ciclo di incontri - Marzo 1999
Quaderno n.76
Creare e costruire. La creazione tra teologia e scienza
  chiudi  
stampa questa pagina  




La teologia della creazione ed il paradigma evoluzionista

Lodovico Galleni

L’evoluzione pone dei problemi alla riflessione della filosofia e della teologia cristiane, non ho la pretesa di risolverli, ma almeno di chiarire meglio quali domande debbano porsi riguardo all’evoluzione. Il punto di partenza, per me, è sempre una frase che scrive Teilhard nel suo diario durante la prima guerra mondiale, “Il fatto che Dio abbia creato il mondo in evoluzione pone una realtà ontologica profonda di questo modo di creare”; non è indifferente per la riflessione teologica che il mondo sia statico e fermo o che tutti gli oggetti siano in trasformazione con Dio. Non sappiamo come Dio abbia creato le cose all’inizio, ma abbiamo informazioni di come poi questi oggetti siano cambiati nel tempo; per me, zoologo, il fatto del tempo che cambia le cose non è trascurabile, l’ho tutti i giorni sotto gli occhi, il mondo della natura è un mondo in trasformazione continua. Dio non crea un mondo in cui ogni oggetto trova già dall’inizio un posto preciso, ma un mondo che si fa nel tempo, in cui la novità emerge attraverso certi meccanismi che noi cerchiamo di studiare. Il primo problema che si pone è la contrapposizione, che c’è stata nella storia della scienza, e che è durata dalla fine del settecento agli inizi del novecento, tra fissismo ed evoluzione, almeno nel campo della biologia. Fissismo significa che le specie sono nate come le vediamo oggi e non sono cambiate nel tempo, una specie può nascere, può svilupparsi, può morire ma non può dare origine ad altre specie, tutti i viventi d’oggi sono il frutto di storie parallele ma separate. Al fissismo si è collegata poi la teoria della creazione, forse questo è stato un errore dovuto al fatto che la dottrina della creazione si è incontrata con la filosofia del demiurgo platonico, che era il garante che le cose del mondo funzionassero nel modo giusto, e questa sintesi tra filosofia e teologia ha condizionato fortemente la scienza, che ha sfruttato questa prospettiva perché era l’unico modo per lavorare. Per secoli lo scienziato che si occupasse della struttura degli animali era spinto nella ricerca perché convinto che la perfezione della struttura dei viventi fosse dovuta all'opera di un Dio provvidente; la visione di un Dio che crea nel modo perfetto anche la zampa di un coleottero era più importante per lo scienziato che per il teologo. Il problema comincia a porsi con l’affermarsi di una visione evoluzionistica, secondo la quale i viventi che conosciamo oggi non sono sempre stati come noi ora li conosciamo, ma sono il risultato di un lungo processo di trasformazione che è avvenuto nel tempo e che ha funzionato attraverso meccanismi di discendenza e di trasformazione delle specie. Le specie che vediamo oggi possono essere collegate a progenitori comuni e, procedendo all’indietro, alla fine si trova uno o pochi progenitori comuni a tutti i viventi. L’evoluzione ha come concetto portante quello di discendenza comune, tutti i viventi derivano da uno stesso ceppo, da una comune matrice, perciò il tempo porta trasformazione, porta discendenza, porta origine di nuove forme viventi e di nuove specie, porta cambiamento. Come si è arrivati a questo? La storia inizia in Toscana subito dopo Galileo, quando all’accademia del Cimento, che cerca di applicare alla fisica, ma anche alla biologia le idee e il metodo di Galileo, arriva uno scienziato danese, Stenone, il quale è chiamato a fare la dissezione di uno squalo rimasto intrappolato nelle reti a Livorno. Nel fare la dissezione egli si rende conto che i denti corrispondono a delle pietre che aveva raccolto su delle colline dietro Livorno. Era già molto viva la discussione su cosa fossero queste pietre, alcuni scienziati affermavano che erano resti d’animali o di piante vissuti in tempi precedenti. Stenone conferma questa ipotesi, e soprattutto si pone il problema di come mai questi pezzi di squalo fossero fuori posto, come mai si trovavano nella roccia di una collina. Per spiegare questo dato abbozza una prima ipotesi di trasformazione nel tempo del paesaggio geologico: il paesaggio geologico cambia perché fenomeni d’erosione, di sedimentazione, fanno sì che un braccio di mare si riempia con la sedimentazione e che l’erosione porti allo scoperto gli strati che si erano sedimentati prima che il mare si ritirasse. Quando un pesce muore va sul fondo, viene coperto dagli strati che man mano sedimentano e quando lo strato viene allo scoperto vi si troveranno i resti del pesce, ma se ora quello strato è allo scoperto vuol dire che il fondo del mare è diventato una collina. L’importanza di questa visione è che con essa entra il tempo nelle cose della natura. La storia della natura diventa una storia di cambiamenti nel tempo e il tempo non è più garanzia di stabilità. Stenone si occupa di fossili, non va oltre, il punto fondamentale è che il tempo come fonte di cambiamento fa la sua comparsa in geologia e da lì, a poco a poco, estende la sua azione alla biologia. I cambiamenti intervenuti nel paesaggio geologico si rivelano sempre più ampi ed i tempi necessari per la loro realizzazione si allungano sempre più: Buffon a Parigi comincia a parlare di 70.000- 100.000 anni per l’età della terra, tempi che ora ci fanno sorridere ma che allora apparivano enormi proprio perché scardinavano l'idea dei 6000 anni delle genealogie bibliche e riportavano la questione del tempo ad oggetto d’indagine della scienza e non più a questione da cercarsi e risolversi nel testo biblico. Se i tempi di esistenza delle specie diventano molto lunghi, e le specie possono cambiare nello spazio- infatti tutte le grandi scoperte geografiche portavano sempre nuove prove che la specie è qualcosa di mutabile e che una pianta raccolta ad una certa latitudine è diversa da una pianta simile della stessa specie raccolta ad una latitudine leggermente diversa- perché, allora, le specie non potrebbero cambiare nel tempo? Comincia ad affermarsi l’idea che le specie si possono trasformare, ci sono resti fossili che non corrispondono a nulla di ciò che oggi conosciamo e che testimoniano che le specie si trasformano nel tempo. La prima grande ipotesi di trasformazione del vivente è quella di Lamarck alla fine del '700. Le sue idee sono state troppo spesso banalizzate tanto da non coglierne l'aspetto sostanziale che è quello di ricercare dei meccanismi che siano in grado di spiegare l’evoluzione. Già Lamarck individua questo meccanismo in un rapporto dialettico tra l’individuo e l’ambiente, per cui è la necessità di essere sempre correlato nel modo migliore con l’ambiente che porta al cambiamento continuo degli organismi: se l’ambiente cambia di continuo, come dimostravano i geologi, allora anche gli organismi dovevano adattarsi a questi cambiamenti. L’adattamento -cioè la modalità con cui le strutture animali e vegetali sembrano apparentemente essere perfettamente modellate per compiere la loro funzione: l’ala di un uccello, l’ala di un pipistrello, l’ala di un coleottero- trova una spiegazione che non è più quella della teologia naturale, non occorre più scomodare Dio che nel primo giorno della creazione, con la lente d’ingrandimento, avrebbe costruito nel modo giusto la zampa del coleottero, l’adattamento è dato dal continuo rapporto dialettico animale-ambiente: l’ambiente cambia, l’animale cerca di rispondere ai cambiamenti ambientali trasformando le proprie strutture e adattandosi. La storia entra anche nella biologia. In Lamark c’era ancora l’idea, che era anche l’idea di Laplace, di un Dio che metteva in moto un meccanismo che poi, una volta in moto, procedeva in maniera autonoma; idea che corrisponde oggi al Dio che crea le sei particelle fondamentali e poi tutto procede secondo le leggi che governano il mondo fisico. Dietro la riflessione lamarckiana c’è una struttura meccanicistica ma non è questo che crea problemi di rapporti con la teologia. All'inizio la discussione con Lamarck è più raffinata di quanto non sarà poi con Darwin. La principale difficoltà ad accettare l’ipotesi lamarckiana consiste nel fatto che, attraverso essa, si possa mettere in dubbio l’unità del genere umano, che si possa, in altre parole, arrivare a pensare che i vari ceppi della famiglia umana derivino da gruppi diversi di scimmie, e questo incrinerebbe quello che si ritiene uno dei dati fondamentali del racconto della Genesi: l’unità della famiglia umana. Questa riflessione sul rapporto scienza-fede è molto raffinata e moderna ed è significativo vedere come essa spieghi l'esistenza di quelle che allora si chiamavano ancora “razze umane”, termine ora abolito dal punto di vista biologico, affermando che le varie popolazioni umane si erano evolute da un unico ceppo e si erano poi adattate per variazione casuale e selezione da parte dell’ambiente; riflessione, questa, dal sapore quasi darwiniano. Questa riflessione va avanti in tutta Europa, le polemiche un po’ rimangono in sordina e un po’ riesplodono. Con Darwin la situazione sembra drammatizzarsi di colpo. Per Darwin esiste una variabilità che è ereditata; di generazione in generazione ogni specie fa molti figli, ma solo pochi di questi raggiungono la maturità sessuale. La maggior parte non è in grado di riprodursi, si perde per strada. La natura sceglie, in ogni generazione, alcuni individui rispetto ad altri, opera una selezione. Darwin la chiama selezione naturale perché è il corrispettivo in natura di quello che fanno gli allevatori, se un allevatore vuole le pecore con il pelo lungo cerca di incrociare di generazione in generazione gli agnelli che sembrano mostrare il pelo più lungo. Con Darwin il modo di operare della natura cambia in modo drammatico, entra in gioco un’accidentalità che non era certo presente nei fissisti, i quali sottolineavano la provvidenza di Dio che si esprimeva nella perfezione dei viventi raggiunta mediante adattamento. Nella visione lamarckiana al cambiamento dell’ambiente l’animale riceve uno stimolo da qualche meccanismo interno e si adatta, cambia se stesso per adattarsi, nella visione darwiniana fa la sua comparsa il caso: la variabilità c'è ma non sappiamo come si forma, non è assolutamente detto che debbano avvenire proprio i cambiamenti giusti che consentano di rispondere alle variazioni dell’ambiente, l’ambiente agisce sul materiale che ha a disposizione, fa le cose come può, e spesso lo fa in maniera estremamente drammatica, quindi nella prospettiva darwiniana si introduce l'accidentalità. Darwin riflette molto su questo problema e in uno dei libri successivi “La variabilità degli animali e delle piante allo stato domestico” propone una metafora che chiarisce molto bene il suo punto di vista. Egli afferma che la selezione agisce come un architetto, il quale debba costruire una casa ai piedi di una frana utilizzando i sassi della frana. La forma dei sassi non è dovuta al caso. E’ dovuta alla struttura della roccia da cui provengono, alle forze d’erosione che hanno lavorato queste rocce fino a farle cadere, è dovuta agli urti che le rocce hanno subìto tra loro e con le altre pietre cadendo, ma non è funzionale all’uso che dovrà farne l’architetto. L’architetto quindi deve utilizzare in questa variabilità, formatasi per altre ragioni, le pietre che spera siano le più adatte, mentre le altre le scarta. Così agisce la selezione, apparentemente sembra saltare qualsiasi visione di un piano. Questa concezione di Darwin è stata il punto di riferimento per più di un secolo, oggi si pensa possano agire nell'evoluzione anche meccanismi non darwiniani, tuttavia Darwin rappresenta, secondo me, la fine della teologia naturale, è difficile, dopo Darwin, poter fare un’indagine sulla natura dei viventi in una prospettiva apologetica. Può essere splendido il modo con cui animali unicellulari, come i cigliati, muovono le ciglia in modo coordinato, ma questo non è il segno di un’azione diretta del creatore, non può quindi essere sfruttata in maniera apologetica. E’ facile fare dell’apologetica, come fanno alcuni fisici, rimanendo ammirati di fronte alle galassie, tanto belle e tanto lontane, ma i meccanismi dell’evoluzione li abbiamo sotto gli occhi e sono spesso drammatici. Il biologo non è più in grado di fare della teologia naturale. Wallace, scopritore con Darwin della teoria della selezione naturale, cercò di conciliare la sua teoria con la riflessione teologica, ritenendo che anche il meccanismo della selezione naturale fosse uno dei segni dell’armonia della creazione. Nel nostro secolo Teilhard de Chardin è colui che più ha lavorato per creare questa conciliazione. Teilhard era un gesuita e aveva fatto studi teologici ma era anche un paleontologo, ebbe la fortuna di andare in Cina e di rimanervi a lungo e di partecipare al gruppo di lavoro che scoprì l’uomo di Pechino. Lavorando in un ambiente che era molto più cosmopolita di Parigi conobbe paleontologi americani ed europei e qui ebbe la sua consacrazione dal punto di vista scientifico. Per Teilhard l’evoluzione è un dato di fatto: il risultato di una ricerca di tipo storico altrettanto provata come lo è il fatto che sia esistito l’impero romano. Ci sono meccanismi che la guidano e non sono esattamente deterministici, l’evoluzione non va avanti in maniera semplice e lineare per cui data una premessa deve venire necessariamente una conseguenza. Secondo Teilhard “l’evoluzione va avanti a tentoni tra il gioco dei grandi numeri e la casualità”, e procedendo a tentoni segue anche piste che poi vengono abbandonate, attraverso meccanismi che sono spesso drammatici e fonte di dolore. La riflessione evolutiva pone questa domanda di fondo: i meccanismi sono in parte drammatici ma nella loro drammaticità sono quelli che consentono un cammino non deterministico ma probabilistico, in parte libero, anche se poi mostra delle linee di tendenza. Questa è la parte del lavoro scientifico di Teilhard de Chardin sulla quale ho lavorato anch’io. Nell’evoluzione, quindi, c’è un cambiamento ma è anche un muoversi verso qualche cosa, con meccanismi anche drammatici l’evoluzione muove verso stati di maggiore complessità e, nella vita animale, sempre di maggiore coscienza. Pochi evoluzionisti sono d’accordo con quest’affermazione di Teilhard, nonostante egli la ricerchi sperimentalmente in tutti i gruppi fossili su cui lavora. Già nel suo lavoro di tesi, mette in evidenza le linee che nei vari gruppi portavano alla cerebralizzazione; l’evoluzione non è soltanto un cambiamento che procede a tentoni, ma, in questo procedere tentoni, segue alcune linee, è in parte canalizzata, porta a strutture sempre più cerebralizzate e quindi alla nascita della coscienza e all’essere umano. Per Teilhard la tendenza alla cerebralizzazione avviene non con meccanismi strettamente deterministici, ci sono spazi di libertà nel movimento d’evoluzione verso l’essere umano, spazi che hanno un prezzo, perché portano a strade sbagliate non perfettamente efficienti, quelle che in termini umani vogliono dire dolore. L’importante è che non possiamo più dire che il dolore entra nel mondo con il peccato dell’essere umano, con il peccato originale, non possiamo più affermare che c’è stato uno stato di perfezione che l’uomo ha sciupato. L’evoluzione ci porta a questo cambiamento fondamentale di prospettiva: l’universo, la terra, le specie non vengono create tutte bell'e fatte, è un universo che si fa nel tempo, perché se tutto fosse ordinato andrebbe mantenuto secondo il piano originario, perché l'intervento umano potrebbe solo cambiare in peggio ciò che era stato fatto direttamente secondo il progetto di Dio. L‘evoluzione non è banale, porta cambiamenti su cui dobbiamo riflettere, i meccanismi che noi vediamo in atto c’erano anche prima della comparsa degli esseri umani, fanno parte della stoffa dell’universo; secondo una frase di Teilhard “la vita nasce con tutto il suo carico di sofferenze, di dolore e di morte”, non si muore come conseguenza del peccato ma perché altri possano vivere, se l’universo è qualche cosa che si deve fare nel tempo, se l’ordine e la perfezione sono qualche cosa che si deve formare nel futuro, allora l’organizzazione deve essere fatta a partire da una materia in qualche modo disorganizzata, e l’organizzazione di questa materia disorganizzata comporta necessariamente un peso da pagare che è il dolore. La riflessione sul dolore è drammatica ma è una riflessione legata alla coscienza; se una medusa, organismo con un sistema nervoso primitivo, si muove e viene toccata con uno spillo, non sente dolore, sente uno stimolo negativo e si allontana; man mano che cresce la coscienza non basta più il semplice stimolo negativo, lo stimolo negativo deve essere rinforzato da qualche cosa che mandi un messaggio alla coscienza in maniera drammatica così che si allontani, deve essere sentito come qualche cosa di negativo, questo è un tipo di dolore. Lo stimolo negativo diventa dolore man mano che cresce la coscienza. Nell’essere umano, in cui la coscienza è al massimo, vi è il massimo del dramma e al contrario lo stimolo positivo diventa piacere; ad esempio posso stringere un coltello e tagliarmi, se sento solo dolore fisico posso anche vincere questa sensazione e continuare a premere tagliandomi sempre di più, ci vuole un rinforzo molto importante perché i miei sistemi di coscienza siano tali da farmi superare un semplice segnale d’allarme, ci vuole un rinforzo molto forte perché mi ritiri. C’è un altro aspetto drammatico che è legato direttamente ai meccanismi dell’evoluzione, la selezione naturale è un sistema che porta a tipi d’adattamento che nel complesso favoriscono una popolazione, e per far sopravvivere una popolazione spesso l’individuo può essere sacrificato. Un caso limite è quello dell’anemia falciforme, malattia che interessa l’emoglobina adulta, per cui quando un bambino soffre di questa malattia e comincia a produrre emoglobina adulta questa non funziona e il bambino muore. La malattia è dovuta ad una semplice mutazione in cui cambia una base nella sequenza del DNA, che a sua volta determina il cambiamento di un aminoacido nella struttura della proteina impedendo il normale funzionamento dell'emoglobina. La variabilità induce un cambiamento e questo cambiamento ha conseguenze negative per l'individuo omozigote che ne è portatore. A livello di popolazione però questo cambiamento è positivo, perché l'individuo eterozigote produce abbastanza emoglobina funzionale da permettere al bambino di crescere e di fare una vita normale ma il fatto che ci sia una parte di emoglobina sbagliata fa sì che il plasmodio della malaria non possa installarsi nei globuli rossi, per questo motivo la mutazione dell'anemia falciforme è molto diffusa nelle zone malariche. Dal punto di vista della popolazione si tratta di un meccanismo efficiente, la popolazione possiede questa diversità genica che permette di colonizzare ambienti estremi. E’ un meccanismo molto bello dell’evoluzione ma dal punto di vista umano comporta un prezzo enorme, è difficile separare in questa visione il bene dal male, poiché non si tratta di un male morale ma di un male fisico o meglio di un’alterazione di una struttura fisica che a noi, come esseri coscienti, porta dolore ed è vissuto in maniera drammatica. Abbiamo a che fare con meccanismi non strettamente deterministici, in cui la caratteristica fondamentale è il gioco probabilistico, in cui il problema di fondo è quello della libertà, che è poi tutto il mistero del nostro universo. Se accettiamo l’idea di un Dio creatore che è alla base di tutto, possiamo accettare che egli arrivi alla fine a creare una creatura talmente libera da poter rifiutare di lavorare al piano di Dio e per noi cristiani la libertà è tale che arriva ad uccidere il creatore. E’ possibile pensare che possa nascere una creatura libera all’interno di un universo già tutto precostituito, o che evolve non con i meccanismi della casualità, ma in maniera strettamente determinata? Questa domanda mi ponevo alla fine del mio libretto (L. Galleni, Teologia e scienza, Queriniana) e la risposta è no. E’ molto più sensato quest’universo, un universo che si muove anche a tentoni, con percorsi non strettamente definibili appunto perché il suo senso fondamentale, ontologico, è la libertà. Nel suo cammino evolutivo non arriva ad Adamo ed Eva, ma a quest’umanità che a poco a poco comincia a rendersi conto che possa esserci qualche forza che guida l’insieme, fino ad arrivare al primo essere umano moderno, colui che comincia pensare che Dio non sia nella natura: questo essere umano è Abramo, che accetta l’alleanza, ed ha come scopo il muoversi verso l’alleanza di Dio con la creatura per costruire la creazione. Si ritorna quindi all’idea di Teilhard: l’evoluzione come un muoversi verso…. In questo senso l’essere umano può diminuire le fonti di dolore che sono presenti nella creazione proprio perché ha la possibilità di costruire la terra. Tuttavia gli esseri umani hanno introdotto una terza fonte di dolore, e questa è la prova drammatica che l’alleanza fin dall’inizio non è partita. Oltre al dolore come risposta ad uno stimolo, al dolore dovuto all’imperfezione dei meccanismi evolutivi, c’è anche il dolore di un essere umano che ferisce, che uccide, che affama un altro essere umano. Lo scrittore biblico racconta con l’allegoria del peccato originale e poi con il delitto di Caino contro Abele la prova della mancata alleanza e dell’essere umano che uccide il suo simile, ma l’alleanza ha una funzione diversa, l’alleanza è per costruire la terra, non soltanto per la salvezza futura, escatologica, ma perché il processo evolutivo vada avanti, pur nel rispetto dei meccanismi dell’evoluzione, con la prospettiva di costruire una nuova umanità che sia pronta per convergere verso il punto omega, sia pronta per la seconda venuta di Cristo. Questa prospettiva pone l’essere umano come strumento d’interazione tra Dio e la creazione, Dio non interviene direttamente nella creazione ma interviene attraverso la creatura da lui creata, che liberamente accetta un’alleanza. Gli esseri umani dovrebbero lavorare per costruire la terra nell’alleanza con il creatore, perché, come dice Moltmann nel suo libro “Dio nella creazione”, gli esseri umani devono costruire una terra di cui Dio goda del riposo del settimo giorno, il che significa che il compito di costruire la terra è della creatura libera e pensante, che può lavorare per una creazione di cui Dio goda. Non è andata così, almeno fin ora, gli esseri umani non hanno lavorato perché Dio godesse della creazione. In un libro di Wiesel Dio chiede conto all’uomo del perché abbia rovinato la creazione, ma penso che siamo ancora in tempo a porre rimedio alla situazione che si è creata, ci può aiutare l'aver capito quali sono i meccanismi evolutivi che hanno permesso il mantenimento della stabilità di certi parametri che hanno consentito alla biosfera di sopravvivere fino a generare un essere cosciente. E' nel rispetto di queste regole che noi possiamo costruire la Terra. La prospettiva Teilhardiana è antropocentrica, l’essere umano è il risultato in qualche modo necessario dell’evoluzione, non è in alternativa alla natura ma è un prodotto della natura, perciò non può rompere i legami con la biosfera e non può alterare i meccanismi con cui la biosfera l’ha prodotto, se non a costo di giungere a delle catastrofi che poi non saprà controllare. Uno dei punti chiave della stabilità della biosfera è quello dello sviluppo della diversità, una diversità biologica, che diventa una diversità culturale che va protetta, perciò l’idea che può salvare la biosfera non è quella dello sviluppo sempre dovunque e comunque, ma quella del recupero di culture diverse dalle nostre, ma adattate alla conservazione della biosfera molto meglio di quanto non sappiamo esserlo noi. La teologia del domani dovrà essere uno sviluppo della teologia del contesto, teologia che parte dalla riflessione concreta ed anche la teologia della natura diventa teologia del contesto, la natura che fa teologia attraverso di noi ponendosi il problema della propria sopravvivenza e che si lega alle altre teologie del contesto come la teologia della liberazione o la teologia femminista. Tutte queste voci concorrono a darci una prospettiva per il futuro, perché noi sappiamo che la vita sulla terra ha una storia, che gli esseri umani sono prodotto di questa storia, e poiché ne conoscono i meccanismi, devono diventarne in qualche modo la forza e la guida nella prospettiva di costruire una terra di cui Dio goda del riposo del settimo giorno. Conversazione tenuta presso la Fondazione “Serughetti-La Porta” il 05/03/99. Testo non rivisto dall’Autore.
 

logo - vai alla home page
Fondazione Serughetti Centro Studi e Documentazione La Porta
viale Papa Giovanni XXIII, 30   IT-24121 Bergamo    tel +39 035219230   fax +39 0355249880    info@laportabergamo.it