ciclo di incontri - 17 Febbraio 1994
Quaderno n. 59
Corso di cultura ebraica (I° ciclo)
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La Legge orale e i Maestri del Talmud

Rav Elia Richetti
Comunità Ebraica di Milano
 

Raccontano alcuni midrashim che, quando il compilatore della Mishnà, rabbì Jehudà il Principe, giunse a morte, il popolo, che lo considerava il maggiore esponente dell'ebraismo della sua epoca, voleva erigere un monumento che lo ricordasse degnamente. I suoi discepoli, però, si opposero: "Il suo monumento esiste già: è la Mishnà!".

Ho citato questo aneddoto per dire che non parleremo direttamente dei maestri del Talmud, ma dei loro insegnamenti. Anche perché l'espressione "maestri del Talmud" può dare adito a qualche dubbio: agli occhi a gli orecchi di molti, il Talmud è totalmente sconosciuto. Basti dire che, quando il Talmud era appena stato terminato, un frate polemista cristiano per argomentare qualcosa contro l'ebraismo non trovò di meglio che citare un detto del Talmud, premesso da questa frase: "...sicut rabbinus Talmud dicebat...". Questo buon frate, probabilmente, pensava che i maestri del Talmud fossero i discepoli di un certo signore che si chiamava Talmud, ignorando che il termine Talmud significa "studio". Ma anche quando i cristiani si accorsero che non era un rabbino, bensì qualcosa di ben più ampio, il Talmud continuò a suscitare sospetti e dubbi.

In proposito, vorrei citare un episodio autobiografico. Durante l'ultima guerra, mio nonno, con la sua famiglia, lasciata Verona (dov'era rabbino capo), si rifugiò a Milano, in attesa di trasferirsi in Svizzera. Sotto falso nome, riuscì a farsi assegnare un piccolo appartamento all'interno di una casa padronale di proprietà di un gerarca fascista. Durante le serate invernali mio nonno e il signor Brunelli (così si chiamava) si ritrovavano spesso a discutere della situazione politica. L'argomento preferito del signor Brunelli era questo: "Noi siamo qui a soffrire, ma sapete di chi è la colpa? Degli ebrei! Voi credete che nelle sinagoghe si radunino a pregare? No, loro si radunano per vedere quale cristiano possano eliminare. D'altro canto nel loro Tàlmud (sic!) si dice che è un'opera meritoria rovinare i cristiani. Ma a me non la fanno, perché, sapete, io li riconosco a distanza!". Beh, ne aveva cinque in casa... Un altro episodio è capitato a mio padre: parlando con un autore di teatro a cui la polizia aveva interrotto la rappresentazione accusata di oscenità, si sentì dire che la colpa era degli ebrei. "Perché -diceva- io conosco bene il loro Tàlmud!". "Ah sì? -rispose mio padre- lei conosce il Talmud?". "Certo, lo porto sempre in tasca. L'ho rubato dalla scrivania del rabbino Shaumann!". Questo signore, evidentemente, ignorava che il Talmud è formato da venti volumi: portarlo in tasca mi sembra impresa piuttosto difficile...

Il Talmud, in effetti, è un mare magnum: è un insieme di detti, di insegnamenti, di commenti, di regole, un insieme in parte senza ordine, scritto e composto dai rabbini nel corso di un arco di tempo che va dal II secolo prima dell'era volgare al V d.e.v.. Forse è stata proprio questa sua astoricità e metastoricità a suscitare paure, sospetti e anche qualche censura. C'è una pagina, una sola su migliaia e migliaia di pagina, che la Chiesa -giustamente dal suo punto di vista- ha fatto togliere: si tratta di un passo del trattato di Sanhedrim (cfr. sotto) in cui si parla di un certo Gesù di Nazaret, accusato di idolatria, per mostrare come la sua condanna sia stata sacrosanta. In proposito dirò soltanto che, all'epoca di Gesù, il Sinedrio non comminava più condanne a morte e che questa pagina fa parte di una letteratura di polemica anticristiana in risposta alla polemica antiebraica.

Il Talmud si basa, vive e si nutre della Tora orale, la Tora she-be-al-pe (cfr. la relazione di P. DE BENEDETTI, supra). Un insegnamento molto antico che viene ripetuto a volte durante un certo cicli liturgico afferma che Mosè ricevette la Tora dal Sinai, la trasmise a Giosuè e Giosuè agli anziani, gli anziani ai profeti e i profeti agli uomini della grande assemblea. Si pensa comunemente che si tratti del Pentateuco (i cinque libri di Mosè): ma questa è la Tora scritta, che è stata data a tutto il popolo. Quando si parla, per esempio, della costruzione del santuario mobile, nella Torà scritta Dio dà l'ordine di predisporre vari arredi, descrivendoli piuttosto sommariamente. A Bezaleel, incaricato di costruirlo, Dio dice: "Guarda e fai come ti è stato mostrato sul monte", cioè sul Sinai, nel corso dei famosi quaranta giorni e quaranta notti in cui Dio trasmette a Mosè i suoi insegnamenti. Un altro esempio lo si può riscontrare in Dt 12,21: "Macellerai dal tuo bestiame e dal tuo gregge che Dio ti ha dato, come ti ho comandato". Ora, se noi analizziamo lettera per lettera tutto il testo della Tora, non troviamo nessuna indicazione su come macellare il bestiame, il che presuppone l'esistenza coeva della tradizione orale (checché ne dicano molti studiosi moderni, i quali sostengono che si tratti di belle invenzioni dei rabbini allo scopo di imporre il loro potere).

Ci sono riprove che ci fu una rivolta all'interno dell'accademia, quando il capo dell'accademia Rabban Gamaliel volle porre una specie di numero chiuso per accedere all'accademia: Rabban Gamaliel venne buttato fuori e l'accademia occupata dagli studenti. Solo dopo che Rabban Gamaliel chiese scusa al suo antagonista e dopo che costui proclamò di aver perdonato Gamaliel, gli vennero riaperte le porte, perché l'insegnamento della Tora she-be-al-pè è per tutti. Quella che Mosè ha trasmesso a Giosuè, Giosuè agli anziani, gli anziani ai profeti e i profeti agli uomini della grande assemblea non è la Torà orale, ma i metodi interpretativi della Torà orale, creando così, in pratica, il presupposto dell'autorità dei rabbini, di coloro cioè che non soltanto ricevevano la tradizione orale, ma dimostravano anche di possederla compiutamente, di averla capita e assimilata, così da attenere una investitura ufficiale.

Senonché, al tempo dell'imperatore Adriano, i Romani vietano lo studio della Torà. Di fronte al rischio della chiusura delle accademie e della dispersione della tradizione (la trasmissione orale dell'investitura), Rabbì Jehudà il Principe (così chiamato in quando discendente, oltre che di Davide, del più famoso maestro dell'ebraismo, Hillel, contemporaneo di Gesù) decide di mettere per scritto non la Torà orale, ma le discussioni dei maestri per ristabilire l'insegnamento originario della Torà orale, dal momento che, a furia di trasmissioni orali e del proliferare di accademie, si erano create delle divergenze di trasmissione. Ora, ristabilire l'unità era importante, dal momento che l'insegnamento doveva essere uno solo: Dio non poteva aver dato tanti insegnamenti che si contraddicevano tra loro. Bisognava, quindi, poter ricondurre tutto all'unità e, dove ciò non fosse stato possibile, cercare di caprine il motivo, visto che non si trattava di divergenze di opinioni, ma di una casistica molto articolata.

Nasce così la Mishnà. Il termine, di origine aramaica, significa "ripetizione", ma anche "insegnamento". La radice mshn indica qualcosa di inferiore rispetto al testo biblico che viene rivelato. Nella Mishnà per la prima volta vengono esposti alcuni dei principi ermeneutici, fissati nella Halakhà (da non confondere con la Haggadà, cioè l'indagine narrativa, l'esame di alcuni dettagli testuali che consentissero di ricavare, per così dire, il retrogusto del testo). Cosa succede, per esempio, quando un insegnamento viene riferito in modo diverso da varie fonti? Nelle accademie vigeva un principio, che noi chiameremmo democratico, secondo il quale prevaleva il parere della maggioranza. Tuttavia, più che dalll'amore per la democrazia, questo principio trovava il suo fondamento su di un versetto di Esodo: "Non seguirai la maggioranza nel dare del male; non ergerti in una lite per far piegare la decisione a favore della maggioranza" (23,2). La frase è poco chiara e ci sono varie interpretazioni. Una di queste dice che, laddove c'è una divergenza di opinioni, si segue quella della maggioranza: se infatti così ricorda un maggior numero di persone, è più probabile che sia quella giusta. La Mishnà fa in modo che la Torà orale diventi, per così dire, la bussola per la vita dell'ebreo.

Ci sono anche regole su cui non c'è discussione; esse vengono definite halakà le-Moshè mi-Sinai, "la norma data a Mosè sul Sinai". Ciò che non significa necessariamente che sia stata a Mosè sul Sinai, ma piuttosto che ha ottenuto una unanimità di consensi così ampia da avere lo stesso valore di una norme data sul Sinai. In proposito, vorrei portare due esempi di halakà le-Moshè mi-Sinai. Il primo riguarda la ben nota proibizione di svolgere di sabato qualsiasi melakà ("lavoro", Es 20,8-11), a cui fanno seguito queste parole: "Mosè radunò tutta la congrega dei figli di Israele e disse loro: Queste sono le cose che il Signore ha comandato di fare: per sei giorni sarà fatta la melakà, ma il settimo giorno sarà per voi consacrato, sabato di cessazione per il Signore; chiunque faccia in essa una melakà sarà passibile di morte e non accendete un fuoco in tutte le vostre abitazioni nel giorno dello shabbàt". Seguono poi le istruzioni per la costruzione del santuario (Es 31,1ss.). Tutti i maestri della Mishnà, unanimemente, concordano nel dire che i lavori da evitare di sabato sono del tipo di quelli svolti per la costruzione del santuario; vengono studiati ed elencati in numero di 39. Nessuno dei maestri contesta questo elenco e quindi nel Talmud si dice: "le 39 melakòt sono halakà le-Moshè mi-Sinai".

Il secondo esempio riguarda lo Shemà Israel (quello che è considerato il Credo dell'ebraismo), il quale viene recitato mattina e sera: in esso è ben chiaro il concetto dell'unità e unicità di Dio e quindi l'obbligo di servirlo. Tra i vari precetti relativi allo Shemà si dice: "Queste parole che io ti comando oggi siano sopra il tuo cuore, ecc., le legherai come segno sulla tua mano e saranno come frontale in mezzo ai tuoi occhi". Ora, io sfido chiunque a spiegarmi come si possano prendere delle parole comandate da Dio e legarle alla mano o per frontale. Qui interviene la tradizione orale che fissa il precetto dei tephillìn (l'origne semantica di questo termine indica una specie di talismano): si tratta di due capsule di cuoio di forma cubica, con un basamento fornito di un passante, attraverso il quale scorre una cinghia di cuoio, il tutto tinto di nero nella parte superiore. Le due capsule differiscono tra loro: una possiede un'unica cavità interna, mentre l'altra è suddivisa in quattro cavità, individuabili anche dall'esterno; nella prima si inserisce un rotolino di pergamena che contiene i quattro brani della Torà in cui compare il precetto dei tephillìn, nella seconda, invece, gli stessi quattro brani vengono inseriti nelle quattro cavità. La capsula con un'unica cavità viene legata sull'avambraccio, sul dito medio e sulla mano tramite la cinghia di cuoio, mentre l'altra viene legata alla fronte, in modo che la linea mediana venga a cadere in mezzo agli occhi, con una cinghia che avvolge il capo. La forma delle capsule,  il fatto stesso che ci debbano essere delle capsule, la loro forma, il colore, la cinghia,  i brani da metter dentro (quattro), l'ordine in cui vengono inseriti: tutto ciò è stato stabilito dalla Torà orale e nessuno, almeno fino all'epoca della riforma canaita, ha mai contestato questi precetti, i quali, perciò, sono diventati halakà le-Moshè mi-Sinai. Logicamente poi non sarà la Torà orale, ma le spiegazioni dei rabbini a giustificare il valore e il senso di ognuna di queste regole. A questo proposito è interessante notare che il braccio rappresenta l'azione e la capsula viene legata sul braccio sinistro, il lato del cuore, ad indicare i sentimenti, mentre la capsula fissata sulla testa rappresenta il collegamento con il pensiero e i sentimenti. Se poi ci si chiede perché viene fissata al braccio la capsula con una sola cavità e alla testa quella con quattro cavità, la risposta è che l'azione deve essere unitaria, mentre la mente funziona secondo diverse categorie logiche. Questi sono i significati più semplici; non mi soffermo sui significati mistici, anche perché non li conosco bene.

Con il passar del tempo, la Mishnà, da patrimonio da conoscere a memoria e da trasmettere da maestro a maestro, generazione dopo generazione, subì un processo di laicizzazione per effetto del quale divenne un testo scritto che chiunque poteva leggere e conoscere. In seguito, poi, alla diaspora, gli Ebrei si trovarono dispersi, chi in Babilonia chi nel vasto impero romano, ma la Mishnà continua ad essere studiata. Ci si accorge che esistevano degli insegnamenti al di fuori della Mishnà, i quali dovevano essere armonizzati con il testo della Mishnà, compito che venne assunto dagli studenti delle accademie. Di fronte al pericolo di chiusura delle accademie, si decise di raccogliere gli appunti di questi allievi che riportavano gli insegnamenti dei vari maestri. Nascono così le ghemaròt (ghemarà, termine aramaico, significa "studio"). Mishnà e ghemarà insieme formano il Talmud, del quale abbiamo due redazioni: quello di Gerusalemme (anche se con Gerusalemme non aveva niente a che fare dal momento che le accademie non c'erano più, ma si trovavano a Yarne, a Tiberiade e a Zippori) e quello di Babilonia, nato dalla armonizzazione degli studi delle due maggiori accademie di Babilonia, quella di Sura e quella di Pumbedita.

In questa raccolta di discussioni e di insegnamenti vengono applicati nuovamente quei criteri ermeneutici che sino a quell'epoca venivano trasmessi oralmente. Ma è all'epoca del Talmud di Gerusalemme che si trova un appunto di un maestro delle generazioni precedenti, rabbì Ishmael, il quale, elencando i vari criteri ermeneutici, dice: "La Torà (e a questo punto non ci interessa più se orale o scritta, dal momento che è un tutt'uno) si interpreta secondo tredici regole". C'è in questa espressione un chiaro riferimento ai tredici attributi di Dio. Le tredici regole sono:

 1) "per ragionamento a fortiori". Per spiegarla facciamo un esempio: l'inadempienza del sacrificio quotidiano nel santuario non comporta la massima pena divina, il kareth (per effetto della quale l'anima, dopo la morte, non godrà mai della conoscenza divina), che ricade su chi non ha compiuto il sacrificio pasquale; il sacrificio quotidiano, anche se contemplava azioni che normalmente sarebbero vietate di sabato, veniva offerto anche di sabato, tanto più quando il giorno dell'offerta del sacrifcio pasquale cade di sabato.

2) "per espressione uguale". A proposito di chi abbia fatto morire una donna incinta, colpendola involontariamente, la Torà dice: "Darai vita per vita", espressione che potrebbe indicare la condanna a morte del colpevole; ma poche righe sopra si dice che, se la donna non muore, il colpevole deve pagare e "dare secondo quanto stabiliscono i giudici": è evidente che qui "dare" significa pagare. Dato che viene usata la stessa espressione anche per il caso in cui la donna muoia, si tratta anche in quel caso del pagamento di un'ammenda e non di una dondanna a morte.

3) "per edificio base poggiante su di un versetto o due versetti". A proposito della solenne festa di Pésach si prescrive che è consentito svolgere i lavori necessari per la preparazione dei cibi: il versetto che stabilisce ciò è un "edificio base" per tutti i giorni di festa solenne, per i quali si applica il permesso di preparare cibi.

Le altre regole mi limiterò a menzionarle:

4) "per espressione generica ed espressione particolare".

5) "per espressione particolare ed espressione generica".

6) "per espressione generica, espressione particolare ed espressione generica: non puoi applicarla altro che a ciò che è analogo all'espressione particolare".

7) "per espressione generica che ha bisogno di una particolare ed espressione particolare che ha bisognodi una generica".

8) "ogni cosa che era compresa in un'espressione generica e si è staccata ad essa per insegnare, non se ne è staccata per insegnare solo a proposito di se stessa, ma se ne è staccata per insegnare a proposito di tutta l'espressione generica".

9) "ogni cosa, che era compresa in un'espressione generica e se ne è staccata per portare un altro elemento di un altro tipo, se ne è staccata per facilitare e non per aggravare".

10) "ogni cosa che era compresa in un espressione generica e se ne è staccata per portarci un altro elemento di tipo diverso, se ne è staccata per facilitare e per aggravare".

11) "ogni cosa, che era compresa in una regola generica e si è staccata da essa per essere sottoposta ad una norma nuova, non puoi farla tornare alla regola generica, a meno che il testo non ve la faccia ritornare esplicitamente".

12) "una cosa che si impari dal suo argomento ed una cosa che si impari dalla sua fine".

13) "due versetti che si smentiscono fino a che venga un terzo e decida tra di essi".

Tutti questi esempi danno l'idea dell'enorme attenzione di voler applicare meglio possibile e il più possibile la volontà divina. Del resto, lo scopo della Torà orale è di insegnare come fare e, insegnando come fare, insegnare anche perché fare. Il fatto che ancora oggi, attraverso queste tredici regole, si arrivi a stabilire delle regole per risolvere problemi quotidiani significa non soltanto un particolare legame del popolo ebraico con una logica, per così dire, spacca-capello (e, una volta spaccato, lo si divide ancora), ma anche la grande vitalità della Torà orale e, direi anche, la strenua volontà di continuare a vivere secondo la volontà divina.

E vediamo ora com'è strutturato il Talmud. In ebraico esso viene definito anche shash; si tratta, in realtà, di una sigla per shishà zedarìm, che significa "sei ordini". Il Talmud infatti è formato da sei ordini, ognuno dei quali tratta un certo gruppo di argomenti.

a) Il primo ordine, quello di Zeraìm (sementi), riguarda soprattutto questioni agricole, relative ai prodotti di Israele. Incidentalmente esso contiene anche un trattato (il primo) di berakhòt (le benedizioni ), che riguarda le preghiere. Il secondo trattato è quello di pe'ah (l'angolo del campo): nella Bibbia è indicato un precetto, secondo il quale, quando si miete un campo, bisogna lasciarne un angolo non mietuto cosicché i poveri possano usufruirne senza sentirtsi umiliati dall'andare a chiedere la carità; in questo secondo trattato ci sono regole relative al léqet (la spigolatura) e alla tzedakà (l'elemosina, anche se il concetto è più ampio: dare la possibilità a qualcuno di ritornare un possesso di ciò che ha perso, quindi si tratta più di una giusta redistribuzione che non di un'elemosina). Il terzo trattato (Dammài, letteralmente "questo cos'è?") si sofferma a definire le regole a proposito di quei prodotti che non si sa se sono stati sottoposti alle prelevazioni destinate come contribuzione per i leviti oppure no. Il quarto trattato (Kilàyim, mescolanze) riguarda le regole relative al divieto di mescolare sementi e radici troppe vicine l'una all'altra. Il quinto (Shevi'it) sull'anno sabbatico, cioè il fatto che i terreni dovevano tornare agli antichi proprietari, non potevano essere lavorati oppure entro che limiti potevano essere lavorati. Terumòt (il quinto trattato), tratta delle offerte dei prodotti dei campi per i sacerdoti, cioè i discendenti di Aronne che si occupavano del culto nel santuario. Ma'aserot (sesto trattato) riguarda le decime; la Tora prescrive diversi tipi di decima: c'è la prima decima che va al levita, la seconda che doveva essere goduta dal proprietario, ma solo a Gerusalemme. Nel ciclo settennale della vita agricola, per quattro volte esisteva la seconda decima, mentre per tre volte essa deve essere lasciata ai poveri. Il settimo trattato (Challah) riguarda la preparazione dell'impasto, in base alla quale una parte di esso doveva essere lasciato per i sacerdoti. L'ottavo si chiama Orlah, che significa "prepuzio": non ci si riferisce al precetto della circoncisione, bensì al precetto di non consumare i frutti dei primi tre anni di produzione dell'albero. Bikkurim (nono trattato) riguarda le primizie da portare al santuario. I trattati di questo primo ordine sono molto approfonditi nel Talmud di Gerusalemme e per nulla in quello Babilonese (tranne quello relativo alle benedizioni): si tratta infatti di regole che sono applicabile solo a Gerusalemme.

b) Il secondo ordine è quello di Moèd (ricorrenza) e comprende trattati legati alle varie ricorrenze annuali, tra le quali la più importante è quella di shabbàt (il sabato), a cui è dedicato il primo trattato. Il secondo trattato (Eruvìn, collegamenti) riguarda un aspetto del sabato, cioè il divieto di trasportare da una proprietà pubblica ad una privata e viceversa. Il terzo trattato (Pessachìm) è sulla Pasqua e in particolare sul sacrificio pasquale. Il quarto, quello di Sheqalìm (sicli), si sofferma sul precetto della Tora secondo il quale ogni anno gli uomini sopra i vent'anni dovevano pagare mezzo siclo al santuario (soldi con cui venivano acquistati gli animali per i sacrifici annuali): si trattano quindi tutti gli aspetti amministrativi della vita del santuario. Il quinto parla di Yomà, cioè del giorno per eccellenza, quello di Qippur, soffermandosi non solo sul giorno in sé, ma anche sul concetto stesso di "espiazione" e il periodo penitenziale. Sukkah (la capanna) è il sesto trattato: tratta dei precetti relativi alla festa delle capanne. Il sesto trattato si chiama Betzah (l'uovo), ma viene anche denominato Yom Tov (il giorno solenne) : si sofferma sulle regole circa le azioni vietate o permesse nei giorni festivi. Si chiama Betzah perché la prima parola della prima Mishnà con cui si apre il trattato è "betzah shenoldà be yom tov", cioé "se un uovo viene deposto in un giorno di festa solenne lo si può mangiare oppure no?", e da questo interrogativo comincia la discussione. Il settimo trattato si riferisce al Rosh Hashanah, il Capodanno, ma in esso si parla anche delle regole per la fissazione del capo-mese (ai tempi del Talmud infatti il calendario non era ancora definito e quindi le varie ricorrenze venivano fissate in base alle fasi lunari). L'ottavo trattato (Ta'anit, i digiuni), più che dei digiuni pubblici fissati già dai profeti, parla delle regole relative a digiuni eccezionali che i maestri possono fissare in caso di calamità o pericoli. Meghillah (il rotolo) approfondisce le regole del libro di Ester e quindi della festa di Purim che ad esso è collegata; incidentalmente si parla anche delle regole di lettura del rotolo della Tora. Il decimo trattato (Moèd Katàn, ricorrenze piccole) si sofferma sulle regole dei giorni intermedi alle feste (le mezze feste) in cui vengono consentite più azioni che non nei giorni di festa solenne. Si tratta anche di alcune regole dell'anno sabbatico, con particolare riferimento alla remissione dei debiti, alla liberazione dei servitori, ecc. Nell'undicesimo trattato, quello di Chagigah (offerte festive), si parla delle regole per il pellegrinaggio a Gerusalemme in occasione delle feste maggiori (Pasqua, Pentecoste, Capanne).Oltre a ciò ci sono anche ampie trattazioni di argomento mistico, in particolare la visione del carro della gloria divina da parte di Ezechiele. Questo secondo ordine (come del resto la maggior parte degli altri ordini) è più approfondito nel Talmud babilonese.

c) Il terzo ordine, chiamato Nashim (donne), tratta questioni matrimoniali e argomenti affini. Il primo trattato è Yevamòt (le cognate): si sofferma sulle regole relative alla ben nota legge del levirato e per analogia tutti i casi di unioni matrimoniali vietati. Ketubbòt è il trattato sui contratti nuziali: il matromonio comporta un trattato nuziale in cui lo sposo si assume diversi impegni, che vengono qui discussi. Il terzo trattato (Nedarìm, i voti) di per sé non ha niente a che vedere con questioni matrimoniali; tuttavia, siccome nei matrimoni ci sono dei voti che il marito può far annullare, esso rientra in questo ambito. Anche il quarto trattato (Nazir, il Nazireo) sembra non aver niente a che fare con il matrimonio: il nazireo è colui che si assume degli impegni di carattere ascetico, non previsti dalla normativa (per esempio, l'astensione dal vino oppure dal contatto con i morti, che sono considerati la massima forma di impurità rituale) e che, una volta terminato questo periodo di ascesi, deve portare un sacrificio di espiazione perché astenersi da cose permesse è considerato una cosa negativa. Il trattato di Sotàh (letteralmente "sospettata") riguarda una regola molto discussa e molto contestata (a torto): nella Tora si dice che se una donna viene sospettata di adulterio dal marito, viene poratata al santuario, il sacerdote riceve un'offerta dalla donna, la spettina, le strappa il vestito su una spalla e le dice: "Se non hai fatto niente di male, non ti succede nulla; se invece hai commesso qualcosa di male, diventerai uno sgorbio. Scrive poi i versetti della Tora relativi a questo precetto su una pergamena, lascia che l'inchiostro si asciughi, raschia l'inchiostro in modo che ne esca una polverina, la mescola ad acqua con un po' di terra del santuario e poi gliela fa bere. Non si tratta di una forma di magia: la Torà ne parla per invitare il marito a risolvere pacificamente le controversie matrimoniali. Il trattato di Ghittin (documenti di divorzio) tratta di tutti i casi di divorzio e le varie procedure per la redazione degli altri documenti legali. Ad esso segue il trattato di Kiddushin, relativo ai matrimoni. Ci si chiede perché sia stato messo per ultimo. Un battuta che circola spesso nelle accademie di studio, a proposito del fatto che il trattato dei divorzi precede quello dei matrimoni, è: perché Dio prevede prima la medicina e poi la malattia!

d) Il quarto ordine (Nezikìm, danni) si occupa di questioni legali. I primi tre trattati sono Bavà Kammà (prima porta), Bavà Metzià (porta di mezzo) e Bavà Batrà (porta ultima): si occupano di leggi civili, economiche, danni alle proprietà, passaggi di proprietà, ecc. Fa seguito il trattato di Senhedrìn (sinedrio) sulla composizione delle corti nei tribunali e sulle punizioni decretate dai tribunali circa le varie colpe. Un capitolo ampio di questo trattato discute di argomenti di carattere morale, cioè i principi di fede e le questioni relative al mondo a venire; esso comincia con le parole: "tutti gli Ebrei hanno una parte nel mondo a venire....questi invece sono quelli che non hanno parte al mondo a venire", e la prima categoria comprende coloro che dicono di non credere nell'al di là. Il trattato di Makkòt (percosse) è la continuazione logica di quello precedente perché tratta della fustigazione e delle sue modalità. La Tora dice che il numero massimo di frustate è 40 e che non bisogna aumentare, a discrezione del medico che assiste alla fustigazione. Si parla anche dei precetti relativi alle città di rifugio nei casi di omicidio involontario o preterintenzionale. Il sesto trattato, Shevuòt, si riferisce ai giuramenti: nella concezione ebraica chi giura lo fa chiamando sempre Dio come testimone, e quindi è meglio non giurare oppure farlo solo nei casi previsti. Il settimo trattato, Eduiòth, si sofferma sulle testimonianze: come vanno ascoltate, quando sono da ritenersi valide, e via dicendo. Segue il trattato di Avodàh Zaràh, relativo al culto straniero o idolatrico: vengono analizzati tutti i tipi conosciuti di idolatria allo scopo di saper conoscere qualunque deviazione ed eventualmente correre ai ripari; si parla anche di alcune regole relative ai cibi permessi, perché qualunque cibo che possa essere considerato idolatrico non può essere consumato. A questo punto si inserisce un trattato (Avot, i Padri), molto noto perché letto nel periodo di Pésach e nei sabati che precedono la festa di Pentecoste, che non ha nulla a che vedere con questioni legali: sono cinque capitoli che trattano l'atteggiamento da assumere nello studio della Torah e dei rapporti tra maestri e allievi. E' inserito nell'ordine di Nezikìm perché è un'introduzione al trattato successivo, Horayòt (decisioni), relativo alle decisioni prese autonomamente dai rabbini in base all'autorità che deriva loro dalla Torah, ma non su materia già trattata dalla Torah stessa. Nel trattato di Avot si dice che uno dei modi migliori per conoscere la Torah è di frequentare i maestri: è una chiara introduzione all'idea che i rabbini hanno un'autorità particolare nell'interpetazione della Torah.

e) Il quinto ordine (Kodashìm, "cose sacre") di per sé tratta di sacrifici e di regole relative al santuario, tranne uno dei trattati, quello di Chullìn, "cose profane", che riguarda le regole alimentari, la macellazione, le mescolanze di cibi, come preparare la carne, ecc.: le modalità di macellazione sono infatti analoghe a quelle dei sacrifici. Tralascio l'analisi dei singoli trattati di quest'ordine perché si tratta di questioni molto tecniche relative al santuario.

f) Più interessante è il sesto ordine (Teharòt, cose pure) che riguarda tutte le regole di purità e impurità rituale. Di quest'ordine c'è solo un trattato che viene approfondito nel Talmud babilonese, quello di Niddàh, relativo alle regole relative al ciclo mestruale e alla purità familiare.

Oltre a questi sei ordini, fanno spesso parte delle edizioni del Talmud i Masseròth Qetannòt, i piccoli trattati: sono brevissimi trattati di epoca tardiva (che non fanno parte della Mishna) ma comunque precedenti alla redazione del Talmud (seguono infatti lo stile della Mishna, ma non quello del Talmud). Fra essi c'è, per esempio, un ampliamento del trattato di Avot. C'è un trattato sulle regole per scrivere il rotolo della Torah. Uno, chiamato Semakòt ("avvenimenti lieti"), che tratta delle regole per i lutti (sic!). Può sembrare strana questa contraddizione di termini, ma è tipico dei maestri non usare parole troppo spiacevoli: il cieco è chiamato "il troppo illuminato", le punizioni che hanno colpito il popolo ebraico hanno punito "i nemici di Israele", il lutto si chiama "avvenimento lieto". C'è poi il Trattato della sposa relativo al comportamento di riservatezza e di modestia tipico delle donne sposate. Il Trattato di dérek eretz (la via della terra) sui comportamenti corretti in società.

Ora, per avere un'idea più precisa, vediamo com'è strutturata una pagina tipo del Talmud: si tratta del foglio n.2 del trattato di berakhòt, appartenente all'ordine di Zeraìm.

In alto c'è un'intestazione divisa in tre parti: titolo del capitolo (di solito preso dalle prime parole del capitolo stesso: nel nostro caso Me'ematài), numero del capitolo (I capitolo), titolo del trattato (nel nostro caso, berakhòt). A sinistra, una lettera indica la numerazione dei fogli: il Talmud viene numerato non a colonne, ma a fogli (faccio notare che il foglio n.1 non c'è mai, perché tutto ciò che precede la Torà she-be-al-pe, cioè un corretto comportamento sociale, è il vero foglio n.1), per cui si dirà: foglio n.2, lato A o lato B. Al centro del foglio c'è un testo scritto in carattere quadrato: esso comprende la Mishnà e la Ghemarà. Sul lato destro, in caratteri più piccoli, c'è il commento di Rashì, sigla per rabbì Shelomòh Itzaqì, un rabbino francese vissuto a cavallo tra il XI e il XII secolo: senza di lui, il 90% del Talmud sarebbe incomprensibile. Sul lato opposto ci sono le Tossafòt, le glosse, composte dagli allievi e, in particolare, dai nipoti di Rashì: sono glosse sia al testo del Talmud sia al commento di Rashì, con il quale a volte sono in disaccordo. Sulla destra del commento di Rashì, in alto, c'è scritto in piccolo masoret ashas, cioè "la tradizione del Talmud": vengono riportate le citazioni di passi che, presenti nel Talmud, si trovano però anche in altri testi. Al di sotto, ci sono le glosse del Bah (sigla per bai addash, "casa nuova"): si tratta del  commento di un rabbino polacco del Seicento. Sul lato opposto, in alto, ci sono indicazioni su dove ritrovare nei codici normativi successivi le regole qui riportate. Poco sotto, c'è il testo di rav Nissis Gaòn, uno studioso di Aleppo del XV sec.: spiega più diffusamente i concetti trattati nelle Tossafòt. Nella parte più bassa c'è il ghilaiòn ashas, il "margine del Talmud": è simile al masoret ashas, cioè un repertorio su dove trovare i passi analoghi, con la differenza che qui vi è la citazione completa. Infine, tra il testo del Talmud e i vari commenti, c'è qualche lettera, che serve ad indicare le citazioni bibliche presenti nel testo (libro e capitolo).

Questa è, come si diceva una pagina-tipo, ma dopo il testo del Talmud ci sono altri commenti e glosse. Nella maggior parte delle edizioni si trova una raccolta che si chiama Pisqé Tossafòt, riassunto delle decisioni normative messe in luce dalle tossafòt. Poi ci sono le hilkòt harosh, il commento del rabbino Hasher, un tedesco del XIII-XIV secolo, trasferitosi in Spagna, che ha commentato tutto il materiale talmudico per ricavare normative circa problemi nuovi (è un primo esempio di "letteratura dei responsi"). In alcune edizioni compare anche un riassunto di queste decisioni del Rosh, scritto dal figlio di Hasher. Nei trattati in cui c'è solo la Mishna compare il commento alla Mishna del Maimonide, commento molto ampio. Nella maggior parte delle edizioni c'è il Maharashal, sigla per rabbì Mohrenu Harav Shelomoh Luria, un rabbino polacco del XVI sec che si occcupa di emendamenti testuali del Talmud, ma anche di commenti di tipo midrashico al testo, in particolare sulle parti haggadiche. C'è poi il Maharshah, sigla per rabbì Shemuel Eliezer Eidels, rabbino anch'egli polacco (XVI-XVII), un testo che si divide in due parti: "innovazioni normative" e "innovazioni haggadiche". In molte edizioni c'è il Maharàm di Lublino: si punta molto sul metodo di studio del Talmud. Tra i testi più importanti ci sono: il Rif, rabbì Itzak Fassi (XI sec.: Fassi significa di Fez), il quale ha riassunto tutto il Talmud, eliminando tutte le discussioni che non miravano a stabilire una norma; il Ran, rabbì Missin ben Ereuven di Gerona (Spagna), è il commentatore principale del Rif; il Mordekài, rabbì Mordekài ben Hillel Ashkenatzì (XIII sec) che amplia le regole del Rif cercando di armonizzarle con le regole del Talmud. La maggior parte di questi testi è scritta in aramaico.

Leggiamo ora un po' di testo di Me'ematài, così a titolo puramente indicativo. La prima domanda che ci si pone è: "Da quando si legge lo Shemà alla sera?". La risposta è: "Dall'ora in cui i sacerdoti entrano a mangiare la loro prelevazione e fino alla fine della prima veglia secondo rabbì Eliezer; i sapienti dicono fino a mezzanotte e rabban Gamaliel sostiene fino a che sorge l'alba". Segue poi un episodio in cui si racconta che i figli di rabban Gamaliel sono tornati tardi, gli hanno chiesto com'era la regola, e via dicendo. Vediamo adesso la ghemarà: "Su cosa si basa il maestro della Mishna per spiegare il Me'ematài? Inoltre, perché tratta per primo lo Shemà della sera e non quello della mattina?". La riposta è: "Il maestro della Mishna si basa su un testo biblico dov'è scritto (Dt 6) nel tuo coricarti e nel tuo alzarti". Se ne ricava che: 1) c'è un testo della Tora che prescrive lo Shemà; 2) è scritto nel coricarti prima di nell'alzarti, quindi lo Shemà della sera viene prima di quello dellla mattina. "E così ci insegna: l'ora della lettura dello Shemà del coricarsi quand'è? Dall'ora in cui i sacerdoti entrano a mangiare le loro prelevazioni. O, se vuoi, lo ricava dalla creazione del mondo: è scritto: e fu sera e fu mattina: primo giorno (quando nelTalmud si dice "se vuoi, ti posso anche dire...", la seconda argomentazione è quella che taglia la testa al toro). Ma chi ha fatto la domanda non è ancora soddisfatto. "Se è così, più avanti si dice: alla mattina si dicono due benedizioni prima dello Shemà e una dopo e così alla sera". La risposta è: "L'autore dlla Mishna ha cominciato dalle regole della sera, poi da quelle del mattino". Questo esempio è il più semplice che sia nel Talmud.

Per concludere, direi soltanto che il Talmud è l'insieme del tutto, tutto quello che si può sapere del mondo ebraico. E, prima o poi, dal tutto qualcosa si riesce a capire.

 

 

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