ciclo di incontri - 16 Dicembre 1993
Quaderno n. 59
Corso di cultura ebraica (I° ciclo)
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I Profeti

Rav Roberto Colombo
Comunità Ebraica di Milano
 

Dividerò la  mia conversazione in due parti: nella prima daremo una panoramica di carattere generale sulla figura del profeta così come emerge nella tradizione ebraica, mentre nella seconda prenderemo in considerazione una figura esemplare di profeta, qual è Eliah.

In ebraico, "profeta" si dice navi'i, cioè il "chiamato", "colui che porta la parola di Dio". Per enucleare più precisamente questa figura ci soffermeremo su tre aspetti fondamentali: i  limiti della profezia, chi può essere profeta e, infine, i livelli di profezia.

1. Cominciamo dai limiti. Il profeta è colui che ha un incontro con Dio e che vede qualcosa che agli altri non è dato vedere; eppure nel Talmud Babilonese si dice che il massimo dell'aspirazione per un uomo è di essere un saggio (colui che vede attraverso la mente) e non un profeta (colui che vede attraverso una visione che Dio gli mostra). In tutta la Bibbia, a proposito dei profeti,  non si parla mai dell'aldilà: ciò significa che nessun profeta ha visto cosa succede dopo la morte (primo limite). Il profeta, secondo la tradizione ebraica, può vedere solo cose che avvengono su questa terra e non quelle che sono slegate dal mondo terreno. Ciò non toglie che egli, nel momento della profezia, possa vedere cose che noi non potremmo vedere, come, per esempio, la venuta del Messia e le catastrofi che porterà l'epoca messianica (secondo la tradizione ebraica, infatti, vi è la necessità di guerre, catastrofi e violenze che accompagnino la venuta del Messia perché egli può venire solo in un mondo che deve essere ricostruito). Il profeta quindi può vedere il futuro, ma non ciò che avverrà oltre la vita terrena. Il saggio, invece, che ha un rapporto con Dio non attraverso la visione ma attraverso la propria mente, può arrivare a capire mediante la Scrittura ciò che avverrà nel mondo dell'aldilà. Ne consegue che i limiti del profeta non sono i limiti del saggio e i limiti del saggio (vedere cosa avverrà nel futuro nel mondo terreno) non sono quelli del profeta. Non a caso il Talmud Babilonese dice che il profeta è meglio del saggio e che il saggio è meglio del profeta; e comunque, dal momento in cui è terminato il tempo della profezia (vale a dire con la chiusura del canone biblico) e nessuno può più dire di aver avuto una profezia, a noi non rimane che scoprire la volontà di Dio attraverso la nostra mente.

Altro limite è che il profeta, a differenza del saggio, ha un tempo limitato nella storia: egli è limitato dalla storia, il saggio invece la continua. Ci sono però profeti che vedono ciò che si trova in cielo: per esempio Ezechiele vede il carro divino il quale non fa più parte di questo mondo. Bisogna ricordare a questo proposito che nel momento della creazione del mondo Dio ha posto dei limiti ben precisi nei quali nemmeno lui può entrare: nel libro dei Salmi, infatti,  si dice che il cielo è di Dio e la terra dell'uomo. Ciò non significa che Dio non abbia rapporti con gli uomini, ma che, quando Dio interviene nel mondo, dovrà farlo, per essere compreso, con termini umani; si tratta, in un certo senso, di una violenza che Dio fa a se stesso, dal momento che la divinità dovrebbe parlare in termini divini. Quando nella Bibbia si dice che Dio "discende" sul monte Sinai, si vuole indicare una discesa di livello linguistico da parte di Dio. Allorché, dunque, Ezechiele vede il carro divino, entra in una dimensione non più umana, quindi la sua visione sembrerebbe non avere dei limiti; in realtà, ciò significa, secondo i commentatori, che la divinità ha un rapporto fisico con il mondo terreno.

2. Vediamo ora chi può essere profeta. Partiamo dal presupposto che non tutti i profeti hanno la stessa importanza e non tutti vedono le stesse cose. Una prova di ciò l'abbiamo già nella divisione della Bibbia: Torah, Profeti anteriori, Profeti posteriori e Agiografi. Perché si dividono i profeti anteriori da quelli posteriori? Perché un profeta come Daniele viene compreso tra gli agiografi? Evidentemente perché profeti che sono in una parte della Bibbia non hanno la stessa importanza di profeti che si trovano in un'altra parte della Bibbia. Chi è dunque colui che può diventare profeta?

In primo luogo, il profeta deve sapere che è Dio, e solo Dio, che lo fa profetizzare, il che significa che due persone dello stesso grado culturale possono diventare uno profeta e l'altro no, perché è sempre Dio a decidere chi può essere profeta. Ci vuole, però, anche una certa predisposizione: chi non ha una profonda cultura ebraica, dolcezza di tratto e, potremmo dire, bontà d'animo non può essere profeta, perché, se manca la predisposizione, manca anche la profezia, non per volontà umama, ma per volontà divina (del resto il popolo non avrebbe mai ascoltato una persona che non fosse riconosciuta come saggio, giusto).

E' il Maimonide a soffermarsi sulle qualità essenziali del profeta; egli  dice che il profeta deve essere:

a) un grande saggio.  Quando prima si distingueva il profeta dal saggio, non si voleva dire che il profeta non possa essere saggio, ma che, nel momento in cui il profeta ha la profezia, egli è un profeta e non un saggio e che, al cessare della profezia, torna ad essere un saggio: il profeta deve essere saggio perché è lui, prima degli altri, a dover dare un senso alle immagini che Dio gli fa vedere.

b) una persona forte: nella tradizione rabbinica, il "forte" è colui che "sa bloccare il proprio istinto".

c) un uomo ricco, forse perché le persone ricche vengono più ascoltate di quelle povere, ma più probabilmente nel senso di un proverbio ebraico che dice "il ricco è colui che è felice di ciò che possiede", e quindi il profeta è tale quando non cerca più denaro di quello che ha.

d) una persona che sa consolarsi da sola

e) una persona che deve avere la gioia divina. Molto spesso la Bibbia ci presenta i profeti come persone molto tristi e seriose; tuttavia, secondo una tradizione fatta propria dal Maimonide, la parola di Dio può essere sentita solo in un momento di gioia. Prendiamo l'esempio di Abramo che sta per uccidere il proprio figlio. I maestri si chiedono: perché Abramo, e non qualcun'altro, è diventato il simbolo della fede? Se si parte dal presupposto che un profeta, per sentire la parola di Dio, deve essere in un momento di gioia, bisogna dire che, nel momento in cui l'angelo lo ferma, Abramo era contento. Egli quindi diventa simbolo della fede perché accetta di mettere a morte il proprio figlio ed è contento nel momento di farlo. E' proprio la gioia nel momento della distruzione che può salvare il mondo dalla distruzione. Ogni volta, quindi, che il profeta parla di catastrofi, ne parla non in modo distaccato, ma, nonostante tutto, dentro di sé continua a gioire.

3. Passiamo ora a vedere quali sono i livelli di profezia. Secondo il pensiero ebraico abbiamo dodici livelli di profezia. I primi due sono di carattere, per così dire, propedeutico. I cinque livelli compresi tra il terzo e il settimo (prima serie) sono caratterizzati da una profezia piuttosto confusa nel corso della quale il profeta dorme; in quelli dall'ottavo al dodicesimo (seconda serie) il profeta resta sveglio e le parole della profezia sono molto più chiare.

- Il primo è il livello della bontà, quello che la Bibbia chiama "lo spirito divino": tutte le volte che si dice, di un profeta, che "è colpito da spirito divino", si intende che è colpito da spirito di bontà. Il profeta, allora, non è semplicemente colui che cade in estasi, ma anche colui che sente dentro di sé una spinta irresistibile che lo porta a far del bene: quando uno sente l'obbligo di fare del bene, già possiede lo spirito profetico. Altre culture religiose hanno posto la bontà verso gli altri al di sopra di tutto; l'ebraismo invece ha visto nella bontà solo la base della profezia: il profeta è molto di più (tanto è vero, come vedremo più avanti, che ci sono profeti, in particolare Elia, i quali, per il bene del popolo, hanno decretato la morte del popolo). Non è profeta, quindi, semplicemente chi fa del bene, ma colui che non può fare a meno di fare del bene.

- Il secondo è il livello di saggezza: il profeta ha dentro di sé una forza che lo fa pensare. Tutti i libri che si trovano negli Agiografi (Daniele, Salmi, Giobbe, ecc.) contengono un basso livello di profezia, quello della saggezza.

- Con il terzo livello entriamo nel vero e proprio mondo della profezia: è il livello della visione. Il Maimonide dice che ogni profeta, nel momento della visione, cade estasi  perdendo le proprie forze e la propria mente. L'unico profeta che riusciva a rimanere se stesso era Mosè. Ezechiele, per esempio, nel momento della visione, dice "la mia forza diventava la mia debolezza e non riuscivo a stare in piedi": è come se il profeta capisse di essere talmente piccolo di fronte a Dio da dover cascare. Siccome invece Mosè è l'esempio di umiltà, quando Dio gli parla non può diventare più umile di quanto già non sia e questo spiega perché Mosè, a differenza degli altri profeti, non soccomba di fronte a Dio: ciò dimostra che, più si va avanti col tempo, cioè ci si allontana dalla rivelazione del Sinai,  più i profeti posseggono una personalità meno forte. Dunque, secondo Maimonide, nel momento in cui Dio gli parla, il profeta capisce la sua pochezza e quindi soccombe; Mosè invece capiva la sua nullità anche quando Dio non gli parlava (questo spiega perché Mosè ha capito più di tutti gli altri profeti).

- Il quarto è il livello del sogno: non più una visione, ma parole che vengono sentite nel sogno. Il sentire ha maggior valore della visione.

- Il quinto è il livello delle parole senza visione: ci sono profeti che non hanno visioni, che perdono la propria forza, ma sentono delle parole che, pur venendo da lontano ed essendo confuse, hanno più valore di quelle sentite nel sogno. Altri invece (per es. Ezechiele)  sognano parole dette da un uomo: la parola, in questo modo, risulta più intensa.

- Il sesto è il livello angelico: non è più un uomo che parla, ma un angelo.

- Il settimo è il livello divino: non è più un angelo, ma è Dio stesso che si rivolge al profeta.

Qui termina la prima serie, caratterizzata, come si è visto, dal fatto che i profeti devono necessariamente dormire per sentire la parola di Dio.

- L'ottavo livello (che apre la seconda serie) è quello della visione da sveglio: il profeta vede qualcosa di confuso (nella Haggadà si dice che il profeta vede qualcosa come dietro ad una tenda: più il profeta è grande più la tenda cade davanti alla sua vista). In questo livello abbiamo i grandi profeti dell'ebraismo, per esempio Abramo (cfr. Gen. 15 dove si dice che fu colpito da sonnolenza, ma resta sveglio).

- Il nono è il  livello della voce: c'è sempre una visione confusa, ma con la presenza di una voce (della quale però non si conosce l'identità).  Come si vede, anche in questa seconda serie come nella prima (dal terzo al settimo livello) la visione lascia progressivamente posto ad una voce.

- Nel decimo livello c'è la presenza di un  uomo che parla, ma in modo molto più chiaro. L'esempio è costituito da Giosuè, il quale, prima di entrare in Israele, ha la visione di un uomo che gli si para davanti con la spada sguaniata e che gli dice quale sarà il futuro del popolo. Giosuè non si pone neppure il dubbio che quest'uomo sia un nemico, perché sa che si tratta di un messaggero divino. Ma come può saperlo? Per il fatto che egli l'ha visto non come noi vediamo un essere umano, ma attraverso un livello altissimo di capacità profetica, nel quale Dio gli parla direttamente attraverso un uomo le cui parole sono chiarissime.

- Nell' undicesimo livello c'è un angelo che parla: anche in questo caso le parole pronunciate dall'angelo sono molto chiare.

- Nel dodicesimo e ultimo livello è Dio che parla. Dio aveva già parlato ad altri profeti (cfr. il settimo livello), ma in modo confuso. Qui invece Dio parla in modo così chiaro come se stesse parlando un essere umano. A questo livello è giunto soltanto Mosè, mentre gli altri, al massimo, possono arrivare all'undicesimo livello.

Prendiamo ora in esame la figura del profeta Elihau, o Eliah. Nella tradizione ebraica egli è chiamato Elihau ha navi'i, "Eliah il profeta per eccellenza". Si tratta di una figura molto significativa perché nella tradizione talmudica è l'unico profeta che appare in sogno ad alcuni rabbini dando loro la soluzione di alcuni problemi; è colui che, sempre in sogno, punisce alcuni rabbini per ciò che hanno detto o fatto e che non dovevano fare o dire. Nel Talmud si racconta che un giorno un capretto, scappato dal padrone, si nasconde sotto la veste di un rabbino il quale consegna il capretto al padrone dicendo: "Vai dal tuo padrone perché sei stato creato per essere ucciso": da quel momento in poi il profeta Elihau non comparve più in sogno a quel rabbino. Elihau è inoltre colui che accompagna la storia del popolo ebraico di generazione in generazione; un'antichissima tradizione dice che egli non è mai morto, ma che si reincarna nel corso dei secoli. E' un personaggio che si traveste, che si trova tra noi, ma che noi non riusciamo a riconoscere. E' il profeta a cui durante la cena pasquale si lascia un bicchiere di vino perché egli viene a trovare il popolo. Elihau è molto amato: è l'esempio della bontà. Per assurdo, è l'unico profeta che ama tanto il popolo ebraico da accompagarne l'esistenza e da decretarne la morte.

La sua storia viene raccontata nel primo libro dei Re. "Al tempo del re Acab, Iel di Betel ricostruì Gerico. A prezzo di Abiram, suo primogenito, gettò le fondamenta, e al prezzo di Segub, suo ultimo nato, alzò le sue porte, secondo la parola del Signore che aveva proferito per mezzo di Giosuè, figlio di Num. Eliah il Tesbite, uno dei dimoranti di Galaad, disse ad Acab: «Come è vivo il Signore, Dio d'Israele, dinnanzi al quale io sto, in questi anni non ci sarà rugiada, né pioggia, se non per mio comando»" (1Re 16,34-17,1). Abbiamo qui il caso di un profeta che potrebbe non essere profeta, dal momento che il testo non ci dice nulla della sua identità, della sua discendenza e della sua tribù, ma soltanto che aveva decretato la morte del popolo per mancanza di cibo ed acqua. Un profeta che si presenta in questo modo ci causa parecchi problemi: come si permette di decretare la morte del popolo? chi è lui per dire che ci sarà una carestia? Tutto ciò contrasta con quanto si è detto sopra a proposito della necessaria umiltà che il profeta deve possedere: è come se Eliah togliesse a Dio ogni possibilità di decidere la sorte del popolo.

Per risolvere questi problemi dobbiamo far ricorso al commento rabbinico, nel quale si dice che per capire il cap. 17 si devono tener presenti  i versetti precedenti circa la ricostruzione di Gerico a prezzo della morte dei figli di Iel di Betel. Il midrash racconta che Dio disse ad Elihau: "in quella casa c'è un padre che sta piangendo la morte dei suoi figli: vai a casa di quell'uomo per consolarlo". Elihau -continua il midrash- dapprima chiede a Dio l'assicurazione di mettere in pratica tutto ciò che avrebbe detto a Iel e poi si reca a casa sua, entra, lo trova seduto per terra cosparso di cenere; si avvicina e gli dice: "Se Dio ha ucciso i tuoi figli, ha fatto bene!". Tra le persone che stavano consolando Iel c'era anche il re, il quale, nel sentire le parole di Elihau, si mette a ridere dicendogli: "Se parla un maestro o un allievo, chi si deve ascoltare?". Elihau risponde: "Ovviamente il maestro". "Allora -dice il re- tu mi porti una profezia di Giosuè che è allievo di Mosè il maestro: a chi si deve dare ascolto?". "A Mosè". "Se dunque non si è realizzata la profezia di Mosè, come potrà realizzarsi quella di Giosuè?". Elihau risponde: "Se la metti così, facciamo avverare la parole di Mosè e quindi io decreto che tutti moriremo per mancanza di pioggia".

Il midrash con questa storia vuole mostrarci come in questo periodo storico presso il popolo ebraico tutto veniva assegnato al caso, alla legge naturale, non esisteva il miracolo e il rapporto con Dio. A proposito del v. 34, il commento rabbinico si chiede perché il testo specifichi che Segub è il figlio più giovane quando già si è detto che Abiram è il primogenito (secondo i rabbini infatti la Bibbia non dice mai niente di superfluo e tutto ha un senso ben preciso, anche se non sempre chiaro): il significato è che a Iel di Betel non muore il figlio primogenito e l'ultimogenito, ma dal primogenito all'ultimogenito, cioè tutti i suoi figli, dal primo all'ultimo, e nonostante ciò il padre non si ferma dalla ricostruzione di Gerico. Il midrash dunque vuole mettere in evidenza come, in un periodo in tutto era affidato al caso, Elihau, in un certo senso, rispolvera un'antica profezia di Goisuè dal momento che il popolo si comporta come se Dio non esistesse.

Questo è il pensiero di Elihau. Ma Dio -ci chiediamo noi- è dello stesso parere di Elihau? Già il fatto che il profeta sia introdotto senza una presentazione ci fa capire che Dio non era d'accordo con lui: ci potrà pure essere una punizione, anche dura, ma essa non potrà riguardare tutto il popolo. Dio non vuole avere nulla a che fare con Elihau. Il problema è perché Elihau si comporta in questo modo: egli non è l'esempio del profeta cattivo, ma del profeta che ama il popolo a tal punto da idealizzarlo e, quando la sua idea di popolo non corrisponde alla realtà, non gli rimane che la punizione. Non propone la morte del popolo perché lo odia, ma perché il popolo non corriponde più con il suo ideale. Ma se Dio non è d'accordo con Elihau ed interviene per dirgli che sta sbagliando, ne consegue che tutti possono essere profeti.

Vediamo allora che, a partire dal v.2, Dio lavora sul carattere di Elihau per portarlo a riconoscere il proprio errore: deve essere infatti il profeta, e non Dio, a dire che la morte del popolo è ingiusta. Vediamo il testo: "La parola del Signore fu rivolta a lui dicendo: «Vattene di qui, ti dirigerai verso oriente e ti nasconderai nel torrente Carit, che è di fronte al Giordano. Tu berrai del torrente e io ordinerò ai corvi di nutrirti là». Egli partì e agì secondo le parole del Signore. Andò e dimorò nel torrente Carit, che è di fronte al Giordano. I corvi gli portavano pane e carne alla mattina e alla sera e beveva del torrente. Ma avvenne che, passato del tempo, il torrente si seccò, poiché non ci fu pioggia sulla terra" (17,2-7).

Dio parla ad Elihau attraverso dei simboli e la grandezza di Elihau è di riuscire a capire questi simboli. In ebraico, infatti, il termine qédem/qòdem significa "oriente", ma anche "prima"; qòdem è anche uno dei nomi che vengono attribuiti a Dio, "colui che viene prima, che precede la creazione del mondo". Ora, perché Elihau viene mandato proprio verso oriente? Perché è come se Dio gli volesse dire: "te ne devi andare, perché, nel momento in cui hai decretato la morte del popolo di Israele, ti sei staccato da colui che vive prima della creazione del mondo".

Un'altra stranezza è il fatto che il torrente Carit non è mai esistito; il nome deriva da qarà che significa "tagliare, uccidere" e il qarét ("spaccatura", "recisione") è la punizione più grave che si possa infliggere ad una persona. Dio lo manda verso oriente, in un fiume con un nome particolare perché tutto deve ricordare ad Elihau che il suo decreto di morte per il popolo è quello che ha generato un distacco da Dio e che la morte del popolo è la punizione peggiore, il qarét.

Egli poi dovrà essere nutrito dai corvi e dovrà bere l'acqua del torrente. Perché proprio i corvi? -si chiedono i maestri. A questo proposito c'è un interessante racconto: quando Noè dovette raccogliere gli animali da collocare nell'arca, Dio, nonostante le sue perplessità, gli disse di portare con sé anche i corvi facendogli notare come, in futuro, la vita del popolo di Israele sarebbe stata salvata da alcuni corvi che porteranno da mangiare ad Elihau; nulla di quello che fa Dio -conclude il racconto- è affidato al caos, anche quando si serve di animali brutti e insignificanti come i corvi. C'è però anche un'interpretazione più razionale: se tutto in questo brano è un simbolo, cosa rappresentano i corvi? E' noto che i corvi abbandonano i propri piccoli nel nido di altri uccelli lasciandoli curare a loro: in tutte le tradizioni, quindi, il corvo è sempre stato l'esempio della mancanza di misericordia nei confronti degli altri. Ne consegue -secondo questa interpretazione- che Dio vuol far capire ad Elihau che si sta comportando come un corvo.

Dopo aver ricevuto tutti questi messaggi simbolici, Elihau dovrebbe mutare carattere. Ma non accade proprio niente. Dio allora cambia strada: se la solitudine non ti serve a nulla, vai a vedere cosa hai creato con la tua profezia! "La parola del Signore fu rivolta a lui dicendo: «Alzati, va' a Sarepta, appartenente a Sidone, lì ti stabilirai. Ecco, lì ho ordinato ad una donna vedova di nutrirti». Egli si alzò e andò a Sarepta. Arrivò alla porta della città ed ecco qui una donna vedova che raccoglieva legna; egli la chiamò e le disse: «Per favore, portami un poco di acqua in un vaso perché io beva». Ella andò a prenderla, ma egli la chiamò e le disse: «Per favore, portami un pezzo di pane nella tua mano»" (17,8-11). Bisogna notare che, in questo momento, Elihau non è più un profeta, ma un uomo qualunque che si vergogna di chiedere subito alla vedova di portargli anche qualcosa da mangiare. Si assiste ad un cambiamento in Elihau: mentre la solitudine non ha inciso sul suo carattere, adesso, posto di fronte ad una vedova a cui è rimasta solo un po' di acqua e di pane, prova vergogna e non ha il coraggio di guardarla in faccia (v.8). "Ella rispose: «Viva il Signore, tuo Dio, io non ho pane cotto, ma soltanto un pugno di farina in un vaso e un poco d'olio dell'orciuolo; ecco io sto raccogliendo della legna, vado a prepararla per me e per mio figlio, poi la mangeremo e quindi moriremo»" (17,12). I commentatori dicono che questo "moriremo" deve essere interpretato come "magari potessimo morire".

Elihau viene così posto in modo brutale di fronte a ciò che aveva causato e questo deve fargli cambiare carattere, se vuole continuare ad essere profeta. "Elihau disse allora: «Non temere, va', fai secondo la tua parola, però prima fammi con essa una focaccia piccola e portamela, per te per tuo figlio la farai dopo. Così ha parlato il Signore, Dio d'Israele: Non finirà il vaso della farina e non scemerà l'orciuolo dell'olio, fino al giorno in cui il Signore invierà l'acqua sulla terra»" (17,13-14). All'inizio del capitolo, Elihau aveva detto che non sarebbe più caduta la pioggia finché non l'avrebbe detto lui; adesso invece attribuisce a Dio la potenzialità di decidere la carestia.

Ma c'è un altro problema: perché Elihau vuole mangiare prima della vedova e di suo figlio (v.13)? I rabbini fanno notare come Elihau provenga da un tribù particolare, quella dei sacerdoti. Ora, una delle regole cui tutti gli ebrei dovevano sottostare (e dico dovevano perché adesso non c'è più il santuario) era di lasciare da parte un po' di pasta, nel giorno di Pasqua, da riservare ai sacerdoti, i quali, occupandosi del santuario, non avevano di che mangiare.  E nella storia ebraica i sacerdoti sono stati coloro che, più degli altri, hanno combattuto, anche in modo violento ( si pensi a Mosè), l'idolatria. Questo spiega il comportamento di Elihau: egli non si dimentica di essere un cohén, un sacerdote. E allora in lui si scatena il conflitto tra il provare misericordia e l'essere inflessibile contro l'idolatria.

"Ella partì e fece secondo la parola di Elihau e mangiò lui, lei e la sua famiglia per molto tempo. Il vaso della farina non finì e l'orciuolo dell'olio non scemò, secondo la parola del Signore che aveva pronunciato per mezzo di Elihau. Dopo questi fatti, il figlio della donna, padrona di casa, si ammalò e la sua malattia fu assai grave, tanto che non rimase in lui respiro. Allora lei disse ad Elihau: «Cosa c'è fra me e te, o uomo di Dio? Sei venuto da me per ricordarmi la mia iniquità e far morire mio figlio?»" (17,15-18). Si noti che, mentre al v. 10 si parlava di una "vedova", qui si parla di "donna, padrona di casa": evidentemente l'aver potuto mangiare e bere le ha fatto perdere il pensiero di essere vedova. Ma è proprio questa possibilità di mangiare e bere che le fa problema: se Dio, attraverso il profeta, l'ha sfamata e dissetata, mentre tutto il popolo sta morendo, ciò deve essere pagato con la morte del figlio, il quale -nel pensiero della donna- è morto perché ella non ha provato pietà per i vicini di casa che stavano morendo di fame.

Su questo episodio c'è un midrash molto bello: vi si immagina una discussione tra Dio e Elihau, nel corso della quale il profeta chiede a Dio di dargli la possibilità di  guarire il figlio della vedova; egli non si limita a pregare, ma vuole essere lui in prima persona, in quanto responsabile della sua morte, a ridare la vita al bambino. Secondo questo midrash, Dio gli risponde: "Ci sono tre cose che solo Dio può fare. Quando ho creato il mondo, ho creato tre chiavi che aprono tre porte: della nascita, della pioggia e della resurrezione dai morti. Queste tre porte le posso aprire solo io. Io ti ho prestato la chiave della porta della pioggia: se ti do anche quella della resurrezione dei morti, tu hai due chiavi e io una sola; quindi dovresti darmi la chiave della pioggia per avere quella della resurrezione dei morti". Elihau acconsente: il bambino rinasce e, tornata a cadere la pioggia, il popolo ritorna a vivere. Si vede chiaramente come Elihau sia profeta proprio per la sua capacità di capire i propri errori, di cambiare carattere e soprattutto di comprendere i simboli attraverso i quali Dio manda i suoi messaggi.

Nel cap. 19 (su cui ci soffermeremo brevemente) Elihau cambia carattere un'altra volta: di misericordia non ne vuole più sapere. "Acab raccontò a Gezabele tutto ciò che aveva fatto Elia e come aveva massacrato con la spada tutti i profeti (si tratta di falsi profeti, n.d.r:) Allora Gezabele spedì un nunzio a Elia dicendo: «Così mi facciano gli dei se domani a quest'ora io non ti ho tolto la vita, come la vita di uno di loro». Egli ne ebbe timore, perciò si alzò e partì per salvarsi. Pervenne a Bersabea, appartenente a Giuda, e vi fece fermare il suo servo, mentre egli si inoltrò nel deserto per il cammino di un giorno, andò, si riposò sotto una ginestra ed espresse il desiderio di morire, dicendo: «Basta, ora, o Signore, prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri»" (19,1-4). Perché Eliahu chiede la morte? Noi potremmo rispondere perché si trova in pericolo di vita. Ma se è in pericolo di vita perché scappa? Elihau non chiede la morte perché il re aveva ordinato di ucciderlo, ma perché si pente di qualche grave azione commessa. Cosa significa poi l'espressione "i miei padri non sono migliori di me"? Elihau, in realtà, si deprime perché si accorge di essere come i suoi padri: anche Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè e tutti gli altri hanno chiesto misericodia per la vita del popolo ebraico ed Elihau si è comportato come loro (cfr. 17,19-24).

Elihau si pente per aver chiesto misericordia e si siede sotto una ginestra. Anche qui la ginestra ha un valore simbolico. Un midrash dice che il legno della ginestra ha la particolarità, quando viene bruciato, di essere freddo all'esterno, ma caldo all'interno. Nel Talmud poi si racconta di un tale che aveva bruciato una ginestra: dopo settant'anni ritornò sul posto, spaccò il legno e si accorse che dentro era ancora caldo. Elihau, quindi, è come una ginestra: si può anche raffreddare di fuori, può anche provare misericordia, ma dentro rimane quello di prima. Passata la visione della vedova, ad Elihau non rimane che una cosa: il pentimento per aver chiesto misericordia, quando invece il popolo -lui dice- non dovrebbe aver bisogno della misericodia, perché questo è un simbolo di debolezza e non è giusto avere a che fare con un popolo che si basa sulla misericordia divina. Per questo Elihau si abbatte.

"Si sdraiò e si addormentò sotto la ginestra ed ecco che un angelo lo toccò e gli disse: «Alzati, mangia». Egli guardò ed ecco che presso il suo capo c'era una focaccia cotta sulle pietre calde e un orciuolo di acqua. Mangiò, bevve, poi si sdraiò di nuovo. L'angelo del Signore tornò una seconda volta, lo toccò e gli disse: «Alzati, mangia, perché lunga è per te la strada». Si alzò, mangiò e bevve, poi con la forza di quel cibo camminò quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l'Oreb" (19,5-8). Non si pensi che Elihau abbia camminato per quaranta giorni: tutto sta avvenendo sottoforma di visione. Si noti anche come l'annuncio sia fatto da un messaggero divino: sulla base di quanto s'è detto sopra, si vede chiaramente come il livello della profezia si sia abbassato (dal livello undici si passa al livello nove). Anche Mosè è stato quaranta giorni e quaranta notti sull'Oreb, senza mangiare né bere; se si considera che ogni profeta ha un altro -per così dire- "profeta di riferimento", qui Elihau si paragona a Mosè, il più grande dei profeti. L'intervento di Dio, tramite la visione, ha lo scopo di far vedere ad Elihau, il quale era un cohen, in che cosa non era uguale a Mosè; è come se gli dicesse: "Tu hai mangiato e bevuto, mentre Mosè ha trovato la forza proprio per il fatto di non aver mangiato né bevuto. Come puoi quindi paragonarti a Mosè? Per te allora comincerà una calata della profezia fino a che la perderai totalmente".

"Qui entrò in una grotta (anche Mosè lo aveva fatto) e vi passò la notte. Ed ecco che la parola del Signore gli fu rivolta dicendo: «Cosa fai qui Elia?», cioé: questo è il posto dove poteva stare Mosè, non tu, dal momento che stai per perdere la profezia. A questo punto Elihau potrebbe rispondere scusandosi con Dio, come del resto aveva fatto Mosè (cfr: Es. 32,7-14), invece dice: "Sono arso dallo zelo del Signore, Dio delle schiere, poiché i figli di Israele hanno abbandonato il tuo patto, hanno distrutto i tuoi altari e hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Io son rimasto l'unico e cercano la mia vita per prenderla" (19,10). Nonostante tutto, egli rimane della sua idea. Subito dopo ad Elihau il Signore fa vedere delle cose spaventose e per ultimo il silenzio (19,11-12): il fuoco, il vento e il terremoto sono elementi distruttori, ma l'essenza divina non consiste nella distruzione, come pretenderebbe Elihau, bensì nel silenzio del perdono. Ancora una volta però Elihau non cambia idea (19,13-14). Ecco allora che Dio gli ordina di andare nel deserto di Damasco e di ungere un altro profeta, perché la sua profezia può considerarsi finita (19,15-16).

In base a tutto ciò che si è detto, si vede come Elihau sia un tipico esempio di profeta che non cambia assolutamente idea a causa di ciò che Dio gli fa vedere. Anche questo significa essere profeti: prendersi fino in fondo le proprie responsabilità. E -come si è detto sopra- a portare il Messia e a seguire il popolo ebraico lungo tutta la sua storia non sarà un profeta buono e gentile, ma proprio Elihau, cioè il profeta che è stato rifiutato da Dio. Perché tutto ciò? Per il fatto che nel profeta Elihau il popolo ha visto il simbolo della propria maturità, per effetto della quale ha capito che non si può andare avanti facendo sempre conto sulla misericordia divina, ma anche sulle sue punizioni, perché è solo con esse che si può crescere.

 

 

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