ciclo di incontri - 27 Ottobre 1994
Quaderno n. 62
Corso di cultura ebraica (II° ciclo)
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Spinoza tra influenze cabalistiche e razionalità moderna

Mino Chamla
filosofo e studioso del pensiero ebraico - Milano
 

Alcune premesse. In primo luogo, per affrontare l’argomento in questione, sono costretto a dare per scontata una vaga conoscenza del filosofo, visto che non posso impiegare metà dello spazio -a voler essere ottimisti- per illustrare il sistema filosofico di Spinoza.

In secondo luogo, è bene sottolineare subito la problematicità dell’argomento stesso: Spinoza e l’ebraismo. Non si può dire, infatti, che Spinoza appartenga a questa tradizione come, per esempio, vi appartengono a giusto titolo da un lato Maimonide (l’apoteosi del pensiero ebraico che si fa anche filosofia) e dall’altro lato il Chassidismo, cioè il movimento mistico per eccellenza e quello sviluppatosi più di recente nel tempo. Spinoza, invece, intrattiene con l’ebraismo un rapporto peculiare. A lui, tra l’altro, non avrebbe probabilmente fatto piacere essere trattato come un filosofo “ebreo”; proprio perché egli fu un pensatore dell’universalità come pochi altri, certo non avrebbe potuto ritenere che quell’universalità potesse essere rinchiusa entro il ristretto quadro culturale ed esistenziale ebraico del suo tempo. Di fatto, Spinoza si staccò dall’ebraismo volontariamente, oltreché per l’esserne “scacciato”. E, vista la grandezza dei suoi intenti, dobbiamo pensare che quel distacco, almeno soggettivamente, dovette servire, come molte altre cose, al suo pensiero e al significato del suo pensiero.

Un’ultima cosa. Siccome so per eseprienza che, quando si parla, in generale, di “Spinoza e l’ebraismo”, si potrebbe andare in molte direzioni diverse, mentre in realtà se ne deve privilegiare qualcuna, può darsi che sembrino saltare dei passaggi, i quali per chi scrive ci sono, ma che mancano per chi ascolta o legge per la prima volta.

Per cominciare si può esporre sinteticamente quale sia il contenzioso o almeno quali siano alcuni aspetti del problema.

Innanzitutto, com’è noto, Spinoza è stato scomunicato dalla sua comunità ebraica d’origine, quella di Amsterdam, nel 1656, all’età di ventiquattro anni. Egli non aveva scritto nulla ed è difficile, quindi, immaginare che il suo pensiero avesse già varcato i confini del piccolo mondo ebraico o anche di altri piccoli mondi che, a loro volta, confinavano e comunicavano con quello ebraico. Insomma, Spinoza nel 1656 non è ancora Spinoza. Tuttavia viene scomunicato. E gli studiosi ancora si interrogano e sono ancora ben lontani dal dare una risposta univoca e definitiva sul perché sia stato scomunicato, su quali possano essere state le ragioni, o il “complesso molto complesso” di ragioni per le quali Spinoza è stato scomunicato. Se ci atteniamo al testo del bando di scomunica (che peraltro era probabilmente una sorta di testo standard, perlomeno nella parte della condanna e delle maledizioni che venivano lanciate sullo scomunicato), possiamo immaginarci che il comportamento pratico di Spinoza, e anche le idee professate a parole, differivano molto dall’ortodossia o, per meglio dire -visto che all’ebraismo il concetto di ortodossia è abbastanza estraneo-, dall’ortoprassia, cioè il comportamento dei buoni ebrei di Amsterdam in quel tempo. Già su questo punto si potrebbe fare una digressione grande come una casa, che però si preferisce non iniziare neppure, salvo ricordare che già la collocazione storica “ebraica” di Spinoza costituisce un problema. Nel Seicento, la comunità ebraica, nata da mezzo secolo, non era una comunità “normale”, dal momento che proveniva dalla Diaspora “marrana”. Essendo una comunità di Ebrei “portoghesi”, essa aveva delle peculiarità molto forti, per effetto delle quali non può certo essere assunta come una comunità ebraica standard, neppure rispetto a quel tempo.

D’altra parte, va assolutamente detto che la scomunica, soprattutto quella di Spinoza, ha assunto nella storia un significato, data la statura del personaggio, che forse per i contemporanei non aveva. E si sa, per esempio, che in quella comunità la scomunica, o i vari gradi di scomunica, venivano applicati con una certa larghezza e facilità, a volte per realti davvero infimi, all’interno della vita comunitaria, e venivano poi revocati con altrettanta facilità.

E’ proprio questo a farci pensare che la scomunica rimasta valida su Spinoza stia ad indicare una precisa volontà, da parte del filosofo, di staccarsi dalla comunità e di non cercare e trovare una qualche forma di conciliazione e di compromesso. Anche un evento come quello della scomunica di Spinoza, che ha assunto, nella storia ebraica e non, dei significati straordinari e quasi “epocali”, in realtà dovrebbe essere letto e indagato nel contesto del tempo. Per dare soltanto un esempio, si sostiene, da parte di alcuni studiosi, che gli Ebrei di Amsterdam, e in particolare il Consiglio della Comunità, decisero questa scomunica perché c’erano, a consigliare di comminarla, delle precise ragioni politiche: il fatto cioè che le autorità di Amsterdam, autorità protestanti e anti-spagnole che avevano accolto gli Ebrei con una certa benevolenza (anche i Paesi Bassi, le cosiddette Provincie Unite, erano nati da poco, dalla rivoluzione nazionale contro la Spagna), avrebbero potuto trovare particolarmente disdicevole che tra gli Ebrei ci fosse chi professasse idee che potevano essere scambiate per ateismo o comunque critica radicale alla religione. Si tratta dunque di ragioni di politica comunitaria “quotidiana”. Altri dicono che Spinoza sia stato scomunicato perché in quel momento il rabbino che lo proteggeva maggiormente e che era stato suo maestro, Menasseh ben Israel, non era ad Amsterdam, perché a Londra a tentare di convincere Oliver Cromwell a riammettere gli Ebrei in Inghilterra (dalla riammissione degli Ebrei in Inghilterra, dopo che da alcune secoli ne erano stati, ufficialmente, espulsi, sarebbe dipesa, probabilmente, secondo concezioni tanto ebraiche quanto protestanti del tempo, l’accelerazione dell’età messianica). In realtà, dunque, anche già solo su un episodio che sembra quasi aureolarsi di leggenda e di assolutezza, si potrebbe discutere e lavorare di interpretazione, senza arrivare a nessuna certezza definitiva.

Andando oltre l’episodio della scomunica, e per trovare sostanziosi contenuti dello scontro tra Spinoza e l’ebraismo, è alle espressioni del pensiero spinoziano, com’è naturale, che ci si deve rivolgere.

Spinoza, sia perché morto ancora piuttosto giovane sia per ragioni più sostanziali, non è stato un autore molto prolifico, pur avendo lasciato due opere fondamentali, il Trattato teologico-politico del 1670, che tra l’altro uscì anonimo, e l’Etica, cioè, per così dire, il suo “sistema”, (anche se, probabilmente, è sbagliatissimo parlare di sistema filosofico nel caso di Spinoza). L’Etica è davvero la filosofia spinoziana nella sua forma più matura e compiuta: venne pubblicata nel 1677, qualche mese dopo la morte del filosofo, in un volume di Opere postume curato dagli amici di Spinoza. Queste due opere ci indicano due direzioni fondamentali lungo le quali possiamo già ravvisare importanti punti di contrasto, o comunque di confronto, tra Spinoza e l’ebraismo.

Nel Teologico-politico il discorso di Spinoza è rivolto a temi molto più universali, anche se risulta molto presente la polemica contro aspetti piuttosto consistenti della tradizione ebraica. Il Trattato teologico-politico aveva diversi obiettivi dichiarati, sin dal sottotitolo e poi anche lungo tutto il corso dell’opera, dalla prefazione all’intestazione e al contenuto dell’ultimo capitolo. Si tratta, insomma, di un’opera largamente programmatica in cui è difficile fraintendere ciò che Spinoza vi vuole sostenere. Sostanzialmente, si vogliono separare nettamente le sorti del teologico -in senso stretto- da quelle del politico. In altre parole, l’autorità politica dev’essere altra cosa da quella religiosa; qualora debba esserci un rapporto di dipendenza e di utilità, quel rapporto deve essere invertito rispetto a ciò che si argomenta abitualmente, in quanto è lo spirito religioso che deve servire la concordia politica, la concordia della civitas, e non viceversa. In più, Spinoza vuole che ai filosofi, o a chi sia in grado veramente di ragionare sulle cose, sia assicurata la piena libertà di pensiero, senza che i teologi di ogni ordine e grado, o altri in nome dei teologi, pensino di poter reprime o, addirittura, sopprimere quella libertà.

Tutte le tematiche del testo ruotano attorno a quella tematica centrale, dichiarata già fra titolo e sottotitolo: Trattato teologico-politico, comprendente alcune dissertazioni nelle quali si dimostra che non solo la libertà del filosofare può essere ammessa senza pregiudizio per il sentimento religioso e per la pace civile, ma che anzi essa non può essere soppressa se non con la rovina della pace civile e dello stesso sentimento religioso.

Spinoza, nel Trattato teologico-politico, polemizza in modo molto acceso contro tutte le pretese teocratiche di ogni tempo, e in particolare contro quelle della tradizione ebraica (che egli conosceva bene per esserci stato educato). E dedica infatti parecchi capitoli a una critica molto corrosiva delle arroganze autoritarie, ai suoi occhi, di  “Sacerdoti” ebrei, in senso lato, rabbini e Farisei -come spesso lui li chiama, riprendendo un classico termine negativo dall’ambiente e dalla tradizione cristiani che lo circondavano-, sebbene, in realtà, questa polemica antifarisaica non sia lineare e ci siano anche dei momenti di segno e di senso contrario.

Comunque, il discorso di Spinoza contro la tradizione ebraica è, a tratti, davvero molto duro, volto soprattutto a dimostrare, sia nei confronti dell’ebraimo e della tradizione cattolica, ma anche di corposi settori, non troppo apertamente nominati, delle nuove ortodossie protestanti, come il problema di fondo sia che l’interpretazione della Scrittura non possa essere abbandonata all’autorità dei preti e dei sacerdoti. Laddove la Scrittura (e per lui la Scrittura è tanto quella ebraica quanto quella cristiana, cioè Antico e Nuovo Testamento, Tanakh e “buona novella”) non è un testo di metafisica da cui si possano trarre nozioni vere e definitive sulla natura di Dio o sui rapporti tra Dio e il mondo o conoscenze sulla e della Natura, ma è soprattutto un grande codice morale che insegna verità semplicissime, e perciò alla portata di tutti, e che appunto in queste verità semplicissime ha il suo contenuto fondamentale che la attraversa da un capo all’altro. Da qui la concezione della “interpretazione della Scrittura attraverso la Scrittura”. Spinoza, cioè, attraverso un procedimento molto ben argomentato nel corso dei capitoli -e che bisognerebbe vedere da vicino “in azione”- sostiene, che, se se ne vuole davvero intendere gli insegnamenti, non si deve “uscire” dalla Scrittura, attribuendole magari intenzioni che non sono le sue, ma bisogna invece restare nella Scrittura e interpretarla secondo le sue proprie intenzioni costantemente ribadite. E così, incidentalmente, Spinoza, col Trattato teologico-politico, è da considerarsi anche come uno dei fondatori della moderna critica biblica, nella misura in cui fornisce direttive precise, storico-filologico-scientifiche, come le intendiamo noi oggi, su come si debba fare interpretazione della Scrittura attraverso la Scrittura.

La polemica contro alcuni aspetti, non secondari, della tradizione ebraica raggiunge forse il suo acme nel terzo capitolo, molto famoso, del Trattato, dedicato al tema dell’elezione degli Ebrei, in cui Spinoza sostiene che, se elezione c’è stata, è stata un’elezione “naturale”, un’elezione umanamente “politica”: per un certo tempo gli Ebrei hanno goduto, in una determinata terra, di una certa fortuna politica, come la definisce lui, la quale ha fatto sì che il popolo ebraico potesse vivere stabilmente in una terra, stabilire delle buone (per la collettività e il benessere pubblico) istituzioni, ecc. In particolare, Spinoza mostra, in alcuni dei “penultimi” capitoli del Trattato, come la teocrazia “mosaica” non fosse affatto, in sé, disprezzabile, e che anzi Mosè era stato un ottimo “capo di Stato”, un ottimo politico e legislatore, che aveva trovato il modo di dare una legge giusta, capace di tenere uniti e solidali tra di loro i cittadini, a un popolo dell’antichità rozzo e appena uscito dallo stato di schiavitù, un popolo che, dal punto di vista politico, veniva veramente “dal nulla”. In parole povere: di elezione divina non si può e non si deve parlare, né per gli Ebrei né per nessun altro popolo. Anche se nel Teologico-politico si parla di azione divina, è sin troppo trasparente come si tratti già del “Dio di Spinoza”, e quindi non di un Dio personale e trascendente, ma di un Dio che è, piuttosto, la forza produttiva intrinseca dell’Essere, per come si manifesta nel mondo degli uomini -e qui si aprirebbero altri problemi perché certo il Trattato teologico-politico, come sostenuto, tra gli altri, da Leo Strauss, è certo un testo, almeno parzialmente, “in codice”, nient’affatto esplicito, in tal senso, come sarà invece l’Etica.

Gli Ebrei, insomma, non svolgono un ruolo peculiare nella storia del mondo. La loro storia particolare può certo insegnare qualcosa -e Spinoza per primo si ispira alla narrazione biblica per attingerne esempi, anche positivi, di come dovrebbero andare le cose dei popoli; o anche, in negativo, quando dice che l’antica teocrazia mosaica è andata in pezzi, con effetti storici devastanti per il popolo ebraico, nel momento in cui i Sacerdoti hanno cominciato a pretendere un’assoluta autorità dogmatica (in materia, magari, di come doveva essere intesa la natura di Dio, o simili), e un assoluto potere anche politico, cercando di far prevalere le proprie intenzioni su quelle altrui; nel momento in cui, dunque, c’è stato scontro tra i vari gruppi sacerdotali per ottenere un pieno potere che, da teologico, si faceva naturaliter, appunto, teologico-politico.

Spinoza, quindi, fa chiaramente una lettura di tipo naturalistico-storico della storia ebraica. E certamente la fa con uno sguardo che, almeno nelle intenzioni, vuole essere esterno a quella storia, anche se, com’è probabile, da un punto di vista emotivo, quello sguardo non era esterno per niente. Si tramanda anzi che, già al momento della scomunica, Spinoza avrebbe scritto un’opera in spagnolo, di cui però non abbiamo alcuna traccia all’infuori di qualche cenno in altri autori, ch’era un’Apologia para justificarse de su abdicacion de la Synagoga. E si dice che nel Trattato teologico-politico, quattordici anni dopo, si ritrovino, rifusi, pezzi di quest’opera giovanile molto acre contro i “Farisei” del suo tempo, insomma contro i teocrati ebrei.

Spinoza si “chiama fuori” dal popolo ebraico e non accetta la “tradizione”, soprattutto il significato che alla tradizione era stato dato, così come non accetta l’autorevolezza, anche oltre la legge pratica, che alla tradizione è stata attribuita, nello studio della Bibbia prima di tutto. E infatti diversi critici ebrei “moderni” di Spinoza (ne cito uno solo, molto famoso: E. Lévinas) parlano del “tradimento di Spinoza”, un tradimento pratico, prima ancora che teorico. Non si parla di concezioni e di idee (tipo l’immanenza di Dio nelle cose, che riprenderemo tra poco), bensì del fatto che Spinoza sia arrivato addirittura a civettare, in modo aperto, con una certa immagine di Cristo -poiché c’è anche il “Cristo di Spinoza”, che in realtà non è un Cristo “cristiano”, bensì un modello sia del “saggio”, come lo concepisce Spinoza stesso, sia di colui che viene a portare un messaggio per gli ignoranti, un buon messaggio religioso e conciliatorio che può essere utile alla polis per indurre e mantenere la pietas, nel senso lato del termine, tra i cittadini e all’interno dello Stato.

L’altra via di contrasto, com’è intuibile, deriva dalla concezione filosofica stessa di Spinoza, dalla sua, ci si passi il termine, onto-teologia profonda; sostanzialmente dall’idea base dell’identificazione tra l’Essere, tutto l’Essere infinito (poiché di questo si tratta), insomma la Sostanza di Spinoza, con Dio e la Natura, secondo la celeberrima espressione Deus sive Natura. Per Spinoza, cioè, l’essere infinito delle cose coincide con la Sostanza -e qui c’è un motivo che partiva anche dalla discussione secentesca intorno alle due sostanze, pensiero ed estensione, di Cartesio. Com’è noto, Spinoza, con una serie di argomenti che non si possono nemmeno sfiorare qui, risolve in chiave radicalmente monistica la difficile eredità cartesiana e parla di un’unica Sostanza, che per lui è Dio e anche la Natura, per lui sono le cose, o, meglio ancora, il principio unitario che nelle cose si esprime. Dopodiché, come giustamente si è osservato, Spinoza non è veramente un panteista, a voler essere rigorosi, perché in realtà fa mille distinguo. E la distinzione più celebre, che giustamente viene sempre citata, poiché non è affatto un puro gioco di parole, è quella tra Natura naturans e Natura naturata, cioè tra il principio attivo (non creativo, perché con Spinoza la parola creazione è proibita) ed espansivo, espressione dell’infinita e necessaria potenza dell’Essere, da un lato, e, dall’altro, il prodotto, via via depositato, di quell’infinitamente possente e continua attività. D’altra parte, Dio è davvero immanente al mondo e alle cose. Il concetto, poi, di questo Dio/Sostanza è quanto mai proiettato sull’infinito -un infinito all’ennesima potenza. Non è infatti soltanto infinito, ma possiede infiniti attributi (tra i quali i cartesiani pensiero ed estensione sono solo i più rilevanti, ed esperibili, da noi uomini), ed è cioè un “infinito di infinità”, un infinito che si manifesta in infinite direzioni ontologiche che, a loro volta, si esprimono in infinite manifestazioni e “cose particolari” (i modi, appunto manifestazioni “finite” dell’infinito). Qui c’è tutta la dottrina spinoziana che siamo costretti a dare in gran parte per scontata.

Quel che si deve trattenere qui è l’argomento di fondo, cioè l’identificazione di Dio e Natura. Usiamo la parola “Natura” perché è più semplice e quella che usava lo stesso Spinoza, ma si tratta delle cose, del mondo, di tutto. E quindi (come da concetto spinoziano, anche se Spinoza lo esplicita una volta sola in tutta l’Etica) c’è un rapporto di immanenza, non di transitività o di trascendenza, tra la Sostanza e le cose. E questo discorso, non a caso, procurò subito a Spinoza la fama di ateo, o comunque di uomo che non credeva assolutamente (ed è sicuro che non ci credesse) in un Dio personale, cioè in quel Dio personale in cui credevano tutte le religioni monoteistiche e, appunto, teistiche, tradizionali, a cominciare dall’ebraismo. Eppure, questo tema, che è certo di per sé il più scabroso, si scopre poi non essere stato il più scandaloso per gli Ebrei, e neppure per alcuni cristiani, ma questo è tutt’altro discorso. E proprio Lévinas, prima citato, dice -e con lui molti altri- che l’ebraismo permette molte interpretazioni. L’identificazione tra Dio e Natura certamente non è ebraismo ortodosso, anzi -va ribadito il concetto- non è neppure ebraismo “ortopratico”; non è ebraismo, tourt court. Ma, al contempo, non è tesi di per sé assolutamente scandalosa. In fondo si sa che nella Qabbalah (ma non solo in essa, per la verità) il discorso del rapporto tra immanenza divina nel creato e, invece, trascendenza divina rispetto al creato, è un discorso molto aperto e molto delicato che trova molte sorprendenti vie di fuga. Non è questo, dunque, che può suscitare un particolare scandalo. Piuttosto, la parte che fa veramente scandalo è quella che abbiamo visto prima, con Spinoza che sembra letteralmente sputare sulla tradizione ebraica.

Tutto è eminentemente complicato dal fatto che, come fu chiaro a molti dei contemporanei -e come è stato sempre più chiaro dalla metà circa dell’Ottocento, quando molti studiosi ebrei hanno cominciato a studiare in modo critico Spinoza e le sue fonti-, Spinoza è pieno di influssi ebraici. Ora, probabilmente non è vero, come vuole una certa leggenda, che fosse stato avviato, da giovane, sulla via del rabbinato e che improvvisamente fosse stato colto da questa sconvolgente passione per Descartes, la scienza moderna, ecc., che lo traviò trascinandolo lontano. Non è vera, o almeno non accertabile, sopratutto la prima parte, cioè che fosse un giovane dotatissimo per l’ebraismo. Si tratta di affabulazione leggendaria, comprendibile visto il personaggio e i suoi percorsi di vita e di pensiero. E c’è da dubitare anche del fatto che Spinoza fosse dotato di una cultura ebraica sterminata e che, come voleva uno dei suoi primi biografi, Lucas, avesse già letto, a diciotto anni, più e più volte il Talmud (uno studioso moderno, Meinsma, alla fine dell’800, commenta che, se si va a vedere cosa sia il Talmud, non si può che rimanere perplessi di fronte a quell’affermazione). Forse Spinoza non aveva neppure un’eccessiva conoscenza delle basi della tradizione ebraica. Certo, aveva frequentato per diversi anni la scuola ebraica di Amsterdam, una scuola nata di recente, come tutta la comunità peraltro, ma molto ebraicamente agguerrita e bene organizzata. Il discorso della cultura ebraica di Spinoza va comunque ridimensionato, rispetto alle molte esagerazioni del passato.

Non c’è dubbio però che certe “cose ebraiche” Spinoza le aveva studiate. Aveva certamente studiato la filosofia ebraica. Conosceva piuttosto bene Maimonide, e lo conosceva in ebraico. E’ stato sicuramente in grado, verso la fine della sua vita, di scrivere un Compendio di grammatica della lingua ebraica, che è rimasto incompiuto e che è stato pubblicato insieme all’Etica e ad altre opere nel volume delle Opere inedite che ho citato prima. Questa grammatica denota, se non un’eccelsa e “aggiornata”, anche per i tempi, conoscenza della lingua santa e di tutti i suoi segreti, almeno una buona dimestichezza con l’ebraico biblico. Dall’ Epistolario invece (almeno secondo l’interpretazione di Geneviève Brykman, una studiosa francese dei nostri giorni) si potrebbe intendere che Spinoza considerasse l’ebraico la propria “lingua colta” originaria, quella cioè in cui forse avrebbe dovuto esprimersi, essendo la lingua in cui era stato educato a pensare, anche se le sue “lingue madri” furono, com’è molto probabile, lo spagnolo e/o il portoghese, cioè le lingue di tutti i giorni utilizzate dagli Ebrei “portoghesi” che si erano rifugiati ad Amsterdam e che non disdegnarono di scriverci anche trattati teologici e cabalistici. Un certo rapporto con questa sua educazione Spinoza lo aveva e lo conservò sempre, sino alla fine; e non poteva essere diversamente. Ma si trattava, appunto, di Spinoza, cioè di una personalità che, in modo magari superficiale, sapeva trarre da tutto il massimo, anche ciò che solo più tardi avrebbe potuto utilizzare al meglio.

A questo punto: quale può essere una strada per rimescolare le carte e per vedere come, nei fatti, questo rapporto con la tradizione -e in particolare, visto lo spunto promesso dal titolo della presente comunicazione, con la Qabbalah- possa essere rintracciato, con risultati non troppo prevedibili, in Spinoza? Dapprima, occorre fare ancora una brevissima osservazione sul contenuto del pensiero spinoziano.

Ho detto prima che l’Etica di Spinoza parte con il discorso relativo alla Sostanza, definendolo in successione attraverso varie tappe. Utilizzando, qui come altrove, concetti che provenivano dalla tradizione filosofica, dai recenti aggiornamenti cartesiani e dalle discussione nell’ambito del cartesianesimo, egli parla, anzitutto, della causa sui per arrivare a definire la Sostanza, poi Dio, poi la Natura e tutto il resto (con identificazioni successive, secondo la linea causa sui / Sostanza / Dio / Natura).

Peccato che quest’opera si chiami Etica e che, dopo un primo libro dedicato a Dio, nei restanti quattro libri si passi ad occuparsi dell’uomo. E si chiama Etica non a caso. Spinoza infatti, certo non ingiustamente, è passato alla storia come il filosofo “al di là della morale”, dal momento che non fa un discorso di morale “positiva”, ma piuttosto un discorso in chiave di conoscenza, di come vadano le cose, e quindi di necessità dell’Essere, quanto di più contrario alla morale tradizionalmente intesa si potesse immaginare. E tuttavia egli propone un preciso modello di rapporto tra l’uomo e il mondo (oltreché, implicitamente ed esplicitamente, tra l’uomo e gli altri uomini; e anche nell’Etica ci sono considerazioni di tipo squisitamente politico, molto vicine, nella loro radicalità, a quanto già detto nel Teologico-politico, e anche in un altro scritto, anch’esso lasciato incompiuto, ch’era il Trattato politico).

Per quanto si vogliano e si possano cambiare le carte in tavola, l’indagine filosofica di Spinoza culmina, nella quinta e ultima parte dell’Etica, in un’interrogazione sul rapporto tra l’uomo e Dio, cioè, per usare senza ambiguità il linguaggio spinoziano, tra l’uomo e quella Sostanza di cui l’uomo è parte e manifestazione. E il rapporto tra uomo e Dio va ben oltre le coordinate puramente conoscitive, o conoscitive in senso stretto, entro le quali pare saldamente incanalato.

Ciò, tra l’altro, ha fatto dire ad alcuni interpreti, che il discorso spinoziano è alquanto schizofrenico, poiché, da un lato, abbiamo uno Spinoza che, pur parlando di Dio e di altre cose del genere, praticamente ci offre una visione “scientifica” e straordinariamente “fredda” del mondo e della vita umana nel mondo (si tratta, più o meno, dello Spinoza dei primi quattro libri dell’Etica), mentre, dall’altro lato, abbiamo l’ultimo libro che, come ha detto un critico contemporaneo, Bennett, è pura mistica, da prendere e buttare, dal momento che non serve a nulla. Lo Spinoza che conta, lo Spinoza moderno e rivoluzionario dal punto di vista filosofico ed epistemologico, è quello dei primi quattro libri. Poi, ad un certo punto, comincia a vaneggiare di una qualche specie di eternità per la mente dell’uomo (e per l’uomo tutto, visto il parallelismo di pensiero, estensione, ecc,), comincia a parlare di amore intellettuale di Dio, di fase suprema del conoscere, di conoscenza delle cose particolari in Dio e di Dio attraverso le cose particolari; e si tratta pur sempre del Dio-Sostanza, quello di cui si parla... Ad un certo punto, insomma, Spinoza “salta” nella mistica, una mistica certo molto “teoretica”, più disciplina intellettuale che deliquio e abbandono, volta ad un ideale di conoscenza, e purtuttavia qualcosa di incomprensibile e immotivato, date le premesse. Ma quest’ultimo salto non è per niente immotivato, com’è ovvio. Altri interpreti hanno argomentato la profonda, e “circolare”, coerenza interna dell’ Etica, ben oltre quella esibita da Spinoza, che, com’è noto, ha redatto la sua opera maggiore secondo un ordine geometrico, facendone cioè, nella forma, una specie di trattato di geometria, con assiomi, definizioni, proposizioni, dimostrazioni, ecc. (ma anche con possenti introduzioni, appendici e scolii, che costituiscono spesso piccoli e liberissimi trattati rispetto alla “linea deduttiva” principale).

Il discorso di Spinoza, dunque, sbocca in una peculiare visione del rapporto che intercorre tra l’uomo e Dio. Che cosa, in tutto questo, ci sia di razionalistico e che cosa, invece, di mistico è un problema aperto, difficile da discutere qui. Ciò che si può suggerire è che, quando si parla del confronto di Spinoza con la tradizione ebraica, si dovrebbe tentare di andare oltre quelle problematiche più appariscenti, e pur importanti, che Spinoza mette a nudo forse per primo e che tutti gli Ebrei hanno, da allora, dovuto affrontare. E non soltanto gli Ebrei, ma tutti gli uomini “moderni”, indistintamente, perché si tratta appunto dei grandi temi della modernità, della secolarizzazione politica, ecc. Né si tratta soltanto di cercare elementi, più o meno connessi l’uno con l’altro, di influenza ebraica sul filosofo, nella linea dello Spinoza “dalle mille fonti”, tra le quali si è pensato di poter trovare di tutto, dai presocratici all’ontologia scolastica, a dosi massicce di Giordano Bruno e di naturalismo rinascimentale; e in questo tutto trovano un loro posto naturale anche le cose ebraiche.

In realtà, il discorso interessante da svolgere sarebbe proprio quello, globale e “senza rete”, del confronto tra Spinoza e la tradizione intorno al “discorso su Dio” degli uomini. E si fa qui riferimento alla tradizione ebraica, la tradizione interpretativa che comprende tanto filosofi medievali “razionalisti”, alla Maimonide, quanto la Qabbalah e, ancor prima, il grande tronco originario della tradizione ebraica, cioè il Talmud, la sapienza rabbinica, la pratica del commento dei testi, che non è solo il commento alla Bibbia, ma anche il commento alla Mishnah, al Talmud, e poi il commento ai commenti... La tradizione ebraica, insomma, a partire dal primo testo, che non è neppure la Bibbia nella sua interezza, ma piuttosto la Torah, il Pentateuco, come luogo archetipico della narrazione, della Legge e dell’Essere.

Io credo -e in questa direzione, peraltro ancora aperta, ho svolto pure le mie ricerche più “accademiche”, di cui certo non pretendo di esporre qui i risultati- che la chiave fondamentale per comprendere dal didentro la questione “Spinoza e l’ebraismo” sia proprio quello della “tradizione” e dei suoi diversi, possibili significati, un nodo affrontato da Spinoza, non sempre nel modo più esplicito, soprattutto, e ancora, nel Trattato teologico-politico. Ciò che si evince con una certa facilità è che per Spinoza la tradizione ebraica è tanto più inaccettabile quanto più essa sia stata messa al servizio di interessi, diciamo così, “umani, troppo umani”. Quando, per esempio, come si è esemplificato più sopra, la tradizione è utilizzata dai sacerdoti e dai “Farisei” che vogliono per sé il potere teologico-politico, rifacendosi magari a un possesso “autoritativo” del testo biblico e a una letteralità del medesimo testo che va preso secondo quella che, appunto, è la tradizione, l’unica, vincolante tradizione nelle salde mani dei suoi “professionisti” e padroni. Così, per fare un esempio ancora più ravvicinato, tipico obiettivo polemico di Spinoza è la tradizione massoretica, cioè la tradizione di quanti, nei primi secoli dopo Cristo, e soprattutto dal V sec. in poi, avevano fissato il testo della Bibbia, con tutte le varianti, a lato, delle lectiones marginales, come le chiama Spinoza, e avevano sostenuto che quello, e non altri, era il testo dato da Dio a Mosè sul Monte Sinai, a suggello del patto tra la divinità e il popolo ebraico.

La polemica spinoziana, insomma, è indirizzata soprattutto contro gli usi, per così dire, in senso lato, antropocentrici della tradizione, quando essa viene asservita al potere e, più in generale, agli interessi degli uomini. E tanto più qualora si tratti di un gruppo di uomini, o anche di un popolo intero, che pretenda, attraverso la tradizione, di poter accampare una propria superiortà spirituale e/o politica rispetto agli altri popoli.

Il disorso di Spinoza, però, cambia sensibilmente, per tono e contenuto, allorché si tratta di concepire la tradizione come un’ininterrotta e non pregiudicata ricerca intorno al rapporto tra l’uomo e Dio. E’ innegabile che la tradizione ebraica avesse al suo centro una concezione di Dio trascendente e creazionista. Ma non erano mai neppure mancati spunti che avevano sfondato quella cornice e che, nella loro rigorosa e disinteressata “tensione verso Dio”, potevano bene fornire stimoli anche ad un pensatore dell’immanentismo radicale come Spinoza.

In effetti, Spinoza, in un passo dell’Etica (II, prop. 7, scolio) accenna a tradizioni ebraiche -rintraccabili, per noi, in più direzioni; e anche questo è significativo- per le quali in Dio conoscenza, conoscente e conosciuto coincidono.Si tratta di una dottrina presente in Maimonide e in molta parte della Qabbalah, e che aveva originariamente un significato molto diverso da quello che Spinoza gli vuole attribuire lì, e che è poi, praticamente, la coincidenza di tutto in Dio. E’ significativo però che Spinoza vi si richiami e parli di un’autentica tradizione ebraica come “discorso su Dio” che lui ricorda e che può essere recuperata. In una delle sue ultime lettere poi (la LXXIII, destinatario Henry Oldenburg) egli parla di una sua concezione fondamentale, cioè che tutte le cose sono in Dio, accreditandola come l’antica opinione che possiamo trovare in quasi tutti i filosofi greci, in Paolo di Tarso (che Spinoza amava moltissimo, anche se è un Paolo interpretato molto sub specie spinoziana) e soprattutto in tutti gli antichi Ebrei, “per quello che possiamo comprendere dalle loro tradizioni che ci sono giunte molto adulterate”. Già in un’opera giovanile, i Pensieri metafisici, appendice di un’operetta che aveva scritto e pubblicato nel 1663 intorno ai Principi della filosofia di Cartesio, la prima opera di Spinoza ad essere pubblicata, egli rinvia (2,VI) ad un’antica sapienza ebraica per la quale la vita e Dio coincidono. Per il Dio vivente degli Ebrei la parola “vita” non viene utilizzata come se si trattasse di una cosa separata dal soggetto, come avviene, per esempio, quando si parla della vita del faraone, ma si parla -e in ebraico il tutto è soltanto un cambio di punteggiatura, quindi di vocalizzazione- appunto di un Dio vivente, poichè la vita è tutt’uno con Dio.

Tutti questi non sono affatto segnali da poco. Per quanto qui non si possa argomentare e saltabeccare dal testo di Spinoza (soprattutto il Trattato teologico-politico) al Talmud, emerge tuttavia, con una certa chiarezza, che la tradizione, per Spinoza, da un lato non deve essere intesa come un sapere dogmatico, antichissimo, o presunto tale, e definito una volta per sempre, mentre, dall’altro, a Spinoza interessa moltissimo un discorso su Dio, anche qualora venga svolto nei termini trascendentistici, in senso lato, dell’ebraismo, che tenda con tutte le proprie forze al cuore del “Dio vivente”; in particolare, poi, se si consideri, come Spinoza, l’uomo e tutte le cose come manifestazione di quel medesimo Dio.

Su questo sfondo, l’interpretazione, cui ho accennato prima, per la quale Spinoza sarebbe un feroce anti-fariseo, andrebbe attenuata. Ci sono infatti dei passi, nel Teologico-politico, in cui la sua polemica si fa ancora più acre -o meglio, più che acre, definitiva- nel rifiuto dell’atteggiamento mentale dei nemici storici dei Farisei, cioè i Sadducei. Spinoza esprime un reciso rifiuto di chi creda che la verità, come credettero i Sadducei, stia nel testo biblico senza bisogno di ulteriore interpretazione e senza sviluppo, in una concezione della verità come fisso e rigido ancoraggio, veneranda antichità, autorità assoluta. Un discorso del genere convince Spinoza ancor meno, infinitamente meno, di quanto lo possa interessare un discorso come quello della tradizione ebraica “vincente” dei Farisei e dei rabbini, in cui l’interpretazione del testo si fa interpretazione virtualmente infinita del mondo, delle cose, della realtà, di Dio.

Resta un’indagine tutta da svolgere, quella di un confronto puntuale tra l’onotologia spinoziana, il modo in cui Spinoza parla dell’Essere e dell’articolazione dell’Essere, e l’emeneutica talmudica, dalla circolarità virtualmente inifinita. Certo, si tratta di un discorso molto difficile e pieno di insidie, anche perché, e non lo si può sottovalutare, l’ontologia spinoziana è molto lontana dalle prospettive ermeneutiche moderne, perché Spinoza pretende di occuparsi dell’Essere e non di parole o interpretazioni. Comunque, nella misura in cui, per l’asse portante della tradizione ebraica, l’ermeneutica “tocca” l’Essere, anzi è il solo modo possibile di parlare dell’Essere, facendolo passare attraverso il filtro dell’interpretazione, quel confronto ravvicinato è più che fattibile, anche se ancora tutto da fare, e con la massima serietà.

Per ricondurci, infine, agli spunti riguardanti la Qabbalah, occorre osservare, innanzitutto, che Spinoza, a modo suo, non fa che riflettere uno degli aspetti più profondi dell’ebraismo, cioè la difficoltà a distinguere, anche nelle diverse tradizioni di pensiero, tra razionalismo e mistica. Nell’ebraismo c’è la Qabbalah e c’è Maimonide, ma in quest’ultimo c’è tutto un versante messianico, cabalistico, pre-cabalistico o post-cabalistico, o comunque di mediazione tra temi che sono comuni con la Qabbalah e con la sua tradizione. In realtà, è proprio nell’ebraismo, da sempre, che è impossibile distinguere tra scienza disincantata di Dio e del mondo e “passione calda” relativa ai rapporti tra Dio, il mondo e gli uomini. E Spinoza, certamente in un ‘atmosfera diversa, con davanti Cartesio, il natuiralismo rinascimentale, la scienza moderna, sembra riproporre questo problema di fondo, questa circolarità di atteggiamenti, questo coincidere di problemi.

Per ciò che riguarda in particolare la Qabbalah, c’è una sola citazione, un unicum in tutte le sue opere, in cui Spinoza parla dei cabalisti, e ne parla molto male. Nel nono capitolo del Trattato teologico-politico, il filosofo scrive di aver letto e per di più conosciuto personalmente alcuni cabalisti fanfaroni e impostori, “la cui insania di mente non smette di meravigliarmi”. E’ vero che anche con Maimonide Spinoza fa una cosa simile, parlandone male -quando ne parla- e attingendone a piene mani, in modo evidente e in più di una occasione. L’anti-cabalismo espresso da Spinoza non sarebbe dunque molto significativo, tanto più quando si pensi che gli studiosi si sono sbizzarriti nel trovare assonanze, più o meno letterali, tra il pensiero spinoziano e quello cabalistico -una tradizione molto vasta, con correnti e direzioni molto divergenti e differenziate tra di loro. Ma la caccia alle assonanze e ai contenuti, soprattutto in campo cabalistico, è quanto mai scivolosa e ingannevole, dal momento che si può dire tutto e il contrario di tutto, interpretando opportunamente. Non bisogna scordare poi che, ai tempi di Spinoza, la Qabbalah era, almeno da due secoli, al centro dell’interesse di tutto, o di buona parte, del pensiero occidentale, perlomeno dall’Umanesimo e dal platonismo rinascimentale in poi. Certo, a Cartesio non interessava più di tanto, ma a molti altri tantissimo. E dunque le tematiche cabalistiche Spinoza non aveva neppure bisogno di attingerle dalla Qabbalah autentica e originaria. Oppure poteva, come qualche interprete ha dimostrato -dimostrato come si possono dimostrare queste cose, cioè in modo non definitivo- attingerle anche da un cabalista molto recente, Abraham Cohen Herrera, che aveva vissuto ad Amsterdam e che nella sua opera Puerta del cielo faceva un discorso su Dio le cui assonanze con il primo libro dell’Etica sono profonde e quasi conturbanti, anche dal punto di vista dell’immanenza (naturalmente, con tutti i distinguo del caso, visto che uno era il testo di un Ebreo pio dell’epoca, mentre l’altro quello di Spinoza).

Queste tematiche (che sono poi quelle del rapporto tra l’uomo e Dio e delle possibili modalità di tale rapporto, a partire dal rapporto ancora più originario tra Dio e il mondo, che i pii ebrei e cristiani potevano vedere come rapporto tra il Creatore e il creato, ma che poteva anche essere letto con altre chiavi) circolavano largamente. E, inoltre, davvero non si può escludere che Spinoza si sia ispirato anche allo Zohar o a qualche altro testo della tradizione cabalistica.

Tutto questo, però, non pare essenziale né decisivo, se si tenga presente quel discorso, abbozzato sopra, del confronto “globale” di Spinoza con la tradizione ebraica. A Spinoza, se interessa “positivamente” la tradizione, interessa anche quella espressa nel Talmud e nella letteratura rabbinica in genere (che peraltro è piena, da sempre, di spunti cabalistici). Il discorso della tradizione diventa allora soprattutto il discorso su Dio, un discorso su Dio che non sia sservito a interessi umani, non sia abbassato alla misura più vasta della vita dell’uomo. Da questo punto di vista, l’ideale conoscitivo di Spinoza si contrappone fatalmente a qualunque utilizzo politico, antropocentrico, “umano, troppo umano”

 

 

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