Quaderno n. 59
ciclo di incontri - 20 maggio 1994
Corso di cultura ebraica (I° ciclo)
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Il Medio Giudaismo

Gabriele Boccaccini
Docente di Giudaismo alla Michigan University - Ann Arbor
 

Per Medio giudaismo (come vedremo, ultima denominazione in ordine di tempo) si intende il periodo tra il III a.c. e il II d.c., il periodo cioè delle origini cristiane e di quelle rabbiniche. Normalmente si pensa che in questo lasso di tempo sia nata una religione (il cristianesimo); in realtà ne sono nate due, dal momento che l'ebraismo non è nato all'epoca dell'AT, ma contemporaneamente al cristianesimo.

Chiunque si imbatta in questo periodo si trova di fronte a dei problemi rilevanti, non solo perché è sempre difficile ricostruire un'epoca storica del passato, ma perché si tratta di un periodo che riguarda due comunità religiose e due fedi tuttora esistenti. E' del tutto comprensibile, quindi, che esse abbiano imposto su tale periodo i propri schemi e le proprie conclusioni. La letteratura di quest'epoca, per esempio, è giunta a noi divisa in scritti canonici e scritti non canonici (i cosiddetti "apocrifi"): si tratta di una divisione legittima dal punto di vista religioso, ma priva di senso dal punto di vista storico nel quale un testo apocrifo possiede lo stesso valore di un testo non canonico. Senonché tale divisone confessionale delle fonti si è ripercossa nel modo stesso in cui è organizzato il nostro sapere: se, per esempio, la Lettera agli Ebrei ha più Øß=edizioni del Libro di Enoch, non è perché l'una sia più importante dell'altro, ma perché l'una è canonica e l'altro no, anche se dal punto di vista storico il secondo testo è più importante del primo. I canoni, infatti, sono posteriori ai fatti che si vogliono studiare; di conseguenza, non ha senso, in ambito storico, farsi guidare da essi. Anche importanti figure di questo periodo, come Filone Alessandrino e Giuseppe Flavio, sono finiti l'uno nella filosofia ellenistica e l'altro nella storiografia ellenistica. Tutto ciò per dire che questo periodo e le fonti che ce ne parlano devono essere considerati nella loro globalità e senza pregiudizi confessionali.

Oltre a queste difficoltà, bisogna tener presente che anche fra gli studiosi di questo periodo ci sono state delle divergenze, le quali hanno comportato conseguenze:

a) di carattere terminologico;

b) sul rapporto tra ebrei e cristiani;

c) sul problema della separazione tra ebraismo e cristianesimo;

d) sul dialogo interreligioso.

Prendiamole in esame.

1. Cominciamo dal modello più antico, che potremmo definire monolitico. Secondo questa visione tradizionale, giudaismo e cristianesimo sono due insiemi omogenei, ben definiti e ben distinti l'uno dall'altro (questa è anche l'idea più diffusa anche a livello di opinione comune). Si tratta di un modello che è stato condiviso sia dagli ebrei sia dai cristiani, per opposti motivi polemici.  I cristiani,  infatti, potevano sostenere l'idea che il giudaismo, religione dell'AT, molto antica, sostanzialmente immutata e immutabile, fosse stato ad un certo punto sostituito da una religione nuova, fondata da Gesù (secondo questo schema gli ebrei sono coloro che hanno continuato la vecchia religione ebraica, non accettando la nuova rivelazione di Gesù). Sulla base di tale visione, dunque, il giudaismo ha la funzione di preparare la venuta di Cristo; di conseguenza, una volta esaurita questa missione, non ha più ragione di esistere. Gli ebrei, invece, puntavano sull'antichità della loro religione per dimostrare la loro fedeltà alla rivelazione divina: i cristiani erano degli eretici. Per i cristiani, quindi, gli ebrei erano ciechi (anzi, colpevolmente ciechi, tanto da essere dei "deicidi") per non essersi accorti della novità portata da Gesù, mentre per gli ebrei i cristiani erano dei traditori, dal momento che si erano allontanati dalla vera fede.

In una concezione di questo tipo, dunque, storicamente è esistito un solo giudaismo, il quale è stato o  completato dai cristiani oppure fedelmente tramandato dagli ebrei.

a) Quali sono state le conseguenze a livello terminologico? Per i cristiani questo periodo rappresentava la fine del giudaismo; ecco allora che lo definivano in due modi, di cui il secondo particolarmente antiebraico: periodo intertestamentario (passaggio dall'AT al NT) o tardo-giudaismo (decadenza e fine del giudaismo per esaurimento della sua funzione). Da parte ebraica, invece, oltre a poco interesse per una definizione, c'è anche una tendenza a sminuire questo periodo: il giudasimo è uno solo, la Mishnà e il Talmud sono la sua codificazione, quindi non si può parlare di evoluzione del giudaismo (al massimo può essere definito come periodo del secondo tempio, ma si tratta di una definizione di carattere più storico che religioso).

b) Vediamo ora quali sono le conseguenze nei rapporto tra ebrei e cristiani nel I sec. Si potrebbe dire che laddove c'è il giudaismo non c'è il cristianesimo e laddove c'è il cristianesimo non c'è il giudaismo. Secondo questo schema è irrisolvibile anche la questione della ebraicità di Gesù: se era ebreo non era cristiano e se era cristiano non era più ebreo (non a caso la tradizione cristiana tendeva a sottolineare il fatto che Gesù fosse ebreo solo per caso) (cfr. D. GARRONE, supra).

c) Per quanto concerne il problema della separazione, è ovvio che nel momento stesso in cui si affaccia il cristianesimo c'è separazione con l'ebraismo: per definizione il cristianesimo, in quanto compimento dell'ebraismo, non è più ebraico.

d) Riguardo al dialogo ebraico-cristiano, questo schema serviva per ovvi intenti polemici. Tuttavia, esso è sopravvissuto alla nuova stagione del dialogo. Quanti cristiani, per esempio, pensano che gli ebrei del I sec. vivessero come gli ebrei di oggi! Quanti, in buona fede, si avvicinano al dialogo con gli ebrei per vedere "com'eravamo prima di diventare cristiani", secondo una specie di ricerca dei fossili, senza tener presente che il cristianesimo è nato dall'ebraismo di due mila anni fa e non da quello di oggi. La romantica idea di ritrovare le "radici" nasconde una vecchia e sbagliata concezione secondo la quale l'ebraismo è qualcosa di "conservato" (questo, tra l'altro, è il motivo per cui gli ebrei, a differenza degli altri eretici, non venivano uccisi, ma difesi: perché dovevano ricordare ciò che la Chiesa era stata prima di diventare tale; cfr. in proposito F. FERRARIO, supra). E' quindi sbagliato pensare che il cristianesimo sia  l'ebraismo di oggi più Gesù!

2. Dopo la seconda guerra mondiale, si registra uno sforzo comune per ripensare il periodo delle origini giudeo-cristiane. Al modello monolitico si è andato sostituendo (fino ad imporsi verso la fine degli anni Settanta-Ottanta) un modello di tipo evolutivo, alla cui base c'è il riconoscimento che l'ebraismo non è un monolite e che, avendo le religioni una loro evoluzione, l'ebraismo antico è diverso da quello posteriore, così come il cristianesimo. Si tratta di un modello che presuppone  l'esistenza di modi diversi di essere ebrei: nel passaggio da un periodo all'altro, il giudaismo ha generato una serie di possibilità aperte prima di decidere quale fosse la migliore. Questo schema  riconosce che il giudaismo del I sec. non solo è diverso dal giudaismo di oggi, ma anche plurimo, pur se esiste una linea evolutiva centrale (tanto per capirci, è come un fiume con il suo letto principale e i suoi rivoli secondari). In questo senso, il rabbinismo rappresenta la naturale evoluzione del giudaismo del I sec., anche se in questo periodo ci sono altri tipi di giudaismo, i quali però non sono normativi, ma dei gruppi settari. Il periodo di Gesù, per esempio, è contrassegnato da una serie plurima di movimenti.

L'importanza di questa nuova impostazione consiste nella possibilità di dare una soluzione al problema della ebraicità di Gesù. Il cristianesimo, infatti, può essere considerato, almeno originariamente, come una delle sette giudaiche (l' essenismo, il sadduceismo,  il fariseismo, i movimenti apocalittici) prima che il giudaismo si evolvesse nello stadio successivo: una specie di falsa partenza o falsa possibilità (falsa non in senso morale), possibilità che non si realizza o che si realizza soltanto cessando di essere ebraica e aprendosi ai "gentili". In quest'ottica allora il problema non è più se Gesù fosse ebreo o cristiano, ma che tipo di ebreo era Gesù, dal momento che il giudaismo a quel tempo era molto sfaccettato. Si può cioè salvare l'idea del cristianesimo come movimento originariamente ebraico, ma al tempo stesso come nuova religione: ebraismo e cristianesimo non sono più separati, ma omogenei; sono due linee evolutive composte da diversi anelli: un anello della catena evolutiva del giudaismo è al tempo stesso il primo anello della catena evolutiva del cristianesimo.

a) A livello terminologico, non si parla più, come nel primo schema, di tardo-giudaismo (late giudaism),  ma di primo giudaismo o antico ovvero nascente giudaismo (early giudaism): non è più solo il periodo del nascente cristianesino, ma anche del nascente giudaismo rabbinico. Mentre nella visione tradizionale si poneva l'accento sulla decandenza del giudaismo e sulla conseguente ascesa del cristianesimo, adesso si sottolinea l'inizio di una nuova fase anche nel giudaismo.

b) Ne consegue un ribaltamento dei rapporti tra cristianesimo ed ebraismo, nel senso che il cristianesimo delle origini può essere considerato al tempo stesso ebraico e cristiano.

c) A proposito della separazione, la domanda non è più "quando nasce il cristianesimo?", ma "quando il cristianesimo cessò di essere un movimento originariamente ebraico?". La risposta è varia (sono state proposte varie date), ma è assodato che la prima fase del cristianesimo appartiene sia all'ebraismo sia al cristianesimo, anche se, ad un certo punto, il cristianesimo non è più giudaico (anche qui ci sono risposte diverse).

d) Per il dialogo ebraico-cristiano è molto importante aver sottolineato l'ebraicità di Gesù, perché ciò ha permesso di superare l'idea che il cristianesimo fosse nato dalla cultura ellenistica (discorso che fu estremizzato da Hitler) oppure la distinzione bultmaniana tra il Gesù storico e il Gesù della fede.

Questo schema presenta però anche dei problemi. Anzitutto, se era sbagliato definire questo periodo alla luce del cristianesimo (tardo giudaismo), è altrettanto sbagliato definirlo soltanto alla luce del giuadaismo rabbinico. In secondo luogo, il nascente giudasimo rischia di comprendere tutto furoché il cristianesimo, considerandolo un movimento marginale, come un'eresia rispetto al giudasimo normativo, una specie di aborto del giudasimo.

3. Oggi ci si rende sempre più conto che il giudaismo rabbinico non può essere considerato né secondo lo schema tradizionale (codificazione dell'unico giudasimo) nè secondo lo schema evolutivo (nuovo stadio nella storia del giudaismo), perché in entrambi il giudasimo rabbinico è considerato come un'evoluzione naturale del giudasimo antico. Tale visione è molto problematica dal punto di vista storico: il movimento farisaico, infatti, che è l'erede immediato del giudaismo rabbinico, non era maggioritario, quindi è strano etichettare questo movimento come normativo quando si sa che a Gerusalemme l'autorità in massima parte era rappresentata dai Sadducei  che erano anch'essi una setta. La contraddizione cioè consiste nel pensare che nel I sec. c'era una religione i cui leaders appartenevano ad una eresia settaria.

Un riesame della letteratura giudaica del periodo ci offre un'immagine molto più variegata e pluralista, tanto che attualmente molti studiosi, sia ebrei sia cristiani, parlano di giudaismi e non più di un solo giudaismo. Si provi, infatti, a definire cosa sono oggi il cristianesimo e l'ebraismo a livello mondiale: ci sono degli elementi in comune e delle idee di fondo, ma non si può certo parlare di una ideologia comune (basti guardare le varie confessioni cristiane). E' difficile definire il cristianesimo oggi mettendo insieme un trattato di Barth con un'enciclica di Giovanni Paolo II! Ma anche l'ebraismo è molto variegato al suo interno: un conto è l'ebraismo riformato, un altro è quello conservativo, quello ricostituzionista, quello ortodosso o quello ultraortodosso; non si può mettere insieme i documenti dei rabbini riformati con quelli dei rabbini ultraortodossi di Gerusalemme o di New York! E così, se si prendono i documenti del I sec. per trovare un comune denominatore, si ottiene un giudaismo che non esiste: non c'è un solo giudasimo, ma molti giudaismi, tra loro diversi e competitivi.

Dunque, se nel primo schema abbiamo un punto e nel secondo una linea, qui abbiamo delle rette parallele: non si può più parlare di "giudaismo normativo", ma di un insieme di movimenti, alcuni dei quali hanno avuto una breve storia, mentre altri una storia più lunga. In questo senso bisogna abbandonare anche la distinzione tra gruppi maggioritari e gruppi settari-eretici (casomai, ogni gruppo era settario ed eretico rispetto all'altro).

a) Dal punto di vista terminologico, mentre nel primo schema il giudaismo era definito, alla luce del cristianesimo, come l'ultimo momento del giudaismo, e mentre nel secondo era definito come la fase di passaggio tra il giudaismo antico e quello rabbinico considerando il cristianesimo come un'evoluzione divergente dalla linea principale, questa visione permette di considerare il cristianesimo e il giudaismo rabbinico come i due giudaismi vincenti (o superstiti) del I-II sec. nei quali si è evoluto l'antico giudaismo. La definizione medio-giudaismo, quindi, tende proprio a sottolineare il passaggio dal giudaimo antico (in cui si è costituita la religione giudaica come movimento monoteista: prima dell'esilio di Babilonia, gli ebrei erano politeisti) all'affermazione di due movimenti (cristianesimo e fariseismo).

b) Cosa comporta questa nuova visione dal punto di vista dei rapporti tra ebrei e cristiani? Se dal punto di vista storico il cristianesimo non è più né qualcosa di completamente altro (primo schema) né un movimento originariamente ebraico poi abortito (secondo schema), ma semplicemente uno dei tanti giudaismi del I sec., ciò significa che la distinzione tra ebraico e cristiano non ha senso, così come non ha senso chiedersi se i documenti del NT siano ebraici o cristiani, anche perché "giudaico" è inteso spesso come sinonimo di "non cristiano", mentre ci si dovrebbe chiedere piuttosto se quel documento è cristiano oppure appartenente ad un altro giudaismo del I sec.

c) Si capisce allora che è assurdo, in questa visione, parlare di separazione tra cristianesimo e giudaismo, ma di separazione tra cristianesimo e altri movimenti giudaici, tra rabbinismo e cristianesimo per esempio. Da questo punto di vista il cristianesimo non si è mai separato dal giudaismo perché esso è altrettanto giudaico quanto il rabbinismo: possiamo dire, più correttamente, che, dalla grande pluralità dei giudaismi del I sec., soltanto due movimenti sono stati capaci di sopravvivere: quello di Gesù, che poi ha dato origine al cristianesimo, e il fariseismo, che poi ha dato orgine al giudaismo rabbinico. Dire che si tratta di due movimenti giudaici, però, non significa sostenere che sono uguali, ma che entrambi sono in una linea di contintuità-discontinuità con l'antico Israele. A questo proposito uno studioso ebraico, Alain Segal, nel 1986 ha pubblicato un libro, non tradotto in italiano, intitolato Rebecca's children (I figli di Rebecca) in cui descrive ebrei e cristiani come i due gemelli Giacobbe ed Esaù, che, dopo essersi litigati, hanno preso strade diverese.

d) Questa impostazione ha conseguenze molto importanti per quanto riguarda il dialogo ebraico-cristiano: se non si parla più di un rapporto tra genitori (ebraismo) e figli (cristianesimo), ma di un legame di fratellanza, ne consegue che i cristiani  non devono dialogare con i propri genitori, ma con i propri fratelli. Molti cristiani fanno ancora molta difficoltà a riconoscere l'attualità dell'ebraismo: quasi ci si stupisce che il fratello sia cambiato tanto. Questa è la grande sfida del prossimo millenio: incontrarsi tra fratelli che hanno avuto venti secoli di esperienze diverse e accettare l'altro non solo per ciò che è stato o per ciò che ricorda. Ciò comporta anche la reciprocità: non basta più che i cristiani chiedano agli ebrei di insegnare loro com'erano e che gli ebrei si limitino appunto ad insegnarlo. Se è vero che l'ebraismo di oggi ha preservato moltissimo dell'antico patrimonio giudaico, ciò è vero anche per il cristianesimo il quale ha preservato tanto del giudaismo antico; se il cristianesimo ha innovato tanto, anche il giudaismo rabbinico lo ha fatto (mentre molti cristiani pensano che i farisei fossero dei conservatori).

Essendo cristianesimo e giudaismo rabbinico due modi diversi di rispondere alle stesse domande, vediamo ora di capire come si sia giunti a tale situazione.

Partiamo dal momento in cui Israele è sicuramente monoteista (periodo dell'esilio babilonese e successivo). In genere si pensa che il giudaismo antico coincida con l'Antico Testamento, il quale però -come si è visto all'inizio- contiene solo testi canonici (scritti per lo più in epoca persiana): si tratta quindi di una specie di "selezione". Accanto alla Bibbia ebraica, tuttavia, ci sono altri testi che, all'epoca, godevano di un'importanza non inferiore a quella dei testi canonici; mi limito a citare, tra i più importanti, il Primo libro di Enoch, il quale, per molti secoli nelle chiese cristiane, fu considerato un libro canonico. Si tratta, in realtà, dell'insieme di cinque libri (in ordine cronologico Libro dei vigilanti, Libro dei sogni, Epistola di Enoch, Le parabole di Enoch), una specie di Pentateuco, riferito non a Mosè, ma ad Enoch, del quale, nella Bibbia, si dice che venne rapito in cielo da Dio e di cui poi non si seppe più nulla, mentre, nel testo in questione, si racconta che venne rapito in cielo per essere il liberatore di cristiani ed ebrei: si tratta quindi di un patriarca vissuto prima di Noè, portatore di una rivelazione più importante di quella mosaica.

Il primo libro (Libro dei vigilanti) contiene, secondo gli studiosi, delle storie molto antiche, qualcuno dice più antiche del libro della Genesi. In Gen 6,1-4 si dice: "Avvenne che gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla faccia della terra e nacquero loro delle figlie. Vedendo i figli di Dio che le figlie degli uomini erano belle, si presero per moglie quelle che fra esse loro piacquero. Disse allora il Signore: Il mio spirito non contenderà per sempre con l'uomo, perché è carne; il suo tempo sarà di centoventi anni. Ora, in quel tempo c'erano sulla terra dei giganti, e ve ne furono anche dopo che i figli di Dio entrarono dalle figlie degli uomini e queste partorirono loro dei figli. Essi sono i forti, gli uomini famosi fin dai tempi antichi". Questo testo, abbastanza misterioso, non è altro che una specie di  sommario riassuntivo del Libro dei vigilanti, nel quale si narra la storia degli angeli caduti, una storia importantissima per il cristianesimo: essi fecero una sorta di conciliabolo e scesero sulla terra; ciò fu un disastro perché rivelarono agli uomini conoscenze che dovevano rimanere segrete e, unitisi alle donne, concepirono esseri mostruosi. Di fronte al lamento degli uomini, Dio dà l'ordine agli angeli buoni (gli arcangeli) di mandare il diluvio sulla terra, il quale -secondo questa storia- sarebbe la conseguenza della caduta degli angeli malvagi. Gli angeli, insieme al loro capo, vengono imprigionati in un pozzo e i giganti vengono uccisi. Senonché, le anime dei giganti sopravvivono e quindi, nonostante il diluvio, il male continua ad operare. Mentre dunque nella tradizione biblica il male è spiegato come una conseguenza della libertà di scelta dell'uomo posto di fronte al bene e al male, in questa tradizione enochica si pone l'accento sul fatto che l'uomo sia vittima del male: è quello che, in termini cristiani, si chiama peccato originale. La dottrina del peccato originale è ebraica (a partire dal V sec. a.C.): il peccato degli angeli è responsabile della presenza del male nel mondo, per cui l'uomo, più che responsabile, ne è vittima. Ne consegue che l'uomo, non potendo resistere al male, ha soltanto la possibilità di chiedere a Dio un intervento liberatore. Mentre nella tradizione biblica si pone l'accento sulla cooperazione uomo-Dio, qui si sottolinea la sua impotenza e la necessità di un intervento di Dio, che può avvenire soltanto in un altro mondo, dal momento che questo mondo è ormai corrotto.

Possiamo dire che queste due tendenze rappresentino le due anime del pensiero giudaico antico. Esse non possono essere separate in modo netto, perché anche quando si sottolinea la cooperazione dell'uomo con Dio, ci si chiede in che misura possa avvenire tale cooperazione. Nella tradizione mosaica l'allenza è vista come una serie di comandi a cui l'uomo può obbedire, mentre in quella enochica essa è considerata come una promessa, che non implica necessariamente una cooperazione, la quale, se non è impossibile, è comunque molto difficile. La situazione, nel periodo che stiamo analizzando, è ancor più complicata perché, mentre nel giudaismo antico non si credeva nella retribuzione dopo la morte, anche se c'erano dei meccanismi di retribuzione (l'idea, per esempio, che la punizione o la retribuzione non avvennisse per il vivo), nel periodo ellenistico si afferma l'idea della responsabilità individuale (si pensi al libro di Giobbe o, ancor più, al libro di Qoelet).

Di fronte alla crisi dell'idea del patto, le tendenze espresse dal Libro di Enoch diventano ancora più forti e sempre più si impone un ripensamento generale dell'intera religione di Israele. C'è un primo passo, compiuto da Daniele, attraverso l'idea della retribuzione post mortem (ciò elimina il problema di Qoelet, cioè l'incongruenza tra l'azione di Dio e quella dell'individuo): se il giusto muore per difendere la legge è un martire. E tuttavia anche qui ci sono molti problemi, perché, sia in Daniele sia nella tradizione ebraica, esiste l'idea che è difficile per l'uomo vivere una vita intera senza trasgressioni; che l'uomo sia peccatore è un'idea condivisa da tutti i movimenti giudaici dell'epoca. Si tratta di una concezione che nel giudaismo antico è strettamente legata a quella sul giudizio divino, la quale è analoga all'idea che abbiamo noi della giustizia terrena: se si commette una colpa, si va dal giudice per ricevere la punizione, anche se si è vissuto sempre in modo irreprensibile; se invece non si commette un reato, non si è giudicabili (ciò spiega, per esempio,  perché nel NT il termine "giudicare" sia sinonimo di "condannare"). E' sottintesa l'idea secondo cui è impossibile o, quanto meno, molto difficile che l'uomo non commetta una colpa, e ciò sia nella prospettiva del patto sia in quella enochiana in cui il male ha proporzioni così cosmiche che la stessa natura umana è corrotta fin nelle radici, indipendentemente dalla buona volontà del singolo. Si capisce che, in questo modo, non si salva nessuno o quasi.

La necessità di dare una risposta a questi problemi produce nel medio giudaismo una serie di diversi giudaismi, non più solo due, come un precedenza. Un'indagine sommaria, basata sulle fonti, ne evidenzia almeno sei: giudaismo ellenistico (Alessandria d'Egitto), movimento sadduceo, movimento farisaico (possiamo dire, in termini generali, che questi tre si rifanno alla teologia del patto), movimento enochico o apocalittico, movimento cristiano e movimento essenico (si rifanno alla tradizione enochica, basata sulla teologia della promessa). Il gruppo più conservatore era quello dei Sadducei, i quali rimangono ancorati alla soluzione data dal Siracide (inizio del II sec.): rifiuto dell'idea della resurrezione, sottolineatura della libertà dell'uomo, retribuzione divina che può avvenire anche all'ultimo momento dell'esistenza dando al peccatore una morte atroce che cancella una vita apparentemente felice oppure dando al giusto una buona morte o un ricordo imperituro presso i discendenti. Non potendo analizzarli tutti, vediamo quali sono le risposte date dal cristianesimo e dal fariseismo.

Per il cristianesimo è importantissimo l'ultimo testo che viene elaborato dalla tradizione enochica prima del cristianesimo, cioè il Libro delle parabole di Enoch, un testo che parla del "Figlio dell'uomo". Mentre in Daniele il Figlio dell'uomo non è il Messia, ma un simbolo del popolo di Israele, nelle Parabole di Enoch egli diventa un essere divino, creato prima della creazione dell'uomo (si ricordi che, secondo la tradizione enochica, il male cominciò con la creazione degli angeli), superiore agli angeli, ripieno di Spirito Santo; è preesistente e verrà sulla terra, dal cielo, per distruggere gli angeli malvagi (si veda sopra) e per purificare con il fuoco il mondo dalla presenza del male, visto come una specie di malattia. Ora, Gesù, una volta staccatosi da Giovanni Battista, si inserisce su questa linea, ma con una novità importantissima rispetto alla tradizione enochica, nel senso che il Figlio dell'uomo ha qualcosa da fare prima di giudicare l'uomo, cioè perdonare i peccati. A differenza della tradizione enochica, Gesù è venuto non per i santi, ma per i peccatori, cioè per dare loro un'ultima opportunità prima della resurrezione dei morti. Per i cristiani il problema è evitare il giudizio (come s'è detto, sinonimo di condanna); la buona novella è che c'è un modo per evitare il giudizio: far leva sulla misericordia divina, perché, non potendo volere la perdizione degli uomini, Dio manda loro il Figlio dell'uomo non come giudice, ma come salvatore. Ne consegue che si salva non chi dice di essere giusto, ma chi,  riconoscendo di essere peccatore, accoglie questa ultima opportunità di salvezza offerta prima della venuta definitiva. Questo è il modo per non essere giudicati: chi accoglie Gesù non è condannato e quindi, riconoscendosi peccatore e vivendo una prassi simile a quella del Figlio dell'uomo, può essere salvato.

Nella tradizione farisaica non c'è l'idea del peccato originale, ma piuttosto quella di una certa inclinazione al male tipica di tutti gli esseri umani (di Adamo si può dire, al massimo, che è stato di cattivo esempio, ma ogni uomo è nella sua condizione). Essa riuscì a risolvere il problema in altro modo: la riforma dell'idea del giudizio. Alla morte dell'individuo, ci sono in cielo due porte, una stretta (attraversata da chi è senza peccato e quindi non viene giudicato) e una larga (attraversata dai peccatori, cioè la maggioranza degli uomini). La tradizione farisaica, tuttavia, ritiene che anche per il peccatore ci sia una possibilità di giudizio, perché Dio è un giudice non solo giusto, ma anche misericordioso, e quindi non considera solo le colpe, ma anche le buone azioni, cioè la totalità della vita dell'individuo. Questa concezione permetteva ai farisei di non separare la giustizia di Dio dalla sua misericordia. Secondo la tradizione cristiana, Dio è giusto e, se agisse secondo la sua giustizia, sarebbe giusto che tutti fossero distrutti, tranne una piccola minoranza (Dio è anche misericordioso); si opera quindi una netta distinzione tra la giustizia di Dio e la sua misericordia: secondo la giustizia di Dio non vi è salvezza, ma Dio è talmente misericordioso che ha inviato il Figlio dell'uomo dando così al peccatore la possibilità di salvarsi. La tradizione farisaica, al contrario, cerca di mantenere una certa armonia tra la giustizia di Dio e la sua misericordia: la sua misericordia è attuata secondo criteri di giustizia e la sua giustizia secondo criteri di misericordia. Se così non fosse, dal punto di vista farisaico il Dio dei cristiani sarebbe un Dio arbitrario che salva l'uomo senza tener conto delle sue azioni; perché Dio dovrebbe salvare una persona solo perché dice di essere peccatore? Da parte cristiana invece si diceva che il Dio dei farisei era un Dio spietato che prometteva la salvezza quando la forza del male fa sì che il male prevalga sempre.

Tutto ciò fu causa di una fortissima polemica tra i due gruppi. Partendo da un tema simile (la salvezza del peccatore), si danno due risposte diverse: mentre nel cristianesimo c'è maggiore enfasi sulla forza del male, nel fariseismo si insiste molto sulla responsabilità  e sulla libertà umana. Al tempo stesso c'è un diverso modo di combinare i due criteri, quello della giustizia e quello della misericodia.

A titolo esemplificativo, vorrei proporre la medesima parabola (quella del padrone della vigna) così come viene raccontata nelle due tradizioni. Bisogna preliminarmente ricordare che spesso nelle due tradizioni ci sono le stesse parole, le stesse espressioni: si tratta infatti di medesime persone, vissute nel medesimo contesto religioso e culturale. Ciò che è diverso tra farisei e cristiani non è, per usare una metafora, il materiale di costruzione che usano, ma l'edificio che costruiscono. Il fatto che, nei diversi giudaismi, si usino mattoni uguali non significa che si costruisca la stessa casa, ma che alle stesse domande si danno risposte diverse. Veniamo alla parabola. Com'è noto, il padrone assegna lo stesso stipendio a tutti gli operai, suscitando le proteste degli operai della prima ora, a cui il padrone risponde che, se egli vuole essere buono, non è un problema loro: questo nella tradizione cristiana. In quella rabbinica, invece, il padrone dà una risposta diversa: è giusto che vengano pagati tutti allo stesso modo perché chi ha lavorato solo un'ora lo ha fatto con maggiore entusiasmo anche se in minor tempo; essendo misericordioso, il padrone considera non solo quanto si è lavorato, ma anche come si è lavorato, per cui la sua misericordia è impartita secondo criteri di giustizia.

Come si vede, ciò che fa la differenza, tra ebraismo e cristianesimo, è la diversa rilettura del medesimo patrimonio ideologico. Da questo punto di vista non c'è differenza: i cristiani sono coloro che rileggono l'AT alla luce del NT, mentre gli ebrei rileggono l'AT alla luce della tradizione farisaica (raccolta nella Mishnà e nel Talmud). La medesima tradizione, quindi, è letta secondo chiavi di lettura diverse. E' quindi logico, per esempio, che nella tradizione cristiana il serpente di Genesi diventi il diavolo, mentre nella tradizione rabbinica esso rimanga l'espressione dell'inclinazione al male. Non si può dire, allora, chi ha ragione e chi ha torto, chi ha conservato o chi ha innovato di più; senza dubbio la tradizione rabbinica è rimasta più legata alle categorie etnico-culturali del popolo ebraico, ma anche il cristianesimo ha conservato molte idee (salvezza per grazia, peccato originale), così come la tradizione rabbinica ha innovato molti concetti.

Il fatto che i nostri padri abbiano litigato, non significa che lo dobbiamo continuare a fare anche noi; niente ci vieta di incontrarci e di conoscere un po' meglio qualcosa dei nostri comuni genitori.

 

 

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