ciclo di incontri - 06 Ottobre 1994
Quaderno n. 62
Corso di cultura ebraica (II° ciclo)
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Razionalità greca e tradizione ebraica.
Alessandria, Roma, Gerusalemme


Francesca Calabi
Docente di filosofia antica - Università di Pavia
 

A Ben Damah che gli chiedeva se, una volta studiata tutta la Torah, ci si potesse dedicare alla cultura greca, Rabbi Ishmael rispose: “il verso dice: «questo libro della legge non si diparta mai dalla tua bocca, ma meditalo giorno e notte»[1]. Vai, dunque, e trova un momento che non sia né giorno né notte - allora potrai studiare la cultura greca” (Mecahot 99b).  Sono qui condensati due atteggiamenti entrambi presenti nel mondo ebraico al momento del confronto con la presenza greca. Da un lato le forme conciliative, le aperture, l’interesse a trovare un modo di approfondirne la cultura, dall’altra la convinzione del sostanziale carattere superfluo di tutto quanto non sia la Torah. Inutile, pleonastica tale cultura, o addirittura nemica? Un altro passo del Talmud, relativo questa volta a Roma, presenta tre aspetti: apertura, indifferenza, ostilità: in una conversazione Rabbi Jehuda si rivolge ai suoi compagni dicendo: “come sono belle le opere di questo popolo: hanno costruito mercati, ponti, terme. Rabbi José taceva. Rispose Rabbi Shimon ben Johai che disse: tutto ciò che essi hanno fatto non l’hanno fatto che per se stessi; hanno costruito mercati per mettervi prostitute, terme per dilettarvisi, ponti per prelevare pedaggi” (Shabbath 33b).

Questi passi, che pure sono relativamente tardi, mi sembrano indicativi dei rapporti reciproci tra differenti culture ed etnie che si sono poste nell’area del Mediterraneo nel periodo ellenistico-romano. Pur sfaccettate, le risposte sono sostanzialmente di chiusura. Ma si tratta di passi che segnano la fine di un percorso in cui le possibilità di confronto e le ipotesi di apertura, numerose nel III sec. a.C., sono venute via via restringendosi. Con Alessandro Magno e il costituirsi dei regni ellenistici, prima, con l’impero romano, poi, forse per la prima volta nella storia tutta l’area del Mediterraneo viene unificata dando luogo ad una centralizzazione dell’autorità e del potere, dell’organizzazione sociale, della burocrazia, dell’ordinamento militare, delle attività economiche che fioriscono intorno alla corte, dei commerci, della cultura, della lingua. Confluiscono ad Alessandria, prima, a Roma, poi, popolazioni diversissime. Etnie che in alcuni casi non si sono mai precedentemente conosciute o che hanno al massimo intrattenuto rapporti commerciali, si trovano ora a vivere fianco a fianco, spesso a lavorare insieme.

Consideriamo ora, in particolare, Alessandria e la posizione dei Giudei che ne costituiscono un ethnos importante. All’interno della composita compagine sociale di Alessandria, ove confluiscono Egiziani, Macedoni, Giudei, Persiani, Indiani, Romani, il ceto dominante è costituito dai Macedoni che rappresentano il modello di organizzazione sociale e culturale. Non solamente sono macedoni le principali attività burocratiche e di governo, le attività economiche, ma tutta l’organizzazione cittadina è impostata su modelli greci. Il teatro, le feste, l’istituto dell’efebia, per non parlare poi della lingua, sono greche. I Giudei, tradizionalmente ancorati ad una tradizione e a una cultura separate, restii all’assimilazione, che vivono anche fisicamente in un loro quartiere, mantengono comportamenti e usi specifici che li pongono in una situazione di distanza dell’etnia macedone e, contemporaneamente, intrattengono con i Macedoni rapporti quotidiani subendo il fascino della loro cultura. Parallelamente, mantengono un rapporto privilegiato con Gerusalemme, punto di riferimento e fulcro spirituale e culturale per tutta la diaspora. L’autorità religiosa e di studio di Gerusalemme è, per gran parte dei Giudei di Alessandria, incontrovertibile, nonostante il ruolo assunto -dopo la vittoria dei Maccebei- dal tempio di Leontopoli in Egitto, tempio sostenuto dal sommo sacerdote Onias IV in contrasto con il sacerdote di Gerusalemme Alcimo. I Giudei di Alessandria vivono dunque una doppia appartenenza, legati, da un lato, a Gerusalemme, dall’altro al contesto alessandrino. A livello individuale, molti ebrei ricercano un inserimento nella società macedone attraverso i canali istituzionali greci di partecipazione alla vita cittadina: ginnasio, efebia, teatro, feste. In precario e difficile equilibrio tra assimilazione e separatezza, i Giudei di Alessandria partecipano, dunque, dei due ambiti.

Per i ceti colti la lingua usata comunemente è il greco. Anche nelle pubbliche letture sinagogali si usa il greco, eventualmente l’aramaico, quasi mai mai l’ebraico per lo più ignoto. In questa situazione, sempre più forte si fa l’esigenza di un testo biblico in greco. Vi sono brevi testi tradotti, commenti e traduzioni in aramaico, i targumim, manca una versione greca di tutta la Torah. Di qui, probabilmente, l’origine della traduzione greca dei LXX, che all’inizio riguardava solamente i cinque libri della Torah, cui venne in seguito aggiunta la traduzione di agiografi e profeti. E’ cioè probabile che l’iniziativa della traduzione sia opera dei Giudei di Alessandria, anche se alcune tradizioni sostengono l’iniziativa di Tolomeo, il re macedone, che sarebbe stato mosso dal desiderio di inserire nella Biblioteca di Alessandria, accanto a tutte le maggiori opere del tempo, il testo biblico. Questa è, ad esempio, la tesi sostenuta dalla Lettera di Aristea, opera di un autore ignoto, probabilmente della seconda metà del II sec. a.C., autore che si finge un Gentile e narra, in un quadro favolisti co ed immaginoso, della richiesta volta da Tolomeo al sommo sacerdote di Gerusalemme di inviargli un testo della Torah e dei traduttori esperti, uomini sapienti, conoscitori della Bibbia e del greco, in grado di approntare la traduzione. Il sommo sacerdote Eleazar convoca il popolo di Israele, vengono pubblicamente designati i sapienti, sei per ogni tribù, cui viene affidata quella che è una vera e propria missione. Al loro arrivo ad Alessandria, i settantadue sapienti, accolti con tutti gli onori, vengono invitati a banchetti organizzati per rispetto nei loro confronti secondo le regole della kasheruth. In tali occasioni essi hanno colloqui con il re e la corte, colloqui durante i quali hanno modo di esprimere la sapienza di Israele. Solo alla fine di sette giorni vengono condotti nell’isola di Faro, dove, separati dalla corte, in una condizione di tranquillità e concentrazione, conducono il loro lavoro, isolati in cellette senza comunicare tra loro. L’esito -secondo Filone che parla anch’egli della traduzione- sarà costituito da settantadue traduzioni tutte perfettamente uguali a indicarne il carattere ispirato. La versione verrà poi presentata al popolo riunito che la approverà pubblicamente. Si richiamano qui il consenso del popolo riunito in Esodo 24,4 e la pubblica lettura di Esdra davanti al popolo in Nehemia 8. Anche il numero settanta, d’altronde, ha probabilmente un forte significato evocativo: settanta sono gli anziani che accompagnano Mosè al Sinai (Es. 24,1-9), settanta gli anziani cooptati da Dio perché aiutino Mosè nei rapporti con il popolo, settanta i membri del Sinedrio. Sono tutti elementi che forniscono autorità alla traduzione, ponendola in un certo senso sullo stesso piano del testo ebraico.

Ora, posto che quasi sicuramente la traduzione greca della Bibbia fu un’iniziativa giudaica, che significato assume la tesi che sia stata voluta da Tolomeo? Si tratta solamente della ricerca di una patente di nobiltà per i Giudei della diaspora spesso accerchiati da popolazioni indifferenti, quando non ostili, oppure è davvero plausibile l’interesse per l’ebraismo da parte di un re ellenistico? E’ chiaro che a questa domanda non si può dare una risposta univoca, anche perché il periodo che prenderò in considerazione copre alcuni secoli e vede affiorare popolazioni e governi anche molto differenti tra di loro. Di fatto, già a partire dal IV sec. a.C., si tramandano aperture e interesse da parte di autori greci nei confronti della cultura ebraica. Fino a tutto il III secolo, però, anche laddove non si parli di puri favoleggiamenti di singoli intellettuali interessati a una generica sapienza orientale, si tratta di vaghi richiami più o meno favolistici più che di un effettivo incontro con i testi e la tradizione ebraica. Si tratta di interesse per il monoteismo e di considerazione per una legislazione -quella mosaica- che viene accostata a quelle di Licurgo o di Minosse. Già Teofrasto, Megastene, Clearco di Soli avevano presentato sotto una luce positiva gli ebrei, popolo di filosofi. Con Ecateo di Abdera la positività della Torah e della fedeltà degli Ebrei alla legge era smorzata solo dalla loro xenofobia e chiusura rispetto agli altri popoli. Pure, il monoteismo e il rifiuto dell’antropomorfismo collocava il popolo ebraico in una posizione speciale, in una luce di sapienza cui gli altri popoli potevano attingere. I Pitagorici, per esempio, secondo alcuni autori quali Ermippo di Smirne (II sec. a.C.), avrebbero subìto l’influenza ebraica. Il richiamo ad una sapienza antica, maestra rispetto alle tradizioni di altri popoli, il richiamo a una legislazione rigorosa e nobile, il rifiuto di antropomorfismo e idolatria, il fascino del riposo shabbatico, sono tutti presenti in alcuni autori di lingua greca che verranno poi sviluppati soprattutto in ambiente romano. Tale posizioni non devono, però, indurre a credere a una situazione idilliaca di accettazione-ammirazione dell’ebraismo. Proprio ad Alessandria si hanno fortissimi conflitti tra etnie e veri e propri progroms antiebraici e proprio ad Alessandria nasce una letteratura fortemente antigiudaica che diventerà un modello per tutta la successiva letteratura ostile all’ebraismo. Qui nascono le accuse di sacrificio rituale, di adorazione di una testa d’asino, di ostilità verso i popoli vicini, di sacrilegio, di razzie, di essere un popolo di lebbrosi guidati da un bandito, cacciati dall’Egitto. Autori quali Manetone, Cheremone, Mnasea, tutti fioriti ad Alessandria tra il III e il II secolo, e, più di tutti, nel I secolo Apione, contro cui Flavio Giuseppe indirizzerà una sua opera di difesa dell’ebraismo, sostengono tali tesi. Di qui il nascere in ambito ebraico di una relazione difensiva ostile che darà luogo a posizioni di arroccamento. Siamo, però, ancora nell’ambito di posizioni di separatezza nei confronti degli altri popoli, non della violenta ostilità che vedremo eplodere in periodo successivo specialmente nei confronti della potenza romana. Per tutto il II-I sec. a.C., i Giudei di lingua greca sono di fatto propensi al confronto e all’interazione. Aristobulo, per esempio, dà una lettura allegorica di passi della Torah ricca di riferimenti platonici, Filone utilizzerà categorie, teorie, linguaggi propri delle principali correnti filosofiche greche. Anche laddove si afferma la superiorità ebraica, vi è, però, un’ipotesi di rapporto con gli altri popoli. Artapano, per esempio, autore vissuto probabilmente a cavallo tra il II e il I sec. a.C., dà un’immagine dei patriarchi come fondatori di saperi utili per l’umanità. Singolarmente è assente l’attività di legislatore di Mosè, mentre Mosè e i patriarchi sono presentati in una luce certamente molto diversa da quella biblica tradizionale: Abramo insegna il culto delle stelle, Giuseppe si occupa di misurazione dei campi e di altre attività quotidiane, Mosè introduce culti idolatri. Forti sono gli elementi sincretistici e, in vari auori, per esempio in Aristobulo, Mosè è all’origine della filosofia greca da cui differisce per singoli aspetti, non per l’impostazione generale. Diffusi sono i tentativi di conciliazione tra le due culture, di smorzamento dei contrasti, di eliminazione di elementi disturbanti o scandalosi agli occhi dei Gentili. Se la legge di Israele rappresenta il punto più alto della sapienza, non esclude per questo altre forme di giustizia e di verità. Non vi è inconciliabilità tra valori e norme di Giudei e di Gentili, la Provvidenza, per la Lettera di Aristea, si rivolge a tutta l’umanità e la Torah, secondo Aristobulo e Filone, ha valore universale e ha molti punti di contatto con la filosofia greca. Tali aperture e immagini di convergenza risulteranno ovviamente assai più dubbie fino a sparire completamente nel periodo successivo alle repressioni di Caligola. La cultura pagana verrà condannata come politeista e rare saranno le voci quali quelle di uno Pseudo Focilide che vi cercherà elementi etici accettabili anche per l’Ebraismo e vorrà tacere di questioni spinose quali l’idolatria. Peraltro, ancora il terzo Oracolo Sibillino, opera fortemente polemica e ostile, tenderà a presentare la Torah in termini di legge naturale aperta a tutti, purché dominati da spirito di giustizia. Il richiamo è a un universalismo consono a valori stoici ed epicurei. Forme maggiori di chiusura sono presentate nei libri dei Maccabei che contrappongono violentemente Israele e la legge di Dio ai pagani peccatori. L’unico atteggiamento accettabile è costituito dalla rivolta e dall’opposizione ad Antioco profanatore e peccatore. Posizioni di ostilità all’ellenizzazione vi sono, d’altronde, anche in ben Sira che pure è meno polemico.

Molte delle oscillazioni nei rapporti tra ellenismo ed ebraismo si ritrovano a Roma, ove si assiste ad un graduale trapasso da posizioni più concilianti a stati di sempre maggiore intolleranza man mano che la situazione politica diventa più critica, fino a sfociare nella guerra giudaica. Prendiamo, per esempio, in considerazione gli anni 93-96 d.C., anni in cui Giuseppe Flavio scrive la sua difesa dell’ebraismo dagli attacchi antigiudaici. E’ imperatore Domiziano. Flavio Giuseppe, ebreo che ha partecipato alla gierra giudaica e, fatto prigioniero, è diventato prima interprete dell’esercito, poi amico dei Flavi, vive ormai nella capitale sotto la protezione imperiale impegnato a scrivere la storia della sua vita e della guerra. Intorno a lui la situazione è minacciosa. Sempre più insistenti si fanno le accuse antigiudaiche che riprendono i temi della polemica antigiudaica alessandrina. A tali accuse risponde Giuseppe nel Contro Apione, ne dimostra l’infondatezza e l’ostilità richiamandosi alla positività della tradizione ebraica, al suo alto valore morale, alla elevatezza delle leggi di Mosè. La continuità di una tradizione immutabile, lungi dall’essere mancanza di originalità, è prova di costanza e di rigore, di ancoramento a valori reali, alla legge divina. Di qui l’importanza di una rappresentazione della verità non suscettibile di modifiche, di abbellimenti, di alterazioni, una tradizione inalterabile proprio perché deriva direttamente da Dio, registrata in annali che ne garantiscono la verità e l’autenticità. In un mondo dove l’antichità della propria storia e l’autoctonia sono un titolo di merito, è essenziale per Flavio Giuseppe mostrare l’infondatezza di accuse che fanno di Israele un popolo di raccogliticci, di miserabili privi di tradizioni e di leggi, di lebbrosi cacciati dall’Egitto. “La difesa dell’antichità ebraica ha una diretta relazione con l’apologia della legge”[2].

L’orgoglio della propria identità, l’importanza della memoria, il ricordo che diviene osservanza della Legge, precetto divino, si assimilano, peraltro, a temi propri della cultura greca. Con diverse motivazioni, con diverse valorizzazioni, Giuseppe accentua così aspetti che tanto spazio avevano anche nella storiografia greca, come molte delle categorie interpretative e modalità di lettura sono proprie di tale storiografia. Tali posizioni di Giuseppe si collocano in un clima di attacco antigiudaico che presenta, però, molte sfumature ed è ancora piuttosto lieve rispetto all’ostilità successiva.. Per il momento sono sempre vigenti una serie di diritti e di privilegi concessi ai tempi di Claudio, di Vespasiano, ma ancora con Tito, agli Ebrei di Roma: deroghe rispetto al culto imperiale e a riti pagani, diritto di riunione e di osservanza delle proprie feste, rispetto del riposo shabbatico, esonero dall’assistere ai giochi pubblici e agli spettacoli. La contropartita, da parte ebraica, è il rispetto della lex romana, il pagamento dei contributi, una fedele sudditanza all’imperatore che si era esplicata, ad esempio, nel non intervento durante la guerra a favore di Gerusalemme. Come nota J. Juster[3], gli Ebrei di Roma, lungi dal rappresentare una forza eversiva, si erano, anzi, sempre posti come fonte di coesione e di fedele sudditanza all’impero. Le rivolte, che erano talvolta scoppiate in periodi precedenti, erano sempre nate dalla volontà di non sottostare a imposizioni contrarie alla Torah, dal rifiuto di norme del tutto accettabili per gli altri sudditi dell’impero, quali la divinizzazione dell’imperatore e il culto pagano, ma inaccettabili agli occhi dei Giudei. Al di là di improvvisi scoppi di violenza, vi era, però, nel complesso, una situazione di relativa tranquillità e un equilibrio, anche se fragile e suscettibile di rotture, com’era avvenuto ai tempi di Nerone, di Tiberio, di Caligola. Si era addirittura creato un clima di simpatia da parte di molti intellettuali romani che guardavano con interesse al rifiuto dell’idolatria, del culto delle immagini e sentivano il fascino del monoteismo o del riposo shabbatico. Molti Romani avevano adottato norme alimentari e comportamentali ebraiche. Diffuso era il proselitismo e, secondo alcune fonti, addirittura Poppea aveva aderito all’ebraismo (cosa, peraltro, alquanto improbabile). Tali simpatie dei Romani per il giudaismo sono attestate anche da parte ebraica. Il Talmud babilonese, per esempio, parla di un membro della casa Flavia, un nipote di Tito, Onkelos, figlio di Kolonikos o Kolonimos, convertito all’ebraismo[4], e, altrove, si accenna alla morte di un senatore chiamato Kety’ah ben Shalom che con la moglie aveva adottato il giudaismo[5]. Molti poi erano i simpatizzanti, gli aré shamaim, che, senza proprio convertirsi, avevano però adottato una serie di comportamenti e di usi ebraici. Però la condizione di simpatizzante era estremamente pericolosa, molto più perseguitata di quella di un ebreo di nascita[6]. Da un lato le simpatie per l’ebraismo venivano viste come il desiderio di fruire dei privilegi di cui godevano gli Ebrei, dall’altro come un attacco agli antiqui mores, alla romanità contrapposta a usi orientali corrotti e debosciati. Di qui una serie di persecuzioni ed estorsioni, tramandateci, per esempio, da Valerio Massimo che spiega l’espulsione del 139 d.C. come risposta difensiva dell’aristocrazia romana all’ingresso di idee e di culti orientali che si stavano diffondendo a Roma. I Giudei venivano accostati ad astrologi, maghi che introducevano credenze superstiziose contrarie all’austerità romana. Attaccati alle loro abitudini superstiziose[7], gli Ebrei avrebbero introdotto credenze assurde che venivano poi accettate anche dai Romani. Così Seneca attribuisce loro la diffusione di leggi insensate, di abitudini dannose e oziose, quali l’osservanza dello shabbath, vero esempio di perdita di tempo. Essi “sprecano il tempo, perché intercalando tutti quei settimi giorni, perdono circa un settimo della loro vita nell’ozio e molti interessi urgenti sono lesi dall’inattività”[8]. E’ bene vietare di accendere le lampade del Sabato “perché gli dei non hanno bisogno di lumi e neppure agli uomini fa piacere il fumo”[9]. Si tratta di abitudini spesso adottate da Romani spinti dalla moda e dall’attrazione per la religione ebraica[10]. Ciò che disturba non sono le concezioni adottate, ma i comportamenti quali la circoncisione o il rifiuto della religione dell’impero. Sempre di più si sviluppano atteggiamenti antigiudaici e vere e proprie persecuzioni quali quelle dei tempi di Nerva e Traiano che culmineranno con le repressioni del 135 d.C. dopo la rivolta di Bar Kokvà.

Anche a Gerusalemme le posizioni di apertura, le spinte assimilazionistiche, i tentativi di inserirsi nella cultura dominante e di trovarvi delle forme di coesistenza si intrecciano con elementi di ostilità e di contrasto. Già Giasone, fratello del sommo sacerdote Onias III, quando aveva  cercato di introdurre a Gerusalemme riforme di stampo ellenistico, aveva suscitato violente reazioni e una guerra civile sedata solo con l’intervento di Antioco IV. Accese erano le polemiche contro ogni forma di ellenizzazione: le abitudini dei Gentili, i teatri, le feste. In questo contesto traggono spessore le accuse mosse ad Erode per la costruzione di un teatro e di un anfiteatro, l’introduzione di gare ginniche, spettacoli, combattimenti tra uomini e animali. Molte le prese di posizione rabbiniche contrarie a forme di assimilazione: “è proibito andare nei teatri dei Gentili” recita la Toseftà Avodà Zarà (II,5.7). Sia che vi si svolgano sacrifici e riti di culto imperiale, sia che questi non avvengano, i teatri sono comunque un veicolo di idolatria, di impurità, di trasgressione, di immoralità. I pagani rappresentano un pericolo sia materiale sia morale, propensi all’omicidio, all’aggressione, a una sessualità violenta; possono essere fonte di morte o di  degenerazione per i Giudei. Un barbiere, una levatrice potrebbero approfittare del loro ruolo per uccidere gli Ebrei, come altri potrebbero cercare di pervertire donne e bambini. E’ bene, dunque, porre una estrema attenzione ai rapporti con i Gentili e, possibilmente, evitarli. Tali posizioni estreme non sono ovviamente generalizzabili e si trovano anche molti pronunciamenti più aperti al confronto. Agiscono qui differenze di posizione dei singoli e di scuola, oltre che variazioni rispetto al momento storico: così diversi sono gli atteggiamenti degli allievi delle scuole di Hillel e di Shammai, e, soprattutto, diversi sono gli atteggiamenti di Farisei e Sadducei anche rispetto all’ellenizzazione. E’ diffuso, comunque, un sentimento di diffidenza nei confronti della cultura degli idolatri e anche la lingua risulta sospetta, non tanto in se stessa, quanto come veicolo-simbolo della cultura greca (cfr. Sothà 49b). Spesso, comunque, la necessità dei rapporti quotidiani con le autorità romane e in genere con il mondo circostante, implica la conoscenza del greco che viene, così, accettato. Questo sarà vero soprattutto in tempi di molto successivi alle rivolte[11]. Di fatto vi è una grande diffusione del greco che, iniziata nel III sec. a.C., continua anche in seguito alle guerre maccabaiche e ai successivi rapporti con Roma. Se ne trovano tracce nei nomi teoforici e in termini impiegati in libri biblici quali Qoeleth e Daniele. Spesso il greco è usato anche da persone che utilizzano l’aramaico e l’ebraico. Molte sono, cioè, le persone bilingui o anche trilungui, anche in relazione all’attività che svolgono. I rabbini, per esempio, anche se talvolta ottimi conoscitori del greco, non lo usano come lingua di scrittura.

Un momento di rottura che segna nettamente un prima e un poi anche rispetto all’accettazione del confronto è rappresentato dalla presa di Gerusalemme da parte di Pompeo. “Fra tante sciagure quella che colpì maggiormente la nazione fu che il Tempio, fino a quel momento sottratto alla vista, fu svelato ad occhi stranieri. Infatti Pompeo con il suo seguito entrò in quella parte del Tempio dove soltanto al sommo sacerdote era lecito di entrare”[12]. L’ingresso nel Santo dei Santi è una profanazione che rende ostile a Pompeo tutta la popolazione, anche quella parte che, schierata con Ircano e con Antipatro contro Aristobulo, gli dovrebbe essere favorevole. Le polemiche si fanno più accese: Roma, potenza violenta e profanatrice, recherà con sé danni e morte suscitando il terrore e seminando distruzione. Così, nel terzo libro degli Oracoli Sibillini, la violenza e la brutalità dei Romani si accoppiano con la loro ingiustizia e la loro cupidigia, e nel quinto libro, violenti e prevaricatori, i Romani compiono ogni forma di massacro, uccidendo persone innocenti, compiendo incesti, sevizie, matricidi, zoofilia. Anche i testi di Qumran, sotto lo schermo del riferimento ai Kittim (sempre che siano identificabili con i Romani)[13] portano violenti attacchi ad un popolo invincibile e duro che semina il terrore e la devastazione: “da lontano essi vengono, dalle isole del mare, come aquile per divorare tutti i popoli, senza saziarsi. Con furore e irritazione, con ira bruciante e sguardo torvo, essi parlano con tutti (gli altri) popoli. Poiché questo appunto è quanto ha detto: «La tracotanza del loro volto è un vento dall’est, raccoglie prigionieri come sabbia»”[14]. Dopo la distruzione del Tempio, Roma, incarnazione del male, emblema della negatività, è rappresentata come una grande potenza invincibile i cui eserciti sottomettono ogni luogo della terra[15]. Già precedentemente, prima del conflitto, ai tempi di Filone, Roma ricca e potente era vista come l’Impero che estendeva il suo dominio su tutti i popoli, rappresentava un incombente pericolo anche per le popolazioni con cui al momento era in pace dacché in ogni istante la sua benevolenza poteva trasformarsi in ostilità, l’indifferenza in astio[16]. Tanto più dopo il conflitto e la sconfitta, Roma è il nemico malvagio, pienamente responsabile della distruzione, della profanazione, delle uccisioni avvenute a Gerusalemme. Anche laddove si sostiene che era volontà di Dio che Israele venisse punito per i suoi peccati, la città venisse distrutta, il Tempio incendiato e il potere lasciato nelle mani di Roma (Avodà Zarà 18a), questa non è meno colpevole per le iniquità commesse. Viene ribadito da più parti, comunque, che senza un intervento divino la distruzione del Tempio non avrebbe potuto avvenire; se la presenza divina non avesse abbandonato il Santuario, questo non avrebbe potuto essere devastato (II Baruch 77,8-10;8.2), né degli uomini avrebbero potuto toccare degli oggetti sacri. Nel momento in cui gli eserciti nemici entrarono in città, angeli inviati da Dio nascosero i vasi e gli arredi sacri perché non venissero profanati, distrussero fortificazioni altrimenti indistruttibili e e attaccarono il fuoco al Tempio[17]. Tale immagine del Tempio incendiato dagli angeli evoca racconti midrashici e talmudici relativi alla distruzione del primo Tempio. Sia nel primo che nel secondo caso appare inconcepibile che Dio abbia permesso la distruzione del suo Santuario da parte di mani sacrileghe. Se la comprensione dell’accaduto appare di difficile accettazione, difficili sono anche le prospettive per il futuro. A formulazioni che propugnano la rassegnazione e la sottomissione al dominio straniero, si affiancano tesi che considerano Roma inserita nella successione degli imperi, il quarto regno cui Dio assegna un fine nella storia, regno destinato comunque a perire. Di qui l’attesa del momento in cui anche Roma soccomberà e verrà il mondo messianico, in cui dopo le lotte tra Gog e Magog e le doglie dell’avvento del messia, si entrerà nella fine dei tempi. Ma, se tale è la prospettiva, è opportuno cercare di affrettarli? E nel frattempo, l’attesa sarà di studio o di lotta? di rassegnazione o di ribellione? Già al momento della distruzione del Tempio, Johanan ben Zakai, in polemica con il patriarca Rabban Simeon ben Gamliel, ottenuto il permesso imperiale, aveva aperto una scuola a Javneh ove ritirarsi a “insegnare ai discepoli, istituirvi le preghiere e osservare i precetti” (Avot de Rabbi Nathan A4). Accusato più volte di acquiescenza se non di tradimento, di fatto Johanan ben Zakai rappresenta la continuità dell’ebraismo, il tramite per cui la tradizione, anziché soccombere, ha potuto trasferirsi dal Tempio nelle case e nello studio e ha potuto, così, continuare ad esistere. La sopravvivenza sta nel popolo e nella sua vita collettiva, in un culto trasferito dai sacrifici alla preghiera attraverso il tramite dell’osservanza e dello studio. Con Javneh, dice Neusner, si compongono “l’osservanza universale della legge così che ogni ebreo è tenuto a fare ciò che normalmente ci si aspetta solo l’élites -i sacerdoti- compiano, il ruolo centrale degli scribi, il cui ideale professionale dava enfasi allo studio della Torah e la centralità degli uomini colti nel sistema religioso”[18]. A seguito della rivolta di Bar Kokvà, che era stato da più parti visto come il messia, molti maestri, continuando l’opera di studio di Johanan ben Zakai, respingeranno l’ipotesi di un avvento messianico in tempi brevi e condanneranno anzi il calcolo dei tempi. Già Johanan ben Zakai aveva affermato: “che giunga il messia e che io non lo veda” (Sanhedrin 98b) e Rabbi Nehunia ben Hakkanah aveva sostenuto: “chi accetta su di sé il giogo della Torah sarà liberato dal giogo del regno e dal giogo delle cose terrene, e chi distoglie da sé il giogo della Torah verrà sottoposto al giogo del regno e delle cose terrene” (Mishnah Avot 3,5). Ora, Rabbi Jonathan maledice “coloro che calcolano la fine dei tempi” (Sahnedrin 97b) e Rabbi Zerà sostiene che il computo dei tempi pospone la venuta del messia (Sanhedrin 97b). Di qui il ripiegarsi nello studio, l’accettazione del dominio straniero, la totale chiusura nei confronti di una cultura subita come odiata espressione del dominatore. Con ciò sembra sia, cioè, chiuso il rapporto tra le due culture e quella che resta sembra che sia una separatezza tra due mondi che, pur a contatto e dominati l’uno dall’altro, sembra però siano del tutto sordi reciprocamente. Di fatto, attraverso le correnti culturali e politiche romane e la patristica, concezioni e modi di pensare del giudaismo ellenistico passeranno trionfalmente nella cultura occidentale e la permeeranno.

Vorrei richiamare, in questo senso, una frase di E. R. Goodenough[19] a proposito della teoria politica di Filone, applicabile -io credo- anche ad altri ambiti teorici e generalizzabile al giudaismo alessandrino nel suo complesso: “l’accettazione da parte di Filone della teoria del diritto e delle prerogative divine del re insieme al suo rifiuto della divinità personale del re è la stessa distinzione posta dai primi apologeti cristiani. E’ la filosofia politica che, lungi dal rivestire poco importanza pratica, ebbe la capacità di rivedere le tendenze manifeste in Aureliano e Diocleziano, divenire la filosofia ufficiale dell’Impero cristiano, inscriversi nelle leggi di Giustiniano e porre, così, il modello di regalità fino al ventesimo secolo”.

(Testo redatto dall’Autrice



[1]Giosuè 1,8; trad. Luzzi.

[2]A. MOMIGLIANO, Una apologia del giudaismo: il “Contro Apione” di Falvio Giuseppe, in Pagine ebraiche, a c. di S. Berti, Milano 1987, p. 65.

[3]Les Juifs dans l’Empire Romain. Leur condition juridique, économique et sociale, Paris 1914.

[4]Gittin 56b; Avodà Zarà 11a.

[5]Avodà Zarà 10b.

[6]Cfr. Tacito, Annales II,85.4; Svetonio, Tiberius 36.

[7]Cfr. Apuleio, Florida 6; Plutarco, De Stoicorum Repugnantiis 38; Tacito, Annales II,85.4.

[8]Seneca, De Superstitione apud Augustinus, De Civitate Dei, VI.11, trad. D. Nizza.

[9]Seneca, Epistulae Morales XCV 47, trad. D. Nizza.

[10]Cfr. Giovenale, Saturae XIV,96-106.

[11]Cfr. Sothà 49b; Babà Qammà 52b; 82b.

[12]Flavio Giuseppe, La guerra giudaica I,152; trad. G. Vitucci.

[13]Se in precedenza i Kittim sono probabilmente identificabili con i Greci, a partire dal II sec. il riferimento è spesso ai Romani. Cfr. M. HADAS-LEBEL, Jérusalem contre Rome, Paris 1990, pp. 33-36 e L. MORALDI, I manoscritti di Qumran, Torino 1986, pp. 289-290 n.2.

[14]Commento ad Abacuc II,14.15; III,1; III,11-14; trad. L. Moraldi.

[15]Cfr. IV Esdra XI,41-43; II Baruch 39,5-6; Genesi Rabbà 2,4.

[16]Cfr. Filone, Legatio ad Caium XLVI,371.

[17]Cfr. II Baruch 80,1-5; 10-19.

[18]The Formation of Rabbinic Judaism: Yavneh (Jamnia) from A.D. 70 to 100, in Aufstieg und Neidergang der Römischen Welt, Berlin-New York 1979, p.22.

[19]The Politics of Philo Judaeus. Practice and Theory, Hildesheim 1967, p. 119.

 

 

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