ciclo di incontri - Maggio 1997
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Scienza e prudenza

Eros Gambarini
 

Mi è stato chiesto di parlare della virtù della prudenza; inevitabilmente ne parlerò a partire dalle mie competenze che si collocano sul versante scientifico, con qualche digressione su quello teologico.

Spero che il parlare di scienza non spaventi nessuno; la reazione istintiva da parte dei non addetti ai lavori è: io che c’entro. Non è prudente a proposito della scienza dire non mi riguarda, anche perché non si tratta di entrare nei formalismi matematici, ma di parlare di alcune idee fondamentali che stanno emergendo, e di quelle implicazioni della scienza che riguardano tutti: sarebbe molto ‘imprudente’ permettere che siano solo gli specialisti ad occuparsi di queste implicazioni.

Punto di partenza è una definizione di prudenza riportata da un dizionario e che mi sembra molto utile per ciò che voglio dire, perché evita di evocare idee che sarebbero fuorvianti: per intenderci la prudenza non ha nulla a che fare con atteggiamenti timidi ed esitanti.

Prudenza = l’atteggiamento di chi sa evitare inutili rischi agendo con cautela e assennatezza, e prudente deriva dal participio presente di pro-vidére = vedere innanzi a sé = prendere le misure più opportune per raggiungere un determinato fine.

La virtù della prudenza è, quindi, in rapporto molto stretto con la dimensione del futuro, e con la nostra necessità quotidiana di prendere delle decisioni. Essere prudente vuol dire prendere decisioni evitando inutili rischi, dove l’accento è tutto sull’aggettivo inutili, perché la dimensione del futuro, essendo fuori dal nostro controllo, è comunque legata ad una certa componente di rischio, ed il rischio uguale a zero non esiste.

Prudenza = 1) prendere delle decisioni 2) in un contesto che valutiamo imperfettamente.

La conseguenza di tutto ciò è che nella storia umana, come nella nostra vita quotidiana, l’inatteso costituisce la regola, e la sorpresa è quello che ci si deve attendere.

Di fronte a queste incertezze l’umanità ha sempre cercato di anticipare il futuro, magari consultando la sorte o interpretando particolari segni, a volte ricorrendo ai fondi del caffè, ad un volo di uccelli, o al passaggio di una cometa. Abbiamo proprio battuto tutte le strade, il che vuol dire che si tratta di

un principio generale: da quando i primi esseri umani hanno cominciato a camminare eretti sulla terra, hanno cercato di sopravvivere adattandosi al proprio ambiente, noi siamo esseri adattativi, ossia traiamo lezioni dall'esperienza, e se siamo prudenti utilizziamo queste lezioni per anticipare un po’ sul futuro.

Da qualche secolo abbiamo messo a punto il linguaggio scientifico che è lo strumento più potente che siamo riusciti ad inventare per dire qualcosa sul futuro. Scienza e prudenza, quindi, hanno entrambe qualcosa a che fare con la dimensione del futuro.

Con questa relazione mi propongo due obiettivi:

1) Far vedere che la prudenza non è una virtù superata, anzi potrebbe divenire una virtù superiore impostaci dalla nostra responsabilità nei confronti del futuro dell’umanità. A questo proposito il problema si pone a due livelli: il rapporto tra prudenza e tecnologia, che per molti è l’aspetto concreto che la scienza assume, ed il rapporto tra prudenza e scienza propriamente intesa. Il primo aspetto sarà solo accennato, più spazio dedicherò al tentativo di rintracciare le ragioni della prudenza nel discorso scientifico che si è sviluppato in questo secolo.

2) Presentare alcuni percorsi tratti dalla storia dello sviluppo delle idee scientifiche per descrivere i quali il termine migliore che possiamo utilizzare è proprio quello di prudenza.

Certo non tutti i percorsi seguiti dalla scienza hanno avuto questa caratteristica, ma dovremmo abituarci all’idea che non esiste la Scienza, intesa come sinonimo di certezza e di verità, ma esistono le scienze, ognuna delle quali è caratterizzata da un proprio linguaggio e da un proprio metodo. C’è scienza e scienza, così come c’è scienziato e scienziato. Già questo è un accostarsi di tipo prudente alla scienza.

1) Perché la nostra responsabilità nei riguardi del futuro richiede la prudenza come virtù.

Brevemente per quanto riguarda il rapporto con la tecnologia. E’ un’osservazione scontata che lo sviluppo tecnologico verificatosi nell’ultimo secolo abbia fatto aumentare di molti ordini di grandezza il nostro potere di intervento sul mondo che ci circonda. Forse non riflettiamo abbastanza su una conseguenza di questa situazione: per la prima volta nella storia dell’umanità possiamo dire con certezza che il mondo di domani non sarà simile a quello di oggi, tanto che non è fuori luogo chiedersi se questa differenza non possa assumere aspetti tragici.

Paradossalmente l’essere umano pre-tecnologico poteva pronunciarsi con maggior certezza di noi sul futuro del mondo che avrebbe lasciato alle generazioni successive: di sicuro non sarebbe stato molto diverso dal suo.

Non vorrei essere frainteso: non si tratta di tracciare scenari apocalittici, o di demonizzare la tecnologia della quale ormai non potremmo più fare a meno. Si tratta di prendere coscienza dei problemi che l’avventura tecnologica pone. Niente più di questo, ma neanche niente di meno.

A questo proposito mi limito ad una citazione di G. Bateson e ad una di Hans Jonas.

Dice Bateson sulle specie che sono tanto stolte da non andare d’accordo con la propria ecologia:

“Se l’ambiente ci sembrerà da sfruttare a nostro vantaggio la nostra unità di sopravvivenza saremo noi e la nostra gente o gli individui della nostra specie, in antitesi con l’ambiente formato da altre unità sociali da altre razze e dagli animali e dalle piante.

Se questa è l’opinione che abbiamo sul nostro rapporto con la natura e se possediamo una tecnica progredita, la probabilità che abbiamo di sopravvivere sarà quella di una palla di neve all’inferno. Noi moriremo a causa dei sottoprodotti tossici del nostro stesso odio o, semplicemente, per il sovrappopolamento e l’esagerato sfruttamento delle riserve”( Verso un’ecologia della mente-Adelphi- pag. 480)

Quindi per Bateson il problema si pone per la convergenza di due fattori: da una parte l’idea che noi ci siamo fatti della natura come qualcosa di separato da noi di cui possiamo tranquillamente disporre, e dall’altra il fatto che siamo dotati di una tecnologia progredita: queste due condizioni quando si verificano contemporaneamente sono una miscela esplosiva.

Questo è anche il quadro presente in Jonas, il quale, tuttavia, pone l’accento sulla nostra responsabilità e quindi su un futuro che sarà determinato dalle nostre scelte: ci stiamo cacciando in un vicolo cieco dal quale potremo uscire solo se sapremo esercitare la prudenza come virtù necessaria:

 “In passato valeva il proverbio ‘chi non risica non rosica’, l’audace era stimato, chi era prudente un po’ disprezzato. Ma per la collettività, che all’inizio dell’avventura tecnologica poteva ancora pensarla in modo analogo e per un lungo periodo poté gloriarsi delle sue conquiste, la prudenza è divenuta una virtù superiore.....Per quanto concerne l’esame dei singoli rischi, nel Principio responsabilità ho proposto una regola ferrea per trattare l’incertezza: in dubbio pro malo, nel dubbio da’ ascolto alla prognosi peggiore piuttosto che alla migliore, poiché la posta è diventata troppo alta per il gioco.”( Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità-pag. 47- Einaudi)

E’ la stessa idea di prudenza che sottolineerà Bateson: bisogna essere prudenti nel porre il piede là dove anche gli angeli esitano, (dirò poi del perché si deve essere prudenti nel turbare equilibri millenari in cui siamo immersi, purtroppo non possiamo tirarci fuori dalla natura come soleva fare il Barone di Munchausen, che quando si trovava nella melma si sollevava per il codino).

Io mi limito a sottolineare un aspetto che considero fondamentale di questa avventura tecnologica: a prima vista essa sembra essere in stretto collegamento con il progresso scientifico, e all’inizio è stato sicuramente così. Solo che la scienza nell’ultimo secolo ha cambiato di molto le proprie prospettive, ma la tecnologia non se n’è accorta: i suoi obiettivi sono rimasti omogenei con le idee scientifiche del secolo scorso, dominate dall’idea di onnipotenza conoscitiva della scienza, mentre le rimangono sostanzialmente estranee le nuove immagini del mondo evocate dalla scienza del 900.

Non ci dobbiamo far ingannare, la tecnologia non è la scienza applicata. C’è una differenza sostanziale: la scienza è il nostro tentativo di comprendere meglio l’universo; la tecnologia è semplicemente una nostra creazione con la quale cerchiamo di costruire minuscoli universi, all’interno dei quali noi siamo i padroni, ai quali possiamo far loro fare ciò che vogliamo. Questi nostri universi tecnologici devono avere, pertanto, un comportamento prevedibile e deterministico per poter essere utilizzabili secondo i nostri fini, ma il mondo reale in cui viviamo, quello cui si riferisce la scienza, quello che la scienza si sforza di capire, è realmente deterministico e prevedibile?

E’ su questo interrogativo che inizia il discorso più propriamente scientifico. Secondo la scienza classica sì, il mondo era realmente deterministico e perciò il suo comportamento era perfettamente prevedibile purché conoscessimo le equazioni giuste. Tra tecnologia e scienza classica c’è, quindi, un rapporto molto stretto, entrambe si fondano sullo stesso paradigma e sulla stessa visione della realtà.

Una visione che, per quel che se ne sapeva fino al secolo scorso, poteva anche essere giusta, ed invece era sbagliata. La realtà è molto più complessa di quanto si sospettasse, e forse di quanto potremo mai sospettare.

Io vorrei dire dell’inadeguatezza di una visione del mondo troppo semplice, perché una visione semplicistica del mondo si accompagna inevitabilmente con l’imprudenza. Forse se ci rendiamo conto che l’incertezza e la complessità sono presenti nel cuore stesso della scienza potremo anche avanzare qualche dubbio sull’ottimismo che sembra caratterizzare la nostra impresa tecnologica, secondo il quale noi potremmo permetterci qualsiasi impresa arrischiata contando sul fatto che se effetti dannosi ci saranno, ad essi porrà rimedio il futuro progresso della tecnica: se la tecnica promette miracoli la scienza li esclude.

Cos’è accaduto a partire dall’inizio del secolo? perché la scienza non è più così ottimista sulle proprie possibilità?

Per rispondere a questi interrogativi punto di partenza è l’ideale conoscitivo della scienza classica che è stato espresso da Laplace nella seguente forma: se per ipotesi esistesse un essere che conoscesse la posizione attuale di tutte le parti componenti l’universo, e le forze agenti su di esse, allora questo essere avrebbe davanti ai propri occhi la conoscenza istantanea di tutto il passato e di tutto il futuro dell’universo. Un ideale difficile da perseguire ma in linea di principio possibile.

(E’ importante sottolineare le possibilità di principio: anche se irraggiungibili la conoscenza può essere pensata avvicinarsi indefinitamente a quanto fissato per principio. Ed infatti così si pensava).

La storia della scienza di questo secolo è la storia della crisi di questa idea di onnipotenza conoscitiva.

Certamente l’obiettivo della scienza è pur sempre quello di spiegare la realtà, quello che cercherò di dire è perché il grado di spiegazione scientifica massima, quella cioè a cui possiamo aspirare per principio, non possa più essere quello a cui aspirava il paradigma precedente ma debba compiere, per così dire, una ritirata strategica ed attestarsi su posizioni che definirei più prudenti e tolleranti (chi lega la scienza all’idea di audacia le definirebbe rinunciatarie).

Alla fine del secolo scorso, quando si comincia a studiare la struttura atomica della materia, vengono scoperti fatti completamente nuovi che non è più possibile interpretare seguendo le tracce dell’antico. I nuovi fenomeni dovevano essere interpretati con un linguaggio completamente nuovo: la meccanica quantistica fu questo nuovo linguaggio.

Sulle implicazioni filosofiche di questo nuovo linguaggio sono scorsi fiumi di inchiostro; sicuramente ne sono possibili diverse letture. Quella che propongo io è una lettura che sottolinea la necessità di una maggiore prudenza nell’accostarci alla realtà, prudenza che deriva da una maggiore consapevolezza dei nostri limiti.

Di questo nuovo linguaggio sottolineo due caratteristiche essenziali:

A) Nel nuovo linguaggio è assente il concetto di certezza nel prevedere il comportamento futuro di un oggetto. La nuova scienza consente solo di calcolare delle probabilità che un evento accada.

Di sicuro si tratta di un ripiegamento, ma non c’è altro da fare. L’aspetto sostanziale della questione è che questo limitarci a calcolare delle probabilità non è dovuto ad una momentanea situazione di ignoranza che sviluppi futuri potrebbero superare; purtroppo o per fortuna la Natura è fatta in modo tale che ci consente di calcolare solo delle probabilità che gli eventi accadano o che vadano in una certa direzione.

Un simile cambiamento di prospettiva cambia lo scopo programmatico della scienza, ma cambia anche la visione che noi ci facciamo del mondo che ci circonda, cambia anche la risposta alla domanda che da sempre ci poniamo: se al fondo delle cose ci sia una situazione dominata dall’ordine o dal disordine.

E’ una vecchia questione presente in tutti i miti della Creazione, e che Galileo sembrava aver risolto in maniera definitiva: il mondo parla un linguaggio matematico, e quindi esso deve essere ordinato ed il suo comportamento prevedibile.

Ora la situazione è ribaltata: al fondo delle cose domina il caso, e noi non possiamo avere certezze sul comportamento di alcunché, possiamo solo presentare varie possibilità di evoluzione, varie storie possibili, ognuna delle quali caratterizzata da una propria probabilità.

B) La seconda caratteristica fondamentale del nuovo linguaggio si potrebbe così esprimere: il contesto risulta decisivo nel determinare ciò che si osserva.

Anche questa affermazione esprime una radicale rinuncia rispetto agli ideali del passato: ora è l’idea di realtà oggettiva, esistente con proprietà indipendenti da chi osserva, che viene meno.

Per capire perché si è dovuti giungere a questa conclusione, bisogna dire della difficoltà imprevista che sorge quando l’oggetto che noi osserviamo è dell’ordine di grandezza atomico.

Mi limito ad una considerazione ovvia, ma che ciò che è ovvio sia anche comprensibile non è poi tanto ovvio. Questo è un caso: noi partiamo da una considerazione ovvia e arriviamo ad un risultato che appare completamente sballato per il senso comune.

Per poter compiere una misurazione su un oggetto lo si deve osservare, ma per osservarlo si deve colpire quello stesso oggetto per esempio con un raggio di luce. Questo avviene anche nel mondo macroscopico, noi possiamo osservare un oggetto solo attraverso i raggi di luce riflessi ai nostri occhi. La luce è il principale mezzo che abbiamo a disposizione per conoscere la realtà che ci circonda.

A pensarci bene noi viviamo immersi e circondati dalla luce riflessa, luce che ha interrotto il suo cammino, ha urtato contro qualcosa che altrimenti ci sarebbe rimasto misteriosamente invisibile, di cui mai avremmo saputo l’esistenza. Questa rete di riflessioni giunge ai nostri occhi, li attraversa ed in qualche modo noi vediamo e conosciamo ciò che l’ha determinata.

Nel mondo macroscopico possiamo senz’altro ritenere che questa rete di riflessioni non modifichi gli oggetti che vi sono immersi, ma che accade quando le dimensioni, o l’energia, di un oggetto sono più o meno le stesse di quelle del raggio incidente? In questo caso non esiste più alcun ‘nascondiglio perfetto’ dal quale compiere l’osservazione, il semplice atto di osservare perturberà in maniera sostanziale l’oggetto osservato, e con ciò viene meno l’idea di una realtà oggettiva indipendente dall’osservatore. Ma il fatto realmente decisivo è che la perturbazione subita dall’oggetto dipenderà dal tipo di misurazione che su di esso si è effettuata, e dalle condizioni sperimentali che si sono dovute realizzare per effettuare questa misura.

Il risultato è che la realtà diventa contestuale, noi creiamo un contesto sperimentale per osservare un certo oggetto, ma l’oggetto osservato manifesterà comportamenti diversi, addirittura contraddittori, a seconda del contesto sperimentale utilizzato. E’ un duro colpo per il concetto di realtà oggettiva.

Per il tema che ci riguarda questa considerazione ha conseguenze di vasta portata.

Cosa vuol dire che il contesto risulta decisivo nel determinare ciò che si osserva? Vuol dire che nemmeno a livello delle particelle elementari, cioè delle unità più semplici che si conoscano, è possibile considerare tali unità isolate ed indipendenti da ciò che le circonda. Se questo è vero per le particelle elementari tanto più lo sarà per oggetti di complessità crescente, per i quali risulterà decisiva la struttura che connette come la chiamava Bateson:

Avrebbero potuto dirci qualcosa sulla struttura che connette: che ogni comunicazione ha bisogno di un contesto, che senza contesto non c’è significato, che i contesti conferiscono significato perché c’è una classificazione dei contesti” (Verso un’ecologia della mente-Adelphi- pag. 30-33)

“La struttura che connette. Perché le scuole non insegnano quasi nulla su questo argomento?

Quale struttura connette il granchio con l’aragosta, l’orchidea con la primula e tutti e quattro con me? E me con voi? E tutti e sei noi con l’ameba da una parte e con lo schizofrenico dall’altra? (Mente e natura-Adelphi- pag. 21)

Questo è il punto cui volevo arrivare: a tutti i livelli la scienza scopre l’importanza della pluralità di storie possibili da una parte, e del contesto dall’altra.

[Questa interpretazione è accusata di essere anticopernicana perché rimetterebbe al centro l’essere umano là da dove Copernico l’aveva scacciato. In realtà la rivoluzione copernicana aveva sì scacciato l’essere umano dal centro geografico dell’universo, tuttavia non aveva riconosciuto ad esso nessun limite naturale alla sua possibilità di conoscere. La nuova interpretazione rimette sì l’essere umano al centro dell’interpretazione della realtà, tuttavia fissa delle colonne d’Ercole insuperabili per la sua conoscenza, una colonna è senz’altro il principio d’indeterminazione, l’altra è la complessità della natura che circonda. Spero che dal percorso risulti chiaro che la prudenza è più legata ad una consapevolezza dei nostri limiti più che ad un semplice spostamento geografico della nostra collocazione nell’universo].

Le implicazioni sono evidenti: sottolineare l’importanza del contesto in cui gli eventi si realizzano significa dire della complessità degli eventi stessi, il fatto cioè che non esistano eventi isolati che possano essere descritti senza alcun riferimento ad altri sistemi. Tutti gli eventi avvengono in un contesto con il quale formano una unità inscindibile.

Se le particelle (per dire delle parti costituenti un sistema) potessero esistere, per così dire, ‘nude’, cioè isolate, senza interazioni con l’ambiente, con una loro identità precisa e univoca, il mondo sarebbe incredibilmente semplice. Ai fisici piacerebbe un mondo siffatto; anche se dubito che in un mondo del genere potrebbero esistere dei fisici.

Se invece vogliamo descrivere un sistema dobbiamo tener conto non solo delle parti che lo compongono, ma anche delle relazioni tra di esse: il tutto non è mai riducibile alla somma delle parti, sono le relazioni tra le parti a fare la differenza.

La prudenza ha molto a che fare con il nostro rapporto con un mondo dominato dalla complessità.

Questo può essere un punto di riflessione: che differenza di atteggiamento c’è nel nostro rapporto con il mondo a seconda che noi pensiamo di avere a che fare con un mondo semplice il cui comportamento può essere previsto dalle nostre leggi, e quindi possiamo anche pensare di dominarlo, e un mondo caratterizzato dalla complessità.

Se pensiamo ad un mondo semplice potremo anche pensare di poterlo descrivere esattamente. Noi scriviamo delle formule sulla carta e questi segni ci dicono della storia del mondo (Laplace).

Se pensiamo ad un mondo complesso questi segni non basteranno, (non dico che siano inutili, dico che non basteranno), dovremo utilizzare anche altri criteri per descriverlo, dovremo ricorrere anche a criteri narrativi, e davanti ad esso non si aprirà mai una singola storia, ma una possibilità di storie, quale di queste si realizzerà effettivamente dipenderà da molti fattori, alcuni saranno indipendenti dalla nostra volontà, altri saranno la conseguenza delle nostre scelte.

Queste considerazioni danno un’idea della profondità del cambiamento che l’immagine della natura ha subìto negli ultimi decenni: al mondo delle leggi, dell’ordine, della misura si accompagna un paradigma storico (si accompagna non si sostituisce), che è necessario per poter narrare di eventi contingenti unici ed irripetibili, che per essere descritti richiedono che vengano abbattute le barriere fra due stili di fare scienza (quello fondato sulle leggi e quello fondato sulla storia), ed occorre, quindi, che lo scienziato che vuol confrontarsi con essi acquisisca nuove abilità.

La sostituzione di un paradigma con l’altro sarebbe una ingenuità: ci sono entrambi necessari, perché ognuno di essi cattura un principio profondo che la comprensione umana dei fenomeni storici richiede assolutamente. Noi siamo uno strano miscuglio di temporalità e atemporalità.

Due citazioni, a questo proposito, di due scienziati che più hanno contribuito al diffondersi di queste idee. Recentemente a Torino si è tenuto il Salone del libro. Tema della manifestazione era l’immortalità. Invitato di rilievo il chimico-fisico Ilya Prigogine, secondo il quale il compito principale cui si trova di fronte la scienza è quello di ripensare le proprie leggi in modo che in esse sia presente in maniera intrinseca l’irreversibilità del tempo. Significativo un passaggio della sua relazione:

“Non bisogna considerare le particelle isolate, bensì le popolazioni di particelle nel loro insieme; con questo nuovo tipo di fisica si sono trovate nuove soluzioni che sono orientate nel tempo: il fatto nuovo e importante è il passaggio da un universo geometrico a un universo narrativo” (da L’Eco di Bergamo del 25/05/97)

A tutti i livelli vediamo nella natura l’emergere di ‘elementi narrativi’, e questi elementi storico-narrativi sono parte della complessità.

La seconda citazione è di Stephen J. Gould, probabilmente il più grande biologo evoluzionista vivente, che riprende l’idea della storia della natura come un grande romanzo:

“Prospero ,dopo aver salvato i suoi nemici dalla tempesta, dice di non poter narrare la storia della sua vita troppo semplicemente, poiché “questa è una storia da narrarsi un po' per giorno e non un racconto da ripetersi a colazione”. Il racconto è lungo e complesso ma affascinante e risolvibile. Noi possiamo conoscere la ricchezza della storia anche nella scienza. Una spiegazione appropriata può richiedere una grande quantità di particolari. Le nostre storie possono richiedere le sottili abilità di Sheherazade piuttosto che la concisione e l’essenzialità; ma chi si è mai annoiato leggendo le storie di Sindbad il marinaio o della lampada magica di Aladino?” ( Risplendi grande lucciola- Feltrinelli- pag.260)

La consapevolezza di vivere in un mondo dominato dalla complessità dovrebbe renderci estremamente cauti nel credere che un’unica via (quella scientifica) possa esaurire le nostre possibilità di conoscenza. La prudenza consiste nel riconoscere che nuovi territori possano essere meglio esplorati utilizzando più forme di sapere, riconoscendo che nessuna figura della razionalità (scientifica, filosofica o teologica) può essere quel luogo all’interno del quale far quadrare tutti i conti.

Prudenza in rapporto alla scienza, allora significa abbandono di una visione meccanicista e frammentata del mondo, istituzione di vie di comunicazione tra diversi modi di conoscere, abbandono di ogni autorità assoluta che pretenda di avere il monopolio della verità, secondo lo stile con cui P. Feyerabënd cominciò una sua lezione:

“Ora, eccoci qui; seduti nell’aula magna di una università e io suppongo che voi siate venuti per ascoltare qualche idea piuttosto che per assistere ad una dimostrazione di perversione sessuale. Perciò vi presenterò delle idee, ma a modo mio.[.....]

Ci sono molte maniere per farlo. Una di queste consiste nel presentare idee e concezioni del mondo in una prospettiva storica, cioè raccontare come sono nate e perché molti le hanno accettate ed hanno agito di conseguenza. Questo compito non è affatto semplice, perché il nostro modo di considerare la storia è influenzato da modelli che ci hanno ormai ipnotizzato. Inoltre, io non sono un esperto; so di uno scandaletto qui, di una ideuzza là, e con tutto questo imbastisco le mie storie. A rigor di termini, le mie lezioni saranno delle favole imbastite intorno a certi fatti che sono vagamente storici. Ciò non mi preoccupa affatto, perché io ho il sospetto che anche i veri ‘esperti’ raccontino favole, solo che le loro favole sono più lunghe e molto più complicate, il che non significa che non possano essere molto interessanti. Ascoltare semplici favole può non essere il vostro spettacolo favorito: forse vorreste sentire la VERITA’. Se questo è ciò che volete, allora forse dovreste trovarvi altrove: ma giuro sulla mia vita che non saprei dirvi dove esattamente” ( Ambiguità e armonia- Laterza- pag.16-18)

2) Nel secondo punto presento alcuni esempi tratti dalla storia del pensiero scientifico. Vorrei mostrare che quando si parla di prudenza in relazione alla scienza non si fa semplicemente un auspicio sul come dovrebbe essere, ma che percorsi legati alla prudenza sono stati ampiamente praticati.

2.1) Niels Bohr e il principio di complementarità.

2.1.1) Bohr è stato grande come essere umano prima ancora che come scienziato. Popper quando lo incontrò per la prima volta ebbe a dichiarare di aver avuto l’impressione di essersi trovato di fronte ad un uomo grande e buono, da sottolineare l’aggettivo buono, non viene utilizzato spesso per descrivere un essere umano. Ho il sospetto che queste caratteristiche umane di Bohr in qualche modo si siano trasferite anche nelle sue concezioni scientifiche, nel senso che in esse è possibile ritrovare tracce sia della prudenza che della tolleranza che furono dell’uomo Bohr. In particolare nel suo principio di complementarità che è stato al centro di accesi dibattiti negli anni ’30, e che dopo essere sparito per alcuni decenni dalle discussioni scientifiche viene ora ripreso da importanti fisici. Ora si possono eseguire esperimenti capaci di indicare se la complementarità sia una semplice opzione filosofica, o sia un principio profondo che caratterizza la natura, e gli esperimenti sembrano indicare che si tratta di una proprietà della natura ancor più fondamentale del principio di indeterminazione, con la quale dovremmo imparare a convivere.

Il punto in discussione era esattamente questo: che fare quando la stessa realtà sembra descrivibile con linguaggi tra di loro inconciliabili ma entrambi veri?

(Come ad es. nel caso della luce? La luce era costituita da particelle e quindi spiegabile utilizzando un linguaggio corpuscolare, o era un’onda elettromagnetica e quindi spiegabile con un linguaggio ondulatorio? Ognuno dei due linguaggi ha caratteristiche specifiche e risulta applicabile solo all’interno della categoria di fenomeni cui si riferisce. Eppure non sembrava esserci mezzo per descrivere coerentemente tutti i fenomeni luminosi con uno solo dei linguaggi disponibili, quello ondulatorio o quello corpuscolare.

Talvolta si doveva ricorrere ad una teoria e talvolta all’altra, ottenendo così due rappresentazioni opposte della medesima realtà: nessuna delle due era sufficiente a descrivere l’ente fisico “luce”, solo insieme vi riuscivano. Secondo qualche bello spirito la luce era onda di lunedì, mercoledì, e venerdì, e particella di martedì, giovedì e sabato. Quanto alla domenica non restava che pregare.)

Su questo terreno si affrontano due diverse impostazioni filosofiche. Einstein, e con lui Schrödinger, ritengono che quando si è di fronte a due interpretazioni alternative e contraddittorie dello stesso fenomeno, si debba cercare una loro composizione a livello superiore. Scopo della scienza è quello di arrivare ad una immagine unica e completa della realtà fisica che sia a noi comprensibile. Questa immagine unica dovrebbe essere ottenuta dalla composizione o dal superamento delle due immagini contraddittorie che noi ora possediamo.

L’impostazione di Bohr è affatto diversa. Si è spesso sottolineato il debito di Bohr nei confronti delle idee di Kierkegaard, al contrario della posizione di Schrödinger che seguirebbe un’impostazione hegeliana.

Quando Kierkegaard si trova di fronte a due termini che si escludono a vicenda non cerca una loro composizione, piuttosto considera queste opposizioni così irriducibili che il pensiero umano non può tentare una loro sintesi conciliatrice che in qualche modo le riunisca.

Bohr utilizza questa stessa impostazione per risolvere i problemi della descrizione del mondo atomico, con il suo principio di complementarità afferma che è impossibile ricercare un’unica immagine che racchiuda la totalità dei dati ottenuti da diverse condizioni sperimentali. Questi dati devono essere considerati complementari, nel senso che noi potremo avere un’informazione completa sugli oggetti non attraverso una sintesi che compendi aspetti diversi e contrastanti, ma considerando la totalità dei fenomeni presi separatamente.

Dobbiamo rinunciare a ricercare spiegazioni in termini univoci: o....o, o una cosa o il suo opposto. Spesso è più adeguato dire e.....e, una cosa può presentare sia un aspetto che il suo contrario, solo che noi con la nostra percezione e il nostro linguaggio riusciamo a cogliere solo un aspetto alla volta.

Bohr non era interessato solo ai problemi della fisica atomica ma anche ai problemi dell’esistenza umana, e riteneva che i progressi compiuti dalla fisica atomica nella visione del mondo potessero aiutarci anche in altri campi dell’esperienza. Negli ultimi anni della sua attività Bohr sottolineava molto l’importanza della complementarità anche per questioni molto lontane dalla fisica,

Secondo Bohr un atteggiamento conoscitivo fondato sul principio di complementarità comporta cautela e prudenza quando ci si accosta a realtà che non appartengono al nostro mondo quotidiano, questo vale sia nel mondo atomico sia quando si affrontano culture diverse:

“Nonostante il grande divario esistente tra i diversi rami della conoscenza di cui ci occupiamo, la recente lezione appresa dai fisici circa la cautela con la quale tutte le convenzioni usuali vanno applicate non appena si esce dall’esperienza quotidiana, può, in effetti, servire a mostrare sotto nuova luce i pericoli, ben noti agli umanisti, insiti nell’atteggiamento di chi giudica dal proprio punto di vista culture sviluppatesi in seno ad altre società”.(N.Bohr-I quanti e la vita pag. 48- Boringhieri)

“Possiamo dire che le diverse culture umane sono complementari le une rispetto alle altre. Infatti ognuna di queste culture rappresenta un bilancio armonico di convenzioni tradizionali per mezzo delle quali le potenzialità latenti della vita umana possono dispiegarsi e rivelarci nuovi aspetti della sua illimitata ricchezza e varietà” (ibid. pag.57)

Dal principio di complementarità Bohr fa, quindi, discendere una lezione di prudenza e tolleranza, anche se la cosa non è automatica, e legata a questa tolleranza vi è ancora l’idea che la verità assoluta sia qualcosa che ci sfugge: chissà se c’è, chissà dov’è, certo non nella scienza.

Si racconta che una volta gli chiesero in tedesco qual è la qualità complementare della verità (Wahrheit). Dopo una breve riflessione Bohr rispose che era la chiarezza (klarheit), come a dire che la verità è sempre avvolta da una nube di nebbia.

Quella di cui parla Bohr non è una nebbia banale in cui semplicemente tutte le vacche sono grigie, ma una nebbia nella quale si procede con difficoltà consci dei propri limiti e dalla complessità della realtà che ci circonda, una complessità nella quale le cose non sono o bianche o nere, ma possono essere simultaneamente e bianche e nere. Il che non vuol dire che siano grigie, anzi il principio di complementarità esclude le situazioni intermedie, il dualismo è conservato nella sua pienezza, come esige il principio di sovrapposizione (il principio più importante a cui obbediscono le relazioni della meccanica quantistica), secondo il quale quando uno stato è esprimibile come somma di altri stati il segno + che compare nella somma va interpretato come e....e....: tutti gli stati che compaiono nella somma sono contemporaneamente possibili: la realtà è avvolta in una nebbia di possibilità.

Questa immagine della nebbia me ne richiama un’altra: Mosé che per accostarsi alla Verità sul monte Sinai deve entrare in nube di caligine (Es. 19,18): ‘Il Sinai era tutto fumante perché su di esso era sceso il Signore come un fuoco. Il fumo saliva come quello di una fornace, e tutto il monte era scosso come da un terremoto’ ‘Allora vi siete avvicinati e vi siete fermati ai piedi del monte che bruciava: le sue fiamme arrivavano fino al cielo; era buio e c’erano nubi molto dense’ (Dt. 4,11)

Così appariva il monte della Verità a coloro che stavano ai suoi piedi: avvolto da nubi molto dense. Come osserva Paolo de Benedetti (Sul Monte Sinai etica o Rivelazione? -Morcelliana) noi non siamo entrati con Mosè dentro la nube: per noi la tenebra, la nube e la caligine rimangono a nascondere ciò che Mosè ha visto. Per essere precisi non abbiamo visto nemmeno Mosè e neanche il Sinai.

Da un lato, come credenti, ci troviamo a dover dire sì a ciò che Mosè ha visto, e dall’altro ad essere consapevoli che si tratta di una realtà avvolta nell’inconoscenza e per di più soggetta alla critica storica. Forse anche quando parliamo di Dio il principio di complementarità può esserci d’aiuto, non per dirci la verità su Dio, ma come ammonimento contro la ricerca di soluzioni dialettiche, ed in favore, invece, dei doppi pensieri. Doppi pensieri che ci assillano tutte le volte che ci troviamo di fronte a ciò che è vivo che diventa morto e ci chiediamo come ciò possa piacere a Dio.

Questo strumento dei doppi pensieri in teologia è utilizzato da Italo Mancini:

“L’uomo non è capace di un pensare trasparente che non comporti in ogni tesi l’urto di una antitesi, meglio è forse dire, per schivare il modulo dialettico, che in ogni posizione c’è il suo opposto e la sua contrapposizione. O la teologia si cimenta nella coesistenza di queste antinomie, oppure rischia di organizzarsi in fenomeni chiamati teologici, ma che in realtà hanno ben poco del tormento teologico”

“...la verità dura dei doppi pensieri, così inclini alla doppiezza, può essere elevata a struttura del pensiero, come quella che non ha mai un valore e un atto unico, ma sempre si spezza in queste doppie valenze, che non necessariamente rivelano doppiezza, ma dualità, mancanza di occhi semplici e trasparenti, severa necessità di tener conto della complessità delle cose”.(citaz. da P.de Benedetti: Sul Monte Sinai etica o Rivelazione? pag.35)

E’ da sottolineare l’ultima frase: severa necessità di tener conto della complessità delle cose, perché sul contenuto di questa frase convergono tutte le riflessioni che ho presentato, e che sono state elaborate negli ambiti più diversi. Tener conto della complessità delle cose è sinonimo di prudenza.

2.2) Gregory Bateson, antropologo-psichiatra-cibernetico, è uno scienziato che ha operato in un contesto tutto diverso rispetto a Bohr, e le cui riflessioni portano il discorso della prudenza a livello di ecosistema. Il fatto che anche a livello di ecosistema si ripropongano situazioni con forti analogie rispetto a quelle incontrate da Bohr a livello atomico è degno di riflessione.

Temi centrali di Bateson: Le creature non sono sistemi isolati, ma parti di sistemi più vasti, per cui anche a livello ecologico si ripropone quanto si è già visto a livello atomico: la realtà è non-separabile, le creature sono le loro storie, e le storie possono essere raccontate solo specificando il contesto in cui avvengono.

Essere prudenti per Bateson significa sostanzialmente due cose:

A) Dare più importanza ai mezzi che ai fini.

Non si tratta della solita predica sui fini se giustificano o meno i mezzi, ma si tratta di ragionare sui pericoli che sono inerenti a questi mezzi. Bateson, a questo proposito, cita un contributo di Margaret Mead:

“<<Prima di applicare la sociologia ai nostri affari nazionali, dobbiamo riesaminare e modificare lenostre abitudini di pensiero sul tema dei mezzi e dei fini. Nel quadro della nostra cultura abbiamo appreso a classificare i comportamenti in ‘mezzi’ e ‘fini’ e se procediamo a definire i fini come se fossero separati dai mezzi e poi applichiamo brutalmente gli strumenti sociologici, adoperando ricette scientifiche per manipolare la gente, arriveremo a un regime totalitario piuttosto che a un regime democratico>>. La soluzione da lei proposta consiste nel ricercare le ‘direzioni’ e i ‘valori’ impliciti nei mezzi a disposizione, piuttosto che spingersi verso uno scopo programmato considerando questo scopo come in grado di giustificare o di non giustificare i mezzi di manipolazione mesi in essere. Dobbiamo ricercare il valore di un atto pianificato in quanto implicito  e contemporaneo all’atto stesso, e non come separato da esso come se l’atto derivasse il suo valore solo riferendosi a un qualche scopo o fine futuro.”( Bateson-Verso una ecologia della mente-Adelphi)

Non credo che con questo si voglia dire che non dobbiamo avere un fine nelle nostre azioni.

E’ chiaro che l’insieme dei nostri gesti deve essere legato da un filo conduttore che può essere appunto un nostro progetto, ma questo progetto deve funzionare come sfondo, come orizzonte di riferimento, e non come qualcosa di assoluto solo in riferimento al quale ciò che facciamo ha o non ha valore. Dobbiamo stare molto attenti alla Qualità dei mezzi che utilizziamo, forse è questo il fine più importante che ci dobbiamo proporre.

B) Conoscere il contesto più ampio entro cui si svolge la nostra storia, i meccanismi fondamentali di regolazione di questo contesto, come reagisce alle modifiche che noi introduciamo in esso. Prima di giocare agli apprendisti stregoni dovremmo conoscerlo, e quando non possiamo prevedere le conseguenze di lungo periodo di ciò che facciamo, dovremmo essere prudenti nel porre il piede là dove anche gli angeli esitano.

Questa considerazione potrà risultare sorprendente, ma com’è possibile? Supponiamo di sapere tutto dal primo miliardesimo di secondo in poi sull’evoluzione dell’universo, ci occupiamo di quark e di superstringhe per trovare una legge che unifichi tutte le interazioni presenti in natura, e non sappiamo prevedere come il nostro mondo reagirà alle nostre azioni?

Eppure è così: sul comportamento dell’atmosfera rimane molto da sapere, del comportamento della biosfera, in cui si svolge la nostra azione, rimane da sapere quasi tutto.

Ciò che conosciamo relativamente meglio è il comportamento dell’idrosfera. Le grandi correnti oceaniche sono studiate da molto tempo, ma anche qui non mancano sorprese.

La corrente meglio studiata è El Nino, la corrente calda che bagna le coste dell’America meridionale.

La temperatura del percorso sud del Nino è aumentata dal 1976 al 90 e rimane la più alta mai registrata. E’ crudele el Nino: il clima di una vastissima zona è sconvolto, piove dove già piove troppo e non piove dove dovrebbe. Il plancton muore e con esso i pesci. Centinaia di milioni di persone fanno la fame per colpa del Nino. I coordinatori dei rilevamenti del Nino dicono che secondo loro questa tendenza sembra in parte dovuta all’incremento dei gas da effetto serra. Ed eccoci tornati alla biosfera, qui prevale l’attività umana, e di questa noi siamo i responsabili: essere responsabili significa aver presente che tutto si tiene, che spesso sono le piccole cose, a torto considerate ininfluenti, ad essere decisive, perché esistono interrelazioni su grande scala; modifiche della biosfera che ci appaiono insignificanti possono avere conseguenze imprevedibili e scatenare El Nino dall’altra parte del pianeta.

Interrogarsi sulla struttura che connette la nostra specie con la natura in una storia comune di coevoluzione, evitando di pensare sempre in termini di ‘io’, come se noi non fossimo parte di questa struttura: questo è l’insegnamento di Bateson. La presa di coscienza di questa comunanza terrestre può essere l’evento chiave per il successo, o meno, di quell’interessante esperimento di coscienza che l’evoluzione ha tentato appena un paio di secondi geologici fa.

Concludo con un riferimento alla Genesi ed al racconto della Creazione.

I primi sei giorni sono i giorni dell’evoluzione biologica, ma comparso l’essere pensante al settimo giorno Dio si riposò. Il settimo giorno di Dio sta durando tuttora.

Dio si riposa non perché la sua opera è compiuta, è evidente che non è compiuta, e forse qualcosa non è andato per il verso giusto: noi ci stiamo dando molto da fare per disturbare il giorno di riposo di Dio. Nonostante vi sia una terra ancora da costruire Dio si riposa perché il compimento dell’opera è affidato alla responsabilità di questa nuova creatura pensante.

Questa è la logica della Creazione in termini evolutivi, e qui possiamo ancora seguire una pista indicata da Jonas, che porta alle estreme conseguenze la teoria della contrazione (ritiro) di Dio già presente nella Kabbalah di Yitzaq Luria e riscoperta da Gershom Scholem: nel momento in cui Dio accetta la creazione di un universo in cui nascerà una creatura libera e autonoma, accetta inevitabilmente di autolimitarsi, accetta, cioè, di porre il destino della Creazione nelle mani della creatura libera, rinunciando con ciò alla propria potenza.

Così si esprime Jonas cercando di dare significato al concetto di Dio dopo Auschwitz:

Dopo essersi affidato totalmente al divenire del mondo, Dio non ha più nulla da dare: ora tocca all’uomo dare. E l’uomo può dare, se nei sentieri della sua vita si cura che non accada o non accada troppo sovente, e non per colpa sua, che Dio abbia a pentirsi di aver concesso il divenire del mondo. (Il concetto di Dio dopo Auschwitz pag.38).

Questa considerazione ci rimanda all’inizio: alla prudenza intesa come capacità di anticipare il futuro ed esserne responsabili, noi ci troviamo davanti a queste prospettive finali: quello di una creatura che accetta di portare a compimento la Creazione in alleanza con essa, essendo consapevole della propria fragilità; quella fragilità che costituisce la stoffa di cui è fatta la Creazione, e sulla quale si fonda quel legame profondo e misterioso che in qualche maniera tiene avvinto tutto ciò che contiene il soffio di Dio, oppure sarà l’alternativa drammatica evocata da Wiesel: non ci resterà che piangere con Dio sulle rovine della Creazione, e magari piantarci sopra un bel cartello: esperimento fallito.


 

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