ciclo di incontri - 20 Gennaio 1994
Quaderno n. 59
Corso di cultura ebraica (I° ciclo)
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Gli Agiografi

Rav Giuseppe Laras
Rabbino capo della Comunità Ebraica di Milano
 

Gli agiografi (Ketuvìn), a differenza dei profeti, sono definiti "parola ispirata", mentre quella dei profeti è definita "parola riferita". Ciò significa che alla base c'è una diversa intensità di ispirazione profetica. Mentre la predicazione di un profeta è il risultato di una comunicazione di Dio al profeta stesso, nei Ketuvìn si può e si deve parlare di una ispirazione che fa loro affermare una certa predicazione: si tratta di persone colpite dall'ispirazione e quindi del tutto affidabili, nonostante alcuni di essi risultino piuttosto problematici.

Data la vastità dell'argomento, ci sofferemo su tre testi che pongono delle problematiche esistenzial-filosofiche, da cui scaturiscono difficoltà in ordine al rapporto fede-vita: il libro di Giobbe, quello dei Salmi e quello di Qoelet.

1. Cominciamo da Giobbe. Il testo parte da una premessa biografica al cui centro c'è una persona, Giobbe appunto. In proposito, è nata -e continua ancora- una lunga discussione circa la realtà di questa figura: si tratta di stabilire se Giobbe sia una persona storicamente esistita oppure se rappresenti una "tipologia esistenziale", un simbolo. Non è questa la sede per approfondire il dibattito. E, in ogni caso, se anche Giobbe fosse veramente un personaggio paradigmatico e quindi inventato, resterebbe comunque in primo piano il problema che la sua tragedia individuale pone, cioè il problema della teodicea, del giusto che soffre e del malvagio che, invece, sta bene ed è felice. Si tratta, come si vede, di un problema universale, che riguarda gli esseri umani di ogni tempo. Bisogna anche dire, però, che una problematica di questo tipo non può che collocarsi in un ambito religioso, della creatura che si sente sotto l'occhio di Dio: "se Dio è buono, perché, a me che sono buono, manda delle sofferenze?". Chi si ponesse, infatti, in una prospettiva atea, non avrebbe nessun motivo per porsi di fronte ad un problema del genere: se Dio non esiste, significa che la realtà è inintelleggibile e quindi è inutile porsi domande che non possono avere una risposta. L'uomo religioso, invece, esige una risposta, risposta che solo Dio può dargli. Faccio notare che questo problema è più tragico nella prima parte del dilemma (perché il giusto soffre?) che non nella seconda (perché il malvagio sta bene?): se infatti il giusto stesse bene, il fatto che ci siano malvagi che non soffrono non provocherebbe eccesivo scandalo.

Leggiamo il testo. "C'era nella terra di Uz un uomo chiamato Giobbe: uomo integro e retto, temeva Dio ed era alieno dal  male. Gli erano nati sette figli e tre figlie, possedeva settemila pecore e tremila cammelli, cinquecento paia di buoi e cinquecento asine, e molto numerosa era la sua servitù. Quest'uomo era il più grande fra tutti i figli d'Oriente. Ora i suoi figli solevano andare a fare banchetti in casa di uno di loro, ciascuno nel suo giorno, e mandavano ad invitare anche le tre sorelle per mangiare e bere insieme. Quando avevano compiuto il turno dei giorni del banchetto, Giobbe li mandava a chiamare per purificarli; si alzava di buon mattino e offriva olocausti secondo il numero di tutti loro. Giobbe infatti pensava: "Forse i miei figli hanno peccato e hanno offeso Dio nel loro cuore". Così faceva Giobbe ogni volta" (1,1-5). Si tratta della presentazione del personaggio, della sua famiglia e della sua posizione sociale. Giobbe, da uomo religioso, pregava Dio perché temeva che i figli nella prosperità dimenticassero il loro Creatore (1,5).

Ecco che, però, scoppia la tragedia. "Un giorno, i figli di Dio andarono a presentarsi davanti al Signore e anche Satana andò in mezzo a loro. Il Signore chiese a Satana: "Da dove vieni?". Satana rispose al Signore: "Da un giro sulla terra che ho percorsa". Il Signore disse a Satana: "Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro e retto, teme Dio ed è alieno dal male".  Satana rispose al Signore e disse: "Forse che Giobbe teme Dio per nulla? Non hai forse messo una siepe intorno a lui e alla sua casa e tutto quanto è suo? Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani e il suo bestiame abbonda sulla terra. Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha e vedrai come ti benedirà in faccia!". Il Signore disse a Satana: "Ecco, quanto possiede è in tuo potere, ma non stender la mano su di lui". Satana si allontanò dal Signore. Ora accadde che un giorno, mentre i suoi figli e le sue figlie stavano mangiando e bevendo in casa del fratello maggiore, un messaggero venne da Giobbe e gli disse: "I buoi stavano arando e le asine pascolando vicino ad essi, quando i Sabei sono piombati su di essi e li hanno predati e hanno passato a fil di spada i guardiani. Sono scampato io solo che ti racconto questo". Mentre egli ancora parlava, entrò un altro e disse: "Un fuoco divino è caduto dal cielo: si è attaccato alle pecore e ai guardiani e li ha divorati. Sono scampato solo io che ti racconto questo". Mentr'egli ancora parlava, entrò un altro e disse: "I Caldei hanno formato tre bande: si sono gettati sopra i cammelli e li hanno presi e hanno passato a fil di spada i guardiani. Sono scampato solo io che ti racconto questo". Mentr'egli ancora parlava, entrò un altro e disse: "I tuoi figli e le tue figlie stavano mangiando e bevendo in casa del fratello maggiore, quand'ecco un vento impetuoso si è scatenato da oltre il deserto: ha investito e quattro lati della casa, che è rovinata sopra i giovani e sono morti. Sono scampato solo io che ti racconto questo". Allora Giobbe si alzò e si stracciò le vesti, si rase il capo, cadde a terra, si prostrò e disse: "Nudo uscii dal seno di mia madre e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!". In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di ingiusto" (1,6-22). Come si vede, l'atteggiamento di Giobbe suscita il sospetto di Satan, il quale invita Dio a madargli delle disgrazie per verificare se la sua fede si manterrà. La risposta di Giobbe è un riconoscere che è giusto benedire Dio sia quando ci dà la felicità sia quando ci manda la sofferenza (1,21).

A questo punto, la vicenda potrebbe anche concludersi, nel senso che Giobbe ha superato la prova. Invece, le prove non sono ancora finite. "Quando un giorno i figli di Dio andarono a presentarsi al Signore, anche Satana andò in mezzo a loro a presentarsi al Signore. Il Signore disse a Satana: "Da dove vieni?". Satana rispose al Signore: "Da un giro sulla terra che ho percorsa". Il Signore disse a Satana: "Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro e retto, teme Dio ed è alieno dal male. Egli è ancora saldo nella sua integrità; tu mi hai spinto contro di lui, senza ragione, per rovinarlo". Satana rispose al Signore: "Pelle per pelle; tutto quanto ha, l'uomo è pronto a darlo per la sua vita. Ma stendi un po' la mano e toccalo nell'osso e nella carne e vedrai come ti benedirà in faccia!". Il Signore disse a Satana: "Eccolo nelle tue mani! Soltanto risparmia la sua vita". Satana si allontanò dal Signore e colpì Giobbe con una piaga maligna, dalla pianta dei piedi alla cima del capo. Giobbe prese un coccio per grattarsi e stava seduto in mezzo alla cenere. Allora sua moglie gli disse: "Rimani ancora fermo nella tua integrità? Benedici Dio e muori!". Ma egli le rispose: "Come parlerebbe una stolta tu hai parlato! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?". In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra" (2,1-10). Da queste parole, sembra che Giobbe, nonostante la tragedia personale, abbia vinto la scommessa.

Tuttavia la situazione muta: "Nel frattempo tre amici di Giobbe erano venuti a sapere di tutte le disgrazie che si erano abbattute su di lui. Partirono, ciascuno dalla sua contrada, Elifaz il Temanita, Bildad il Suchita e Zofar il Naamatita, e si accordarono per andare a condolersi con lui e a consolarlo. Alzarono gli occhi da lontano, ma non lo riconobbero e, dando in grida, si misero a piangere. Ognuno si stracciò le vesti e si cosparse il capo di polvere. Poi sedettero accanto a lui in terra, per sette giorni e sette notti, e nessuno gli rivolse una parola, perché vedevano che era molto grande il suo dolore" (2,11-13). Dopo sette giorni e sette notti, Giobbe prende a maledire il giorno della sua nascita: "Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: E' stato concepito un uomo! Quel giorno sia tenebra, non lo ricerchi Dio dall'alto, né brilli mai su di esso la luce. Lo rivendichi tenebra e morte, gli stenda sopra una nube e lo facciano spaventoso gli uragani del giorno!" (3,3ss.): dall'accettazione alla ribellione. Il motivo di questa ribellione viene spiegato a Giobbe dai suoi amici nella lunga serie di discorsi (capp. 4 e ss.) i quali ruotano intorno ad un solo concetto: Giobbe, se tu soffri è perché hai peccato! (dal momento che Dio è buono, la sofferenza è il sigillo del peccato).

Questo ragionamento degli amici fa arrabbiare ancora di più Giobbe. La domanda che ci poniamo in proposito è: ha ragione Giobbe a ribellarsi? Tale domanda nasce dal fatto che noi, a differenza di Giobbe, siamo a conoscenza dell'antefatto da cui è scaturita la tragedia (l'intervento del Satan) e quindi possiamo ragionevolmente dire che Giobbe ha tutte le ragioni per ribellarsi. Ma è sufficiente questo per essere solidali con lui? Io credo di no, perché Giobbe non può escludere di essere in qualche modo responsabile: chi può dire di essere innocente?

A questo punto, interviene un quarto amico, Eliu (cap. 32ss.), il quale introduce una diversa tesi argomentativa. Si parte da una premessa, svolta con delle domande: ti sei mai chiesto il motivo dei fenomeni naturali? Della nascita degli esseri viventi. Allora, perché vuoi entrare nella mente di Dio e cercare di capire perché Dio fa qualcosa? L'argomentare di Eliu mira ad introdurre una prospettiva diversa rispetto a quella degli altri tre amici, e cioè che non tutte le sofferenze si possono spiegare con una colpa precedente che le ha generate, anche se ciò non mette in discussione la bontà di Dio. Noi non possiamo sapere in base a quale criterio Dio dà a ciascuno il suo: ciò che a noi sembra un male, per Dio può non esserlo. E' difficile argomentare in questo modo con una persona distrutta, lacerata, in pieno momento di ribellione, ma Eliu vuole affrontare il problema secondo un'ottica più elevata e non più così semplicistica come quella dei tre amici. Questo è l'importante insegnamento del libro di Giobbe: c'è anche la sofferenza che non deriva da una colpa. E' un chiaro invito all'umiltà, non solo in chiave religiosa, ma anche in chiave umana, esistenziale: è il tema della limitatezza umana. Gli argomenti di Eliu fanno risvegliare Giobbe, il quale riconosce che ha fatto male ad accusare Dio.

La conclusione del libro, infatti, ci presenta Dio che incolpa i tre amici (42,7-9) e reintegra Giobbe nel suo primitivo stato (42,10-16). Tale conclusione ci mostra chiaramente il tema della problematicità delle fede, che spesso è anche ribellione.

Nell'ottica biblica essere religiosi non significa stare sempre con la testa piegata e non ribellarsi mai; la fede, al contrario, è spesso attraversata dal dubbio. Questa problematica ha trovato nell'Ebraismo anche altre soluzioni, altre risposte. Una di queste è rappresentata da una scuola di pensiero secondo la quale le sofferenze che non possono essere spiegate secondo l'ottica umana sono "sofferenze d'amore": Dio fa soffrire chi ama. Quando si parla di sofferenza ci si riferisce sia alla dimensione terrena sia a quella ultraterrena: c'è un premio e un castigo in questo mondo e un premio e un castigo nel mondo a venire. Secondo questa dottrina, per concedere un premio completo nel mondo eterno Dio introduce un po' di sofferenza in questo mondo, perché la sofferenza costringe le persone a guardare alla propria fragilità e quindi a non peccare.

Un'altra dottrina è finalizzata a non far nascere questa problematica dolorosa che porta alla ribellione, sulla base della costatazione che in questo mondo non c'è un premio di felicità: se soffriamo, possiamo interrogarci sul perché di questa sofferenza, ma non dobbiamo meravigliarci più di tanto, dal momento che il premio non è di questo mondo.

2. A proposito della problematica relativa al giusto che soffre, il primo libro dei Ketuvin, i Salmi, presenta un'ottica diversa a cui accenneremo brevemente. L'autore dei Salmi sembra non vedere la contraddizione presente invece in Giobbe: per lui, Dio protegge i giusti e punisce i malvagi.

Cominciamo dal Salmo 1: "Beato l'uomo che non segue il consiglio degli empi, non indugia nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli stolti, ma si compiace della legge del Signore, la sua legge medita giorno e notte. Sarà come un albero piantato lungo corsi d'acqua, che darà frutto a suo tempo e le sue foglie non cadranno mai, riusciranno tutte le sue opere. Non così, non così gli empi, ma come pula che il vento disperde; perciò non reggeranno gli empi nel giudizio, né i peccatori nell'assemblea dei giusti. Il Signore veglia sul cammino dei giusti, ma la via degli empi andrà in rovina". Qui si vede chiaramente l'assoluta certezza del salmista circa il destino felice dei giusti e la condanna per i malvagi. C'è una fede cieca e senza dubbi nella presenza e nella bontà di Dio, una fede che mette al riparo dalla contraddizione tra ciò che si crede e ciò che la realtà presenta. La fede del salmista è rara da vedere e da sperimentare. Per dirla con una battuta, il libro dei Salmi è la lettura giusta per chi non ha problemi in ordine alla propria fede. E' da notare che nella letteratura ebraica, biblica e post-biblica, l'uomo di fede non necessariamente è pio e santo: la santità si realizza nel superamento delle condizione concrete dell'esistenza e, quindi, si tratta di un percorso molto conflittuale e contraddittorio, anche a prezzo di cali di tensione spirituale. Si pensi, per fare un solo esempio, a Mosè, il più grande di tutti i profeti: non si può certo dire che il suo itinerario di fede sia stato lineare e privo di incertezze. La religiosità espressa dai Salmi, invece, è talmente forte che non riesce a vedere il conflitto: secondo questa prospettiva, infatti, non è vero che il malvagio sta bene (1,4) e il giusto soffre, come invece di afferma in Giobbe.

Vediamo un altro esempio, il Salmo 92: "Come sono grandi le tue opere, Signore, quanto profondi i tuoi pensieri! L'uomo insensato non intende e lo stolto non capisce: se i peccatori germogliano come l'erba e fioriscono tutti i malfattori, li attende una rovina eterna: ma tu sei l'eccelso per sempre, Signore. Ecco, i tuoi nemici, o Signore, ecco, i tuoi nemici periranno, saranno dispersi tutti i malfattori. Tu mi doni la forza di un bufalo, mi cospargi di olio splendente. I miei occhi disprezzeranno i miei nemici, e contro gli iniqui che mi assalgono i miei orecchi udranno cosa infauste. Il giusto fiorirà come palma, crescerà come cedro del Libano; piantàti nella casa del Signore, fioriranno negli altri del nostro Dio. Nella vecchiaia daranno ancora frutti, saranno vegeti e rigogliosi, per annunziare quanto è retto il Signore: mia roccia, in lui non c'è ingiustizia" (92,6-16). Come si vede, questa è una vera e propria risposta a Giobbe! Con gli occhi della fede, tutto ciò che appare è una realtà destinata a sparire. La problematica di Giobbe qui non si pone; non perché non esiste, ma perché viene relativizzata.

3. Passiamo ora al libro di Qoelet. Si tratta di un testo molto difficile che ha causato molti problemi agli ordinatori del canone, perché si diceva che era un libro contraddittorio e che conteneva anche espressioni eretiche. Qoelet è lo pseudonimo di Salomone, autore anche del Cantico dei Cantici (scritto in giovinezza) e dei Proverbi (scritto nella maturità): mentre nei primi due testi compare il nome di Salomone, in Qoelet compare il suo pseudonimo (questo nome deriva da qahal, assemblea, quindi qoelet significa "predicatore").

Leggiamo qualche verso iniziale: "Vanità delle vanità, dice Qoelet, , vanità delle vanità, tutto è vanità. Quale utilità ricava l'uomo da tutto l'affanno per cui fatica sotto il sole? Una generazione va, una generazione viene, ma la terra rimane sempre la stessa. Il sole sorge e il sole tramonta, si affretta verso il luogo da dove sorgerà. Il vento soffia a mezzogiorno, poi gira a tramontana; gira e rigira e sopra i suoi giri il vento ritorna. Tutti i fiumi vanno al mare, eppure il mare non è mai pieno: raggiunta la loro meta, i fiumi riprendono la loro marcia. Tutte le cose sono in travaglio e nessuno potrebbe spiegarne il motivo. Non si sazia l'occhio di guardare né mai l'orecchio è sazio di udire. Ciò che è stato sarà e ciò che si è fatto si rifarà; non c'è niente di nuovo sotto il sole. C'è forse qualcosa di cui si possa dire: "Guarda, questa è una novità?". Proprio questa è già stata nei secoli che ci hanno preceduto. Non resta più il ricordo degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà memoria presso coloro che verrano in seguito" (1,1-11). Che significa vanità? Che è assurdo e inspiegabile tutto ciò che vediamo intorno a noi. Ed è assurdo perché la realtà osservata da Qoelet ha una dimensione circolare e quindi di essa non si riesce a trovare il bandolo. Ciò vale anche sul piano individuale, esistenziale. E' una specie di macchina che gira, in mezzo alla quale c'è l'uomo che rischia di essere stritolato se non si lascia trasportare da questo movimento: l'occhio non si sazia, l'orecchio non si soddisfa, tutto si consuma, tutto è vecchio e l'uomo non riesce ad arrivare al cuore dei problemi dal momento che la sua esistenza è breve.

Procediamo con la lettura: "Io, Qoelet, sono stato re d' Israele in Gerusalemme. Mi sono proposto di ricercare e investigare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo. E' questa un'occupazione penosa che Dio ha imposto agli uomini, perché in essa fatichino. Ho visto tutte le cose che si fanno sotto il sole ed ecco tutto è vanità e un inseguire il vento. Ciò che è storto non si può raddrizzare e quel che manca non si può contare. Pensavo e dicevo tra me: "Ecco, io ho avuto una sapienza superiore e più vasta di quella che ebbero quanti regnarono prima di me in Gerusalemme. La mia mente ha curato molto la scienza e la sapienza". Ho deciso allora di conoscere la sapienza e la scienza, come anche la stoltezza e la follia, e ho compreso che anche questo è un inseguire il vento, perché molta sapienza, molto danno; chi accresce il sapere, aumenta il dolore" (1,12-18). Qoelet, che è un intellettuale, nel tentativo di capirci qualcosa, decide di sperimentare le vie della sapienza e quelle della follia. Ma si accorge che anche questo è uno sforzo inutile. "Io ho detto in cuor mio: Vieni, dunque, ti voglio mettere alla prova con la gioia: Gusta il piacere! Ma ecco, anche questo è vanità. Del riso ho detto: Follia!, e della gioia: A che giova?. Ho voluto soddisfare il mio corpo con il vino, con la pretesa di dedicarmi con la mente alla sapienza e di darmi alla follia, finché non scoprissi che cosa convenga agli uomini compiere sotto il cielo, nei giorni contati della loro vita" (2,1-3). Qui Qoelet fa un'operazione più arrischiata perché apparentemente si dà alla follia più sfrenata, ma con la mente lucida.

"Ho intrapreso grandi opere, mi sono fabbricato case, mi sono piantato vigneti. Mi sono fatto parchi e giardini e vi ho piantato alberi da frutto di ogni specie; mi sono fatto vasche, per irrigare con l'acqua le piantagioni. Ho acquistato schiavi e schiave e altri ne ho avuti nati in casa e ho posseduto anche armenti e greggi in gran numero più di tutti i miei predessori in Gerusalemme. Ho accumulato anche argento e oro, ricchezze di re e di provincie; mi sono procurato cantori e cantatatrici, insieme con le delizie dei figli dell'uomo. Sono diventato grande, più potente di tutti i miei predecessori in Gerusalemme, pur conservando la mia sapienza. Non ho negato ai miei occhi nulla di ciò che bramavano, né ho rifiutato alcuna soddisfazione al mio cuore, che godeva d'ogni mia fatica; questa è stata la ricompensa di tutte le mie fatiche. Ho considerato tutte le opere fatte dalle mie mani e tutta la fatica che avevo durato a farle: ecco, tutto mi è apparso vanità e un inseguire il vento: non c'è alcun vantaggio sotto il sole" (2,4-11). Qoelet vuole sperimentare i vantaggi di una vita vissuta nella spensieratezza. Ma tutta la sua fatica non serve a nulla. "Ho considerato poi la sapienza, la follia e la stoltezza. Che farà il successore del re? Ciò che è già stato fatto. Mi sono accorto che il vantaggio della sapienza sulla stoltezza è il vantaggio della luce sulle tenebre: Il saggio ha gli occhi in fronte , ma lo stolto cammina nel buio. Ma so anche che un'unica sorte è riservata a tutti e due. Allora ho pensato: Anche a me toccherà la sorte dello stolto! Allora perché ho cercato di essere saggio? Dov'è il vantaggio? E ho concluso: Anche questo è vanità. Infatti né del saggio né dello stolto resterà un ricordo duraturo e nei giorni futuri tutto sarà dimenticato. Allo stesso modo muoiono il sagggio e lo stolto" (2,12-16). Qui si vede chiaramente la contradditorietà delle affermazioni di Qoelet e questo spiega le incertezze circa l'inserimento del libro nel canone, tanto che fu avanzata un'ipotesi interpretativa secondo la quale il testo sarebbe il risultato della fusione di due punti di vista contrapposti: da una parte il ragionamento del sapiente e dall'altra il ragionamento del pio, del filosofo e del religioso. Se infatti si procede nella lettura, si trovano altre contraddizioni. L'esegesi moderna, tuttavia, pensa ad una unitarietà del testo. Un'altra ipotesi tende a vedere il testo come una raccolta di annotazioni della vicenda personale di Salomone, una specie di percorso spirituale che si sviluppa nel tempo. Qoelet è un uomo di fede che pensa e quindi si trova in difficoltà, perché la sua fede viene messa in crisi, crisi dalla quale la sua fede viene rafforzata, non annullata. Qoelet, alla ricerca di chiarezza, si accorge, per così dire, che non sempre 2+2 fa 4.

Vediamo il cap. 3. "Per ogni cosa c'è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo. C'è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante. Un tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per demolire e in tempo per costruire. Un tempo per piangere e un tempo per ridere; un tempo per gemere e un tempo per ballare. Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli; un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci. Un tempo per cercare e un tempo per perdere; un tempo per serbare e un tempo per buttare via. Un tempo per stracciare e un tempo per cucire; un tempo per tacere e un tempo per parlare. Un tempo per amare e un tempo per odiare; un tempo per la guerra e un tempo per la pace" (3,1-8). Nel contesto di Qoelet queste affermazioni vogliono rafforzare la sua costatazione di fondo, cioè che le cose vanno indipendentemente da noi e che quindi non è possibile cambiare la realtà. Se ciò avviene sul piano cosmologico, avviene anche sul piano etico: se l'uomo, per così dire, prende la marea ascendente, va tutto bene, altrimenti è spacciato, indipendentemente dai suoi sforzi.

Se si prosegue la lettura, soprattutto la parte conclusiva, ci si accorge che lo spettacolo desolante che Qoelet descrive è il risultato di una vita vissuta senza una fede forte in Dio: se non si ha la certezza di essere in questo mondo per volontà di Dio, si arriva alla conclusione che tutto è assurdo. Qoelet è convinto che Dio sia giusto; sebbene egli non veda la giustizia in questo mondo, è tuttavia convinto che Dio sia giusto nell'altro mondo. Ecco perché ripete spesso "sotto il sole e sotto il cielo", perché si rende conto che l'ingiustizia è propria del mondo materiale, non di quello ultraterreno. La sua analisi della realtà cosmica ed etica risulta spietata: chi è privo di fede può sentirsi stritolato da questo meccanismo. Non bisogna però pensare che Qoelet disprezzi la vita, anzi la ama; e infatti alla fine ci riserva un consiglio: "Conclusione del discorso, dopo che si è ascoltato ogni cosa: temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo per l'uomo è tutto. Infatti, Dio citerà in giudizio ogni azione, tutto ciò che è occulto, bene o male" (12,13-14). Con queste parole Qoelet dice che l'uomo non deve e non può scandagliare il mistero della vita, ma temere Dio ed essere certo che Dio porterà in giudizio, nel bene e nel male, le azioni dell'uomo, anche quelle nascoste. Ed è proprio questa conclusione che giocò favorevolmente per l'accoglimento del libro nel canone biblico.

 

 

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