questioni che non si possono analizzare in questa sede) significa, nella sua essenza, una volontà di “normalizzare” la condizione ebraica, attraverso la vita nazionale in uno Stato proprio, con proprie leggi, con piena disponibilità e responsabilità di sé, e poco altro di più. Tant’è vero che un personaggio molto importante della vita israeliana ed ebraica di questo secolo, morto nell’estate 1994, Yeshajahu Leibowitz, un grande filosofo, uomo di fede e di scienza, nonché “semplicemente” studioso di cose ebraiche, ha dichirato una volta -e si tratta a mio parere di una definizione molto condivisibile, dal punto di vista del vissuto ebraico, oltreché massimamente calzante con la realtà- che il sionismo è riassumibile in questa formula: eravamo stufi di essere governati e diretti dai goìm (i non-Ebrei). Dopodiché questa etero-dipendenza poteva addirittura volgersi in ciò in cui si è volta, soprattutto nel nostro secolo, e cioè l’essere alla mercé di chi voglia sterminare gli Ebrei. Ma, più in generale, si trattava semplicemente di porre una condizione iniziale, nulla più che un “nuovo inizio” imperiosamente richiesto dalla storia e dall’esperienza ebraica. Lo stesso Leibowitz, una volta nato lo Stato, si battè tutta la vita, in modo peraltro molto originale, per gli obiettivi della sinistra israeliana; egli è anche colui che nel 1967 disse, per primo, dopo la conquista dei territori: molliamo subito questi territori, ridiamoli indietro, perché ci faranno perdere la nostra anima! Per Leibowitz, infatti, lo Stato di Israele era solo una condizione e non un fine in sé; anzi, per lui lo Stato come fine in sé, con gli annessi e i connessi della sua “eticizzazione” e militarizzazione, non può essere altro che manifestazione di fascismo. L’Ebraismo era un’altra cosa e doveva riacquistare i suoi diritti nella vita degli Ebrei all’interno dello Stato -al di là o al di qua della cornice “nazionale”-, una volta superata l’eccezionalità originaria, quella appunto che aveva spinto a “conquistarsi” lo Stato e destinata poi a venire meno. In altre parole: o Israele sarebbe stato democratico o non sarebbe nato.

Nel sionismo, d’altro canto, non si esprime solo una rinuncia all’identità ebraica tradizionale o almeno una sorta di sua sterilizzazione, bensì anche la consapevolezza, da parte ebraica, che la politica è una cosa importante, che ci si possono dare le condizioni per esercitare una vita politica collettiva da posizioni, almeno inizialmente e una volta tanto, “vantaggiose per noi”. Ma soprattutto il sionismo e Israele significano nuove dimensioni culturali e spirituali dell’identità. Un solo esempio: quanto può essere sconvolgente e gravido di conseguenze tornare ad utilizzare la lingua ebraica, scriverci dei libri che non siano più quelli “santi” della tradizione ed elaborare tutta una cultura in una lingua ebraica “moderna”? E’ per questo e in tale senso -ma il discorso è ovviamente più complesso- che un certo tipo di antisionismo radicale, affermatosi in Europa e anche in Italia nei decenni scorsi, si presenta, per un aspetto essenziale, come una forma, appena aggiornata e mascherata, di antisemitismo. E infatti quell’antisionismo, ricondotto alle sue motivazioni ultime, è il rifiuto opposto agli Ebrei, e soltanto -chissà perché?- agli Ebrei, di vivere in una certa condizione, la condizione politica, appunto, ma anche una nuova condizione “spirituale” da cui far derivare sviluppi vitali, e necessari, della loro plurimillenaria identità.

Beninteso, l’identità israeliana ha aspetti che riguardano tutta l’identità ebraica. Quando, per esempio, David Grossman scrive libri in ebraico, la cosa riguarda anche me, dal momento che l’utilizzo della lingua ebraica, avendo a che fare con lo sviluppo dell’ebraismo, mi interessa e mi coinvolge. A riguardarmi, naturalmente, sono anche i rapporti di Grossman con i palestinesi o i rapporti politici all’interno dello Stato, pur essendo chiaro che si tratta di problematiche riguardanti più specificamente i cittadini israeliani. Ci sono anche, quindi, delle cose, attinenti alla politica, che riguardano Israele e la sua vita di nazione più o meno “come le altre”. Qui si vuole soltanto suggerire come il sionismo rappresenti, insieme, e qualche volta non senza contraddizioni, normalizzazione e sviluppo vitale nella e della identità ebraica.

3. C’è infine la risposta, o le risposte, della modernità. Ho detto all’inizio che non mi sarei occupato di singoli pensatori. Ma posso limitarmi a ricordare come uno dei temi portanti del pensiero ebraico nell’ultimo secolo sia stato quello che si potrebbe definire la missione ebraica nel mondo. Se si prendono autori anche diversi fra loro (per limitarci a quattro: Elia Benamozegh; Hermann Cohen; Leo Baeck, un grande rabbino tedesco della prima metà del secolo; Franz Rosenzweig), troviamo sempre un elemento comune (soprattutto a Benamozegh, Baeck e Rosenzweig): il cercare di definire i rapporti tra ebraismo e cristianesimo, ma anche tra ebraismo e Islam, o tra ebraismo e sistemi ideali e di pensiero di ogni natura, genere e provenienza, ponendosi sempre, sullo sfondo, il problema del rapporto tra gli Ebrei e gli altri, e dunque del ruolo degli Ebrei nella vita del mondo, nella storia del mondo e dell’umanità. Questo è il tema che accomuna, sia pur con accenti diversi, questi pensatori. E se andiamo a scavare, troveremo che spesso il pensatore ebreo -come quello che, in generale e comunque, si vuole tenere collegato in qualche modo alla tradizione- cerca di “pensare” quel rapporto e quel ruolo. A questo punto, nel momento in cui la condizione, diciamo così, politica e quotidiana dell’Ebreo viene a coincidere, per una sua parte essenziale, con la condizione di tutti gli altri, la domanda che ci si può porre è: ma allora che ne è più dell’ebraismo? che senso ha avuto mantenere sino ad ora tutto questo? E ciò soprattutto se si considera che noi, sostanzialmente -ed è giusto che sia così, come tutti questi autori riconoscevano-, dobbiamo vivere la stessa vita degli altri, a livello politico, a livello di diritti e doveri, a livello di vita associata; e, potremmo aggiungere, la dovremmo vivere ipoteticamente anche  in uno Stato ebraico, uno Stato come tutti gli altri e naturalmente democratico, anche se magari non più democratico degli altri Stati, come spesso, da parte dei non -Ebrei, si è preteso.

Insomma, per ripetere la domanda fondamentale: che ne deve essere, oggi, dell’ebraismo? Se gli Ebrei “in carne ed ossa” condividono con tutti gli altri tanta parte della vita “di tutti i giorni”, e anche di quella “ideale” (basti pensare al “cielo della politica”), ci dobbiamo chiedere quale sia il senso dell’ebraismo nel mondo moderno; o quello che ha sempre avuto, nella storia dell’umanità. Tale domanda, già posta con forza dai personaggi sopra nominati (e da molti altri ancora) i quali vi hanno dato risposte certo non timide o reticenti, acquista, dopo Auschwitz, un nuovo spessore e una risonanza, almeno per noi, a dir poco esplosiva. (E il nostro sostanziale silenzio sulla Shoah, in questa occasione, significa molte cose diverse, la cui interpretazione lasciamo volentieri al lettore).

Avviandomi alla conclusione, vorrei tornare su un tema già sfiorato a proposito di Spinoza, un tema che mi è molto caro e che è stato riproposto anche da tutte le considerazioni svolte sopra, come da altre che avrei potuto svolgere (restando sempre, peraltro, nell’ambito di una scandalosa parzialità!): il problema fondamentale dell’identità ebraica, nella modernità, è quello della secolarizzazione. Come avviene e in cosa consiste, nel mondo ebraico, la secolarizzazione? e proprio per ciò che il mondo ebraico presenta di specifico?

Già via Spinoza ho suggerito scientemente l’idea che il rapporto tra tradizione e modernità non possa essere rappresentato, nell’ebraismo, sotto la specie di una netta frattura. Ma il punto è che, come pure accennavo a proposito di Mendelsshon, non è solo la politica a doversi emancipare dalla religione, bensì anche la religione dalla politica. La modernità, per l’ebraismo, potrebbe anche avere il significato radicale di porre in modo nuovo, e singolarmente trasparente -che però si deve ricollegare, per avere tutto il suo senso, con tutta la discussione tradizionale-, il problema della destinazione spirituale degli Ebrei, o di chi, per una ragione o per l’altra, abbia a cuore l’ebraismo. Chiaramente poi ognuno è libero di allontanarsi e di non occuparsi più di questo, pensando soltanto alla propria vita e mettendoci una pietra sopra. C’è gente, però, ed è sempre più numerosa, che se ne preoccupa. Una cosa straordinaria dell’ebraismo, infatti, e lo si vede in questi anni, è che, da un lato, sempre più persone tornano alla religione, o, meglio, all’osservanza dei precetti. E c’è proprio una parola ad esprimere questo, teshuvà, “ritorno”, ma anche “pentimento” (nel senso ebraico, che poco a che fare con quello cristiano). Ma, d’altro lato,  c’è sempre più gente che si interroga comunque sull’ebraismo, sul senso di tale condizione, su quella che è l’eredità che la storia ci ha lasciato, l’eredità spirituale, si intende, e non quella politica, che in un certo senso non abbiamo e che è comunque poco diversa da quella di tutti gli altri. E, probabilmente, secolarizzazione significa anche che, idealmente e “di fatto”, come la tradizione appunto insegna, noi torniamo sotto il Monte Sinai e non riformuliamo il patto, ma forse per la prima volta lo viviamo senza costrizioni e con una piena libertà, che lo rivivifica dall’interno. Il risultato non lo so. Oso pensare che, per ottenere questo risultato, qualunque esso sia, siano stato necessari proprio quegli sviamenti e quelle perdite -e non alludo in nessun modo allo sterminio- che hanno caratterizzato l’ebraismo moderno, e che tutto sia in qualche modo connesso al fatto che molti abbiano scelto di non essere più integralmente ebrei o di allontanarsi di molto dall’ebraismo.

Ricollegandoci all’oggi, si ha spesso l’impressione che i nuovi/vecchi potenti, in Italia e altrove, offrano agli Ebrei, come a tutti gli altri, proprio ciò che gli Ebrei, o almeno la parte più cosciente di loro, non vogliono più, e cioè soltanto la libertà di essere “corporativamente” Ebrei, gruppo tra i gruppi, con un’identità tutta giocata al ribasso e ripiegata su se stessa. E’ invece la libertà di “perturbare” se stessi e gli altri, così tipica dell’ebraismo di oggi e di sempre, che va difesa, ogni giorno di più, con le unghie e con i denti.

(testo redatto dall’Autore)

 

 

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